Quis – Capitolo 8

Ritorno nel Ghastengarda

Illustrazioni di Francesca Duo

“Ah, che nostalgia!” disse papà, stranamente allegro, quando partimmo la mattina seguente. “Mi ricorda le mie prime avventure con Quis, al fianco di mio padre, quando avevo la tua età…”.

Passammo di nuovo davanti alla bancarella di frutta secca del generoso Anselmo, che ci salutò caloroso, ma purtroppo papà non si fermò. Presto arrivammo alla stessa viuzza dell’altra volta. Questa volta scoprii un nuovo dettaglio: fu proprio papà a richiamare il corvo spargi-nebbia, con un piccolo rito strano. Prese uno scalpello e con grande cura lo mise orizzontale in equilibrio perfetto su un dito esteso della mano sinistra. Poi, con altrettanta cura, prese il martello e diede quattro colpi leggerissimi alla lama dello scalpello, con un ritmo particolare: ta ta TA ta.

“Ecco,” disse a me e Pietro, “serve farlo tre volte per chiamare Becherta”.

“Chi?”

“Il corvo”.

“Ah”.

“Fai tu il prossimo, Pietro?”

Mio cugino fece cenno di sì. Matteo lo aiutò a mettere lo scalpello in equilibrio sul dito e gli diede il martello.

“Tieni. Lo faccio con te” gli disse. Pietro tenne il martello e Matteo tenne la mano di Pietro dentro la sua mano molto più grande. Insieme, fecero ta ta TA ta.

“Bene,” disse papà, “ora tocca a Faro”.

“Posso farlo da solo, papà? Ce la faccio…” implorai.

“Se non ti viene bene…” papà era incerto, poi mi guardò negli occhi “va bene lo stesso. Provaci”.

“Grazie papà!”

Effettivamente ci misi un sacco di tempo a mettere lo scalpello in equilibrio e poi quando allungai la mano per il martello cadde, e dovetti ricominciare. Povero papà, era impazientissimo, si trattenne e non disse niente, lasciando mi fare. Dopo un po’ lo scalpello era messo bene.

“Bene, ora devi fare i colpi più leggero che puoi, altrimenti fai cadere di nuovo lo scalpello”.

“Va bene, papà”.

Concentratissimo, feci ta ta TA ta.

“Bravissimo!” dissero papà e Matteo insieme.

“Vedi? Te l’ho detto che ce l’avrei fatta…” e gli porsi gli attrezzi.

 “Ssst. Non lo senti?”

Restammo tutti in silenzio, e udii un rumore… un battito di ali. Come la prima volta, il corvo nero – Becherta – scese nella viuzza, e si posò su una trave per un attimo.

“Incredibile!” dissi, “ma papà, è così facile? Lo potrebbe fare chiunque. Non sarebbe poi un segreto”.

“Eh, no, Faro, innanzitutto non finisce qui. Ci sono ancora due prove da affrontare prima di entrare nel Ghastengarda. E poi, Becherta non viene per chiunque. Solo un capomastro che fa il ritmo con gli stessi attrezzi che userà per scolpire il racconto può chiamare il corvo del mondo dei racconti”.

Becherta lo guardò con un occhio nero, e mio papà fece un leggerissimo inchino.

“Papà, anche gli altri capomastri sanno del Ghastengarda?”

“Non tutti. Siamo in tre famiglie, ma facciamo i modelli per tutti. Altrimenti, come si potrebbe costruire tutta una basilica ricoperta di figure?”

Salutato mio padre, Becherta dispiegò nuovamente le ali e se ne andò su e giù spargendo nebbia, riempiendo pian piano tutto lo spazio di un grigiore fitto e misterioso. Poi, il corvo se ne volò dentro la nebbia, scomparendo.

Papà guardò severo me e Pietro.

“Ragazzi, c’è una promessa che mi dovete fare prima di entrare nella nebbia”.

Lo guardammo con serietà solenne.

“Dentro il mondo del racconto, dovete solo e soltanto guardare. Non dovete toccare nulla, non dovete fare nulla. Solo guardare. D’accordo?”

Facemmo entrambi un cenno di sì con la testa.

“Allora, seguiamo Becherta!” disse papà.

Come la prima volta, dentro la nebbia ci trovammo in una via diversa, strana, con muri liscissimi e coperti da simboli strani dipinti con colori vivaci. Camminammo un poco senza parlare. Guardavo i simboli e mi chiedevo cosa potessero significare. Papà si fermò davanti a una parete larga, con tanti disegni strani.

“Ecco” disse, “la prima prova. Dobbiamo capire qual è il simbolo giusto. Spiegò a me e Pietro. “Le ultime tre pietre per la facciata rappresenteranno le virtù della Fede, della Speranza e della Carità. L’altro giorno abbiamo visto il racconto della Fede, i pesci. Ci serve ora il racconto della Speranza. Secondo voi, quale immagine sarà? Posandoci sopra la mano, questi disegni aprono portali ai racconti, ma ce ne sono tanti. C’è un vero labirinto di racconti dietro questa parete. Non possiamo sbagliare…”

Matteo venne avanti.

“La spada di certo no, direi” disse, indicando un disegno senza toccare la parete. “Significa tutto tranne la speranza, nella mia esperienza. Ragazzi, voi che dite?”

Guardai tutti i disegni, ma non trovai la Speranza. Era più facile dire quello che non si doveva toccare.

“Nemmeno le monete d’oro, vero papà?”

“Mmmm…direi di no, Faro. Il denaro non è speranza, benché a volte gli sciocchi lo scambiano per essa. Certo, oggi il rebus è difficile. Certamente la speranza non sarà questo leone addormentato…”

“E nemmeno il drago rampante…” aggiunse Matteo.

“Non so, neanche questo pavone che beve da una coppa non mi sembra la Speranza…” feci io.

Fu Pietro che, senza dire una parola, indicò il disegno più piccolo di tutti.

“Cos’è, Pietro?” Fece Matteo.

“Non è un seme, papà? Può essere?”

Lo guardammo tutti. Era un seme.

“Si, si, sono d’accordo con te Pietro” disse papà. “È vero che è una cosa piccola, ma può diventare qualcosa di più grande. Secondo me, questo è il disegno che fa per noi. Matteo?”

“Si, d’accordo. Bravo Pietro.”

Papà mise una mano sulla spalla del piccolo cugino.

“Allora, ci posi la mano tu?”

Pietro mi guardò.

“Fallo tu, Pietro” dissi.

“Sicuro?”

“Certo.”

Posò la mano sopra il disegno e… la parete tutto attorno scomparì, al suo posto un’apertura completamente buia. Ora Pietro guardò mio papà un po’ spaventato.

“Tranquillo,” gli disse papà, “non ti farò entrare per primo. Vado io avanti, tuo padre per ultimo, va bene? Così voi ragazzi siete in mezzo, e non perdiamo nessuno.”

Dentro il buio per qualche tempo ancora non vedemmo niente. Andammo avanti a passo lento, con papà che ci incoraggiava.

“Forza, sempre avanti piano, vediamo quale scherzo ci fa Quis oggi. C’è ancora una prova.”

Presto però quel buio pesto cominciò a schiarirsi e andavamo verso una luce proprio come quella della viuzza di prima. Anzi, emergemmo proprio nella viuzza di prima, sempre piena di nebbia fitta.

“Non è che abbiamo sbagliato nel buio, e siamo tornati indietro?” chiese Matteo dietro di noi.

Papà non sembrava per niente sicuro.

“Possibile?”

Craaaaa, craaaaa.

Il corvo stava davanti a noi, in aria, in mezzo al grigio nulla… ma non batteva più le ali. Come faceva restare in aria? Papà ci fece avvicinare. Piano piano vedemmo che il corvo era posato sopra qualcosa… ma che cos’era non si vedeva per la nebbia. Piano piano, con passo felpato, io e Pietro ci avvicinammo. Ora il corvo si vedeva muovere… con un salto e due battiti di ali si spostò più in alto… ripeté il gesto una volta, poi un’altra… si stava arrampicando… in alto… verso una macchia di nebbia luminosa molto in alto. Non poteva essere altro che il sole… Becherta andava sempre più in alto, posandosi dopo ogni salto su… su che cosa?

Ci avvicinammo, fino a capire che era un… albero! Un albero lì, nella viuzza! Ma non un alberello sottile, come si piantano a maggio ai crocevia con tanto di musica e balli. Questo era un tasso… come dire, vasto. Ed era vecchio, anzi, era proprio antico. Spuntava dalla terra con un tronco larghissimo, non tondo e liscio ma tutto a nodi e a costole, e anche spazi vuoti, come se fossero più tronchi diventati uno. Si alzava verso il cielo con rami curvi, intrecciati, ognuno spesso quanto un uomo cresciuto.

Aspetta… ma… la viuzza… non era stretta? Come poteva starci dentro un albero così enorme?

Ecco, quasi non c’eravamo accorti, ma in quella nebbia magica i muri dei palazzi non erano scomparsi soltanto dalla vista: erano proprio scomparsi del tutto. Voglio dire, completamente! Non c’erano più. Neanche un mattone. I palazzi erano scomparsi. La città non c’era più. In tutta quella nebbia c’eravamo solo noi, l’albero e Becherta.

Papà sospirò profondamente. Sapevo a cosa stava pensando: il corvo era tanto, ma tanto in alto.

“Niente,” disse lui, “mi sa che dobbiamo seguirlo… fin lassù…”

Per primo andava arrampicandosi mio papà, gli occhi chiusi stretti, sudore freddo sulla fronte e la faccia sbiancata per le vertigini. Poi seguivamo noi ragazzi, e poi Matteo seguiva più in basso, guardando su per vedere dove andava mio papà, e dicendogli come mettere mani e piedi.

“Forza, Faramundo,” diceva, “un po’ a destra… stendi il braccio di più… si, va bene, prendi quel ramo. Ora alza il piede sinistro…” e avanti così.

Che bel disegno che saremmo stati! Tutti ad arrampicarsi verso il sole, seguendo un uomo con gli occhi chiusi, sull’albero più grande del mondo.

A proposito, vi ricordate che ogni ramo dell’albero era spesso come il torso d’un uomo cresciuto? Ecco, per una strana magia quando toccava a noi più piccoli salire per gli stessi rami, erano grossi soltanto quanto i nostri corpi. E come se non bastasse, i rami che prima sembravano tanto lontani l’uno dall’altro, ora erano abbastanza vicini perché un ragazzo potesse raggiungere sempre il prossimo appiglio per arrampicarsi. Visto? Il Ghastengarda è così.

Quando papà raggiunse il ramo, altissimamente in alto, dove Becherta si era fermato, dalla nebbia attorno si sentì quella voce chiara e squillante che oramai conoscevamo.

La nebbia avvolge le verdi foglie
I rami, il tronco, la terra stessa
Densa e bianca, soffice accoglie,
Di un sole nascosto luce riflessa.
Figli di scultori,
E padri lor tutori,
Allungate la mano

Afferrate quel bagliore lontano!

“Quis!” disse papà. “Vuole che noi afferriamo… ho capito bene, ragazzi, vuole che afferriamo il sole?”

“Non è possibile!” disse Pietro. Fui fiero di lui, qualche tempo prima sarebbe rimasto zitto per paura di dire la cosa sbagliata. Si stava sciogliendo un po’, nella nostra compagnia.

“Afferrarlo? Non si vede nemmeno!” dissi io per sostenere Pietro. “Ci credo solo se lo vedo.”

Per la grande sorpresa di noi ragazzi, mio padre e Matteo risposero con le stesse parole allo stesso tempo:

“Se credi soltanto a quello che vedi, vedrai soltanto quello in cui credi.”

Furono sorpresi anche loro. Papà addirittura aprì gli occhi e guardo in giù verso il cugino, poi li chiuse di nuovo in fretta, barcollando sul ramo.

“Me lo diceva sempre il nonno,” disse papà, intendendo suo nonno, mio bisnonno.

“Non l’ho mai conosciuto,” Matteo rise, “lo diceva sempre mio papà.”

Mio padre sorrise, con aria nostalgica. “Lo zio Ricciardo… Va bene,” disse papà, “è sempre così: quando Quis mi chiede l’impossibile, chiudo gli occhi e penso al vecchio nonno, e ci provo.”

Allungò la mano destra più in alto possibile, verso il cuore luminoso della macchia dorata di nebbia sopra di noi.

“Sento qualcosa…”

Lasciò la presa sull’albero con l’altra mano, e si sporse completamente dal ramo. Con un grugnito per lo sforzo, si tirò su di peso e… scomparve nella nebbia. Per fortuna non caddi giù per la sorpresa, com’era successo la mia prima volta nel Ghastengarda.

“Forza, Faro e Pietro,” disse Matteo dal suo ramo più in basso, “anche voi adesso.”

Ci arrampicammo fin sul ramo dove Becherta stava, posato e tranquillo a guardarci, e anche noi allungammo la mano verso il sole nascosto. Sentii qualcosa di duro, rigido e fermo, dal tocco simile ai rami dello stesso albero. L’afferrai anche con l’altra mano, e mi tirai su…

…e mi ritrovai appeso a un ramo di albero. Un altro albero di tasso, più piccolo, più normale, e non più nella nebbia, ma al sole. O meglio, la luce del sole che attraversa le foglie di un bosco, tutta screziata e verdastra. Perché questo albero non era solitario, ma parte di una grande foresta. Mi sistemai comodo sul ramo, e mi guardai attorno. Papà stava più fermo possibile, occhi sempre chiusi, su un altro ramo vicino. Pietro era al mio fianco sullo stesso ramo. Sentimmo un fruscio di foglie sotto: era apparso pure Matteo.

“Siamo tutti qui?” fece papà.

“Tutti” disse Matteo.

“Benissimo, questo è il mondo del racconto. Ma dov’è Quis? Guardate in giro, voi che potete.”

Subito, giunse la voce di Quis da sotto.

Ecco, quaggiù mi trovate
Se lo sguardo abbassate.

E infatti il ragazzo dal viso angelico stava seduto su una radice sporgente dal terreno?? del nostro albero.

“Scendiamo da te, buon Quis?” chiese papà.

Venite, arriva una mia conoscente,
Che pronuncia la sorte di ogni nascente.
Il tempo preme, conosceremo insieme
L’eroe e il seme del racconto e della speme.

“Va bene, Quis” disse papà. “Soltanto che, io ci metterò un po’ di tempo, sai com’è. Ragazzi, mi aiutate voi a scendere?”

Con tanto di “un po’ più a destra, papà” e “un po’ più giù,” e “abbassa la gamba destra” e “no, no, un po’ su a sinistra” riuscimmo pian piano ad aiutarlo a scendere dall’albero. Toccando il suolo, mi accorsi per la prima volta che la terra sotto l’albero non era piana, ma in pendenza… eravamo in montagna! E ciò significava che non eravamo certo vicino a Pavia, circondata com’è da una vasta pianura. Ma che meraviglia! Fino a quel momento avevo dato per scontato che la magia del Ghastengarda era comunque confinata alla mia città…

Quis ci osservava sorridente e forse un poco impaziente.

Nell’attesa distesa della vostra discesa,
è salita spedita la persona avvertita.

E di fatto una giovane donna stava salendo tra gli alberi e piccoli cespugli, un copricapo di stoffa bianca in testa. Sul sentiero appena sotto di noi, si fermò, guardò Quis, a cui fece/che le fece un piccolo cenno rispettoso con la testa, come per dargli il benvenuto. Capii che i due si conoscevano già. Poi, senza dire parola, la giovane donna proseguì sul sentiero, e Quis ci fece cenno di seguirla. Sempre un po’ a distanza e senza parlare, camminammo nelle orme della donna fino a quando il bosco si aprì in una piccola radura, rivelando un panorama che mi tolse il fiato. Sotto di noi si vedevano chiaramente una serie di grandi massi grigi, ciascuno grande come una capanna, e sotto ancora il fianco verde e spiovente della montagna che si stendeva fino al fondo nascosto di una profonda valle. Ma la cosa più sbalorditiva era vedere un’altra montagna direttamente davanti a noi: svettava maestosa al sole, tutta scintillante di neve e ghiaccio, una cosa mai vista per noi ragazzi delle città di pianura. Da Pavia, nelle giornate più limpide, si vedono i picchi delle Alpi in lontananza, ma fino ad allora mi ero soltanto immaginato cosa si potesse provare a essere in mezzo a simili giganti rocciosi. Pietro era rimasto di stucco come me, e perfino Matteo. E papà? Chissà quante cose splendide aveva visto dentro il Ghastengarda… eppure rimase a bocca aperta davanti a tale splendore. Quis era deliziato dalla nostra reazione.

Che gioia fare vedere a nuovi amici
Un mondo di meraviglie incantatrici!

La giovane donna stava andando… dove? Non l’avevo notato a prima vista, ma c’era un piccolo villaggio nascosto fra i massi grigi sotto la radura. Fumo saliva dai tetti di paglia di una manciata di casette costruite in pietra grezza con tanta cura da essere perfettamente tondi (i tetti?). Infatti, si confondevano con i massi, e sembravano propaggini della roccia viva della montagna stessa. Bambini vestiti di lino grezzo giocavano per terra con dei cani, e capretti salterellavano attorno a una pila di fieno. Una signora corse incontro alla giovane donna.

“Dama Bianca, ringrazio il cielo che sei qui. Presto, presto…”

“Tua sorella partorisce” disse la giovane. La signora sgranò gli occhi.

“Ma come fai a saper…? Oh. Ah, si. Certo.”

“Non stare lì sbalordita. Portami da lei.”

“Si, si, presto, di qua.”

Entrarono in una casa al confine tra il villaggio e il bosco. Una piccola folla si era creata attorno, tra bambini i paesani, che guardavano curiosi la Dama Bianca. Prima di entrare in casa, si tolse il copricapo. I suoi capelli erano bianchi. Non il bianco di un anziano… è difficile spiegare, erano di un bianco folto e rigoglioso, quasi lucevano. Ci fu un sussulto di stupore tra tutti.

La Dama Bianca era entrata da poco tempo quando uscì un uomo, sicuramente il padre del nascituro perché cominciò a dare ordini ai bambini attorno alla porta, dicendo: “La Dama porterà alla luce vostro fratello, non serve stare qui incantati. Tu puoi spaccare la legna, tu puoi fare il fuoco, tu puoi prendere acqua dal ruscello… tu puoi fare erba per i conigli, tu puoi prendere le uova… e tu, piccolo, puoi venire con me.”

I fratellini erano ben sei, tutti dai capelli rossicci e riccioluti, e tutti maschi! Mentre si davano da fare, ogni tanto si fermarono e guardarono verso casa, gli occhi grandi e tondi, quando si sentì la loro mamma gridare per il dolore.

“Papà,” sussurrai, “anche la mamma griderà così quando nascerà il fratellino?”

“Il fratellino o la sorellina…” mi corresse con un sorriso, “certo,” mi mise un braccio attorno alle spalle, “ma tranquillo, è normale. Se questa signora ha già sei figli, vedrai che non ci vorrà molto tempo.”

Detto fatto. Presto, le grida tacquero, e dopo un altro po’ la Dama Bianca emerse dalla porta della casa, asciugandosi le mani sul grembiule. Si sistemò i capelli, e rimise il copricapo. La folla di paesani si era riformata, ma questa volta a una discreta distanza: guardarono la Dama con profondo rispetto. Il padre si avvicinò, il figlioletto più piccolo a suo fianco con un cestino pieno di tortine in mano.

“Ma grazie, piccolo,” disse la Dama Bianca, abbassandosi con un sorriso. Non mi ero accorto prima, era davvero tanto bella. Strana, con i capelli bianchi e occhi color ghiaccio, ma bella. “Tu hai un nuovo fratello. Non sei più il bambino della famiglia, adesso sei uno dei grandi.”

Il piccolo fece una risatina felice, e le porse il cestino. Lei lo prese, e gli dette un bacino sulla guancia. Alzandosi, la Dama Bianca parlò con il padre.

“Anche tu hai sei fratelli maggiori, tutti maschi, non è vero?”

Il padre annuì, solenne.

“Allora,” disse lei, “non dubito più di quel che ho visto. Un giorno, tuo figlio nato oggi conoscerà la montagna meglio di chiunque altro, meglio ancora dei nostri camosci bianchi. Sarà un cacciatore famoso, un arciere senza pari. Sarà colui che colpirà con il suo arco il possente camoscio bianco, Corna d’Oro… e porterà nella Valle del Soča il suo tesoro.”

Il padre aveva incominciato a sorridere per la contentezza, sentendosi raccontare il prodigioso talento futuro del neonato. Ma queste ultime parole gli congelarono il sorriso sulle labbra, e tra la gente del villaggio ci fu dapprima un silenzio stupefatto, e poi un sussurro, un mormorio, “Corna d’Oro! Il tesoro di Corna d’Oro! Nessuno ha mai osato… Nessuno ha mai sperato…”

Quis – Capitolo 7

Il profeta

Illustrazioni di Francesca Duo

Arrivati alla basilica, avevamo un solo pensiero: il vuoto dentro le nostre pance. Tirai la tunica di Matteo.

“Cugino Matteo, la mamma ha dato il pranzo a te, vero?”

“Cosa? Oh, ah… sì. Un attimo, l’ho lasciato al nuovo concio”.

“Dai, veniamo con te. Ho tanta voglia di vederlo”.

“Anch’io” disse Pietro.

“Va bene, venite”.

Dopo un po’ di pane e castagne, tutto il mondo sembrava più bello, e con Pietro guardammo bene il blocco di pietra. Certo, il lavoro era ancora all’inizio, ma già si vedeva a grandi linee la scena che papà e Matteo andavano scolpendo: i fratelli pescatori con i quattro storioni appesi a un lungo bastone portato in spalla.

“Il pesce” diceva Matteo con aria da catechista, “è un antichissimo simbolo della fede cristiana, sin dai tempi dei martiri. Come ben saprai, il nostro Signore disse ai suoi discepoli di seguirlo, promettendo di farli diventare pescatori di uomini”. Secondo voi, cosa voleva dire con questa frase?”

Povero Matteo, ancora non mi conosceva bene.

“Da quelle parti c’erano uomini che vivevano nel mare come pesci?” chiesi con finta meraviglia.

Al posto di Matteo, papà avrebbe sospirato rassegnato, ma suo cugino mi guardò sconcertato.

“No… non è proprio quello…”

“O forse c’erano degli uomini che mangiavano vermi, come i pesci” aggiunsi io. Poi guardando il concio: “peccato non c’è il verme”.

“Come?” Matteo sbatté le palpebre, confuso.

“Il verme fatto dalla strega con il capello della donna”.

“Oh!” batté le palpebre e scosse la testa, probabilmente per togliere dalla mente l’immagine di uomini che vivono nel mare e mangiano vermi. “Vero, mi ero dimenticato. Ma… conoscevi già la storia allora?”

“Cosa?”

“Non l’ho detto ieri sera, mi è sfuggito. Te l’aveva già raccontato qualche altra volta tuo papà?”

“Oh, ah…” maledizione, non fui veloce abbastanza a riprendermi dalla sorpresa, e Pietro, quel dolce, mite, onesto ragazzo, ebbe il tempo di reagire. Sbiancò in faccia e quella sua mano sinistra si mise a tremare. Suo padre, riconoscendo questi segni, capì che qualcosa non andava, e si fece tutto severo. Beh, rispetto a mio papà o mia mamma, non era poi tanto severo, ma per intimidire Pietro bastò.

“Che cosa è successo, Pietro? Io ti conosco, mi stai nascondendo qualcosa”.

E Pietro, incapace di mentire com’era, confessò tutto.

“Eravamo con voi tutto il giorno ieri… vi abbiamo seguito di nascosto… Siamo entrati anche noi dentro… dentro quella nebbia strana… dove c’era il corvo, e poi l’altro corvo, e la barca nel buio… come si chiamava, il Ghastengarda…”

Io intanto nascosi la faccia fra le mani.

Matteo avrebbe dovuto punirci, o quantomeno farci una bella sgridata, ma tutto sommato non poteva fare più di tanto, lì per lì: non sapendo quante persone al cantiere erano a conoscenza del segreto del Ghastengarda, non poteva certo urlarci dietro. Non ci diede nemmeno delle sonore bastonate, pensando che qualcuno gli avrebbe chiesto perché (e nel caso di Pietro aveva ragione, ma nel mio caso nessuno lo avrebbe notato, abituati com’erano a vedermi prendere le bastonate). Così, ci riprese severamente ma sottovoce, e ci rimandò dal maestro per finire la scuola. Da parte mia, riuscivo a concentrarmi, ma Pietro accanto a me era agitatissimo.

“Pietro, che cos’hai?” Gli sussurrai quando il maestro era distratto.

“Ho paura di quel che dirà tuo padre. Lui mi spaventa”.

“Ma no, dai, fa scena di essere severo, ma sotto sotto è buono”. Lo rassicurai, ma non fece grande effetto. La sua mano continuava a tremare di tanto in tanto, e le sue lettere incise nella sabbia erano tutte storte.

Quando papà tornò, accompagnava sempre l’ambasciatore dei milanesi e i suoi cavalieri. Il nobile milanese, Ugo de’ Visconti, gli stava dicendo:

“…davvero, tu e tutta la tua famiglia, insisto. Mi è evidente che, per quanto non sia ancora convinto del messaggio che io desidero diffondere venendo qui, ti comporti con grande integrità, insistendo con i tuoi concittadini affinché mi diano ascolto rispettoso, nonostante la tragica inimicizia trascorsa in passato tra le nostre due città”.

Mah! Voglio dire, non sapeva parlare semplice questo milanese?

“Ti ringrazio” fece papà imbarazzato “ma noi siamo gente semplice…”

“Insisto, davvero. Dopo essere stato immerso una giornata intera nella complessità dell’assemblea, mastro Faramundo, la compagnia della gente semplice mi aiuterà a tenere a bada i pensieri cupi”.

Papà sospirò, ma dalla sua espressione capii che, qualunque cosa gli stava offrendo il nobile, sotto sotto voleva tanto accettare.

“E va bene, verremo”.

“Ne sono davvero rallegrato. Manderò il mio paggio per tutte le compere del caso. Sarà una serata modesta, ma festosa”.

Quando i cavalieri se n’erano rientrati nella casa canonica, il viso di papà s’illuminò con un ampio sorriso, e mi diede una pacca sulla spalla.

“La mamma stasera mangia carne, Faro, mangia carne! Ringraziamo il cielo, saranno settimane ormai. Povera donna, che lavora tutto il giorno, incinta…”

“Ah… non ho capito papà”.

“La nostra famiglia è invitata a mangiare con l’ambasciatore e i suoi cavalieri nella casa canonica stasera. Si vede che piaccio a questo Ugo de’ Visconti”. Guardò Matteo un po’ incerto. “Non ho cercato mai di piacergli, ho solo fatto il mio dovere.”

“Per questo gli piaci” disse Matteo “durante l’assedio di Tortona si è mostrato un uomo retto, onesto, anche generoso. E per mostrare queste qualità, di questi tempi difficili, serve prima ancora essere coraggioso. È forse l’unico milanese di cui mi fiderei”.

“Ne sono tanto felice”. L’umore di papà era veramente ottimo. Peccato che si doveva rovinare subito.

“Cugino,” esordì Matteo “purtroppo ti devo dire una cosa un po’ meno felice. Questi nostri figli hanno combinato una birbonata ieri, e l’ho scoperto per caso stamattina”.

Papà divenne subito iroso e rosso in faccia, e guardava me. Voglio dire, perché? Matteo aveva detto questi nostri figli e non questo tuo figlio. Eppure, lui guardò solo me. Che ingiustizia!

“Ci hanno seguiti” diceva Matteo, “dentro il Ghastengarda. Pare che abbiano visto tutto. Quis, i pescatori, la fattucchiera, lo storione stregato, tutto”.

L’ira di papà raddoppiò e da rosso la sua faccia divenne porpora. Eravamo pur sempre nel bel mezzo del cantiere, e non poteva gridare molto forte, ma compensò alla grande con le minacce sibilate.

“E pensare che tua madre vuole convincermi di portarti con me nei viaggi… Ti farà tanto male il sedere che non ti potrai sedere più per un mese! E poi ti…”

…quando Pietro, pallido e rigido tranne la solita mano sinistra tremolante, lo interruppe:

“Signor Faramundo, per favore, è stata la mia idea”.

Silenzio.

Tutt’e tre lo guardammo stupefatti. Poi, ricordando la mattina precedente, dissi:

“Beh, effettivamente lui…”

“Zitto tu!” papà teneva gli occhi su Pietro, e chiese con voce più mite: “Che cosa intendi, piccolo cugino?”

“Io ho detto a Faro più volte, voglio andare con mio papà, voglio andare con mio papà… non volevo stare senza lui, sapete, mi sento tanto solo qui, non conosco nessuno, e… e poi… è mio papà e voglio stare con lui…”

Cavoli! Pensai. Che ragazzo garbato che è mio cuginetto. Da parte sua, papà era rimasto senza parole, anzi, si era un po’ commosso, stava cercando di nascondere gli occhi umidi sbattendo le palpebre come se un moscerino gli fosse andato nell’occhio. Ebbi allora il tempo di chiedermi: Ammetto che è stata però la mia idea di seguirli, o sto zitto? Ero in conflitto con me stesso. Dai, Faro, non dire niente, Pietro ti sta coprendo benissimo. Tanto, a lui non succederà niente. Non lo puniranno mai. Stai zitto e tutto va benone…

Nonostante quella voce cinica dentro me, con grande meraviglia mi sentì dire: “Papà, quello che dice Pietro è vero. Ma sono stato io a dire di seguirvi di nascosto”.

Ma sante nespole! Ma quale cattiva influenza era questo cugino su di me? Forse per la prima volta in vita mia avevo ammesso una mia colpa senza necessità. Brutta, bruttissima piega questa.

Gli occhi di papà, intanto, si erano asciugati in fretta e la rabbia tornata, anche se meglio controllata di prima.

“Adesso ti dico cosa succede, Faroaldo. Tra un giorno o due io e il papà di Pietro dobbiamo tornare nel Ghastengarda. Abbiamo pochissimo tempo per completare la facciata, e dopo questo rimangono altre due sculture. Ciò significa altri due viaggi con Quis. Ora, ti dico una cosa: il nonno mi portò con lui nel Ghastengarda per la prima volta quando avevo più o meno la tua età. Ma io ero un ragazzo serio, non un piantagrane nato come te. Perciò la prossima volta Pietro verrà con noi, e tu rimarrai qui. Per punizione”.

Per fortuna c’è la mamma. Non perché sia meno severa di papà. Vi dico la verità, quando si arrabbia lei mi fa ancora più paura di papà, anche senza alzare la voce. E filo dritto come non mai. Ma la mamma è più saggia. Durante la cena quella sera, nella casa canonica assieme a Ugo de’ Visconti e i suoi cavalieri, io facevo finta di ascoltare uno dei paggetti milanesi, Tebaldo, che parlava con un gruppetto dei suoi simili, ma in realtà stavo origliando quello che dicevano i miei genitori. Non era facile affatto, in mezzo a tutti i rumori della festa: le chiacchierate e le risate, la musica del liuto di un altro paggio, e i passi di chi ballava. Non ero mai stato a una festa, ed ero affascinato dall’atmosfera colorata, gaia, e dalla ricchezza della compagnia. Ma ero ancora più interessato a capire cosa dicessero i miei.

“…è per il suo bene”. Era papà. “Prima o poi deve imparare a controllarsi”. Era stranissimo vederlo con un calice in mano e non una scodella di creta. “Il bambino è troppo irresponsabile. Lascia stare il Ghastengarda, hai saputo cosa mi ha combinato ieri al fiume? Non vedi come Pietro si comporta in modo diverso?”

“Faro non è più un bambino”. La mamma ribatté. “E come potrà mai a diventare più responsabile se non gli diamo responsabilità? Dovresti portartelo. È ora che impari. Tanto, i due ragazzi sono già entrati una volta, il segreto lo conoscono. E non è giusto punire solo Faro e non Pietro, erano insieme”.

Papà fece una faccia scura, ma non seppe rispondere. Dopo un po’ disse: “Il Ghastengarda può essere pericoloso”.

“Esatto. Meglio che entrino sotto i tuoi occhi, e non di nascosto. Gli poteva succedere qualunque cosa”.

Papà sospirò, esasperato. Vide quanto era inutile andare avanti così, e si arrese.

“Va bene, va bene. Lo porterò con me. Ora, prendi ancora un po’ di coniglio, mangia la carne finché siamo qui…”

Da parte mia, non so come ho fatto a non urlare per la gioia. Sarei tornato nel Ghastengarda! Favoloso! Papà aggiunse: “A Gisi non diciamo nulla però. Con la testa che ha, vorrà venire pure lei”.

“No no,” disse la mamma, “la Gisi sta a casa con me. Ho bisogno”.

Guardai mia sorella che giocava con la nipote del canonico. Per fortuna aveva trovato una compagna della sua età, altrimenti si sarebbe appiccicata a me quella sera. Tutta fiera e compiaciuta, raccontava all’amica come si era presentata in cantiere al pomeriggio per affrontare Gherardo davanti a tutti i ragazzi, e lui, a denti stretti e assai a malincuore, le aveva chiesto scusa per averla chiamata papera e per aver minacciato di tirarle il collo. Certo, lei non disse che era accaduto tutto grazie a me, ma dalla mia peste di una sorellina non mi aspettavo altro.

Sentì una mano sulla spalla.

“Ehi, tu, ragazzo!” Era Tebaldo, il paggio milanese che facevo finta di ascoltare.

“Scusami?” dissi, “Non ho sentito bene”.

“Una cotta di maglia, dico, l’hai mai vista?” Stava raccontando come i paggi e gli scudieri preparano i loro cavalieri per la battaglia.

“Um, una cotta di maglia? No, no, mai”.

“È pesantissima, ma io riesco ad alzarla. Per chiuderla devo fare tanti nodi dietro la schiena e alle spalle, con lacci di cuoio. Poi viene la sopravveste, poi le cinture per le armi…”

“Sono qua, le armi?” Ero curioso. “Non ho mai visto da vicino la spada di un cavaliere, o lo scudo…”

“Maledizione, no. La sera che siamo entrati in Pavia le abbiamo dovuto deporre alla porta, altrimenti non ci facevano entrare. Non volevamo. Ragazzo, non sai quanto costano, quanto una casa! Ma non c’era altro modo, e il signor Ugo ha insistito che rispettassimo tutti la legge della città. Allora, abbiamo lasciato tutto ai guardiani delle porte”. Con una faccia brutta agitò un pugno. “Dico io, se quei mascalzoni ci rubano qualcosa…”

“Ehilà, Tebaldo,” arrivò il paggio che fino allora aveva suonato il liuto per chi voleva ballare,” tocca a te, ho le dita tutte dolenti”.

“Ma non ho finito di mangiare”.

“E io non ho iniziato… a mangiare. Ti pare giusto? Tocca a te suonare ora”.

“Va bene, va bene, dammi qua il liuto”.

Tebaldo prese lo strumento e si sedette sullo sgabello lasciato libero dal compagno. Sin dalla prima carezza delle sue dita sulle corde dello strumento si capiva che sapeva il fatto suo.

L’altro paggio soffiò leggero sulle dita arrossite e scosse la testa. “Tebaldo! Tanto è fine la sua musica, quanto è rozza la persona”. Poi mi si presentò. “Io sono Arvino, al servizio del signor Ugo de’ Visconti. Tu sei Faroaldo, non è vero?” Conosceva il mio nome! “Tu sei il figlio del capo dei capomastri”.

“Oh, beh, non proprio. Voglio dire, sono suo figlio sì, ma lui non è il capo. È solo il rappresentante in comune. Rappresentante del paratico, intendo. Tra un anno non lo sarà più”. Lo guardai più attento. “Come fai a sapere il mio nome?”

“Il mio signore parla tanto di voi. È stato tuo padre a convincere l’assemblea ad accoglierci qui in città, anche se siamo nemici milanesi.” Arvino era alto, aveva forse due anni più di me, e ai miei occhi un aspetto già un po’ da signore.

“Oh, non saprei,” feci spallucce, “può darsi”.

Passava un servitore con un vassoio colmo di dolcetti al miele. Ne presi due, poi non ero sicuro che bastavano, e ne presi un altro.

“È difficile il vostro mestiere?” Chiese Arvino, interessato. “Hai portato lo scalpello per caso?”

“Mmmm…” Avevo la bocca piena. “Mi spiace… mmmm…. abbiamo lasciato tutti gli attrezzi… a casa”.

“Peccato, volevo vederlo. Ma sei già in grado di fare… non lo so, un capitello…?”

“Chi, io da solo? No, no, no… Ancora noi levighiamo. Voglio dire, lisciamo le cose che hanno fatto i nostri padri. Ma prima di arrivare a modellare la pietra, si comincia dalla cera, dai modellini che usiamo fare prima di realizzare i conci veri. Io sarei capace di fare un modellino, ma papà non mi lascia fare. Dice che sono troppo piccolo e irresponsabile.”

“Davvero? A me non sembra”. Arvino era molto gentile.

“Beh, forse stavo facendo progressi, e poi è arrivato mio cugino da Tortona, così serio e responsabile, mi mette un po’ in ombra, se sai cosa intendo”. Feci un cenno a Pietro, che stava seduto accanto a Matteo, che parlava con Ugo de’ Visconti.

“Già, il ragazzo che c’era a Tortona. Siete cugini?”

“Esatto. Non che non gli voglio bene,” lo assicurai subito, “gliene voglio un sacco. Solo che… papà vorrebbe che io fossi più come lui”. Arvino annui, e mi diede una pacca sulla spalla. Non sapeva cos’altro dire. “Ah… È difficile il mestiere di… paggio?”

Arvino rise.

“Se chiedi al buon Tebaldo ti dirà che è la cosa più faticosa del mondo. “Io…” pensò un attimo “io invece so di essere fortunato. Sono figlio di un nobile minore… molto minore. Non potevo sperare di servire un cavaliere importante come il signor Ugo, ma lui ha scelto me tra tanti ragazzi di famiglie ben più importanti. Come Tebaldo, è un Della Torre sai. All’inizio, gli altri ragazzi me lo facevano pesare, e quando facevamo pratica con le spade di legno, mi sgambettavano per farmi cadere, e mi sferravano colpi anche quando ero per terra”. Lo ascoltavo curiosissimo. Chi l’avrebbe mai pensato?

“E tu?” chiesi.

Arvino sorrise.

“È io imparai in fretta a non cadere, e a sferrare colpi ancora più forti, anche da terra”.

Mi tornò in mente la scena di quella mattina, dopo essere inciampato sulla spiaggia, e Gherardo che, senza pensarci due volte, mi porse una mano d’aiuto per alzarmi. Scossi la testa.

“Che signorini gentili, i tuoi compagni! Tra noi gente comune non si picchia un ragazzo per terra, piuttosto lo aiuti ad alzarsi”.

Arvino annui. “Sai, più che altro deriva dall’invidia. Il signor Ugo è gentile e generoso, e non mi ignora mai. Fa che ogni suo gesto sia un insegnamento. Altri cavalieri non sono così attenti ai loro paggi, io sono fortunato”.

Sentendo questo, guardai il signor Ugo ben bene per la prima volta. Era giovane, forse non aveva che venticinque anni, e bello, anche se non di volto. La sua bellezza era nel modo di parlare, di porsi, di ascoltare gli altri come allora stava ascoltando Matteo, un mero capomastro.

“Sì,” dissi “lui piace a tutti”.

“Ah! Non a tutti” Arvino abbassò la voce “A Milano molti ce l’hanno con lui. Lo chiamano ‘il profeta’, anche alcuni della sua stessa famiglia, ma non è un complimento. Vedi, il signor Ugo parla tanto del futuro. Vuole convincere la città ad allearsi con altre città per far fronte al tiranno. Dice che solo così potremo vincere. Purtroppo, molti dicono che delle altre città non ci si potrà mai fidare”.

“Chi è il tiranno?” chiesi. Com’ero innocente! Di Guelfi e Ghibellini e delle loro guerre non sapevo ancora nulla.

“Il tiranno è il Barbarossa”.

“Vuoi dire l’imperatore? Ma è molto amato qui a Pavia!”

“Perché sperate di ottenere dei privilegi”.

“Cosa vuol dire?”

“Come posso spiegare… un trattamento speciale… favori… ma se ogni città fa così, dice il signor Ugo, nessuna si farà mai valere, saremo tutti dei leccapiedi e basta”. S’era appassionato al discorso.

“Boh. Mi spiace, ma io di queste cose non ne capisco. So solo che dobbiamo avere tutto pronto per l’incoronazione”.

“Certo,” la sua voce si fece ironica, “quando la sacra Corona Ferrea della regina Teodolinda verrà portata qui da Monza, i vescovi la porranno in testa al grande Federico, e tutti s’inginocchieranno davanti a lui e i loro cuori si colmeranno di felicità per il ritorno dell’imperatore in terra lombarda” disse, sul viso un brutto cipiglio, aggiungendo amaro: “che bella scena!”.

“Non lo è?” dissi, confuso. “Io aspetto quella scena da tutta la mia vita. Anche papà. E’ per questo che lavoriamo, che costruiamo la basilica… Il nonno aveva visto l’ultima incoronazione, prima del terremoto. Tutti sanno che se non finiremo la basilica, l’imperatore si farà incoronare in qualche altra città, forse a Milano, e per Pavia tutto sarà perso…”

“Faroaldo figlio di Faramundo” Arvino parlò ardentemente “le città lombarde sono come tanti ragazzi al gioco, e il Barbarossa è il bullo. Qualcuno cerca il suo favore, aiutandolo a picchiare i ragazzi che sono a terra. È quello che è successo a Tortona. C’erano tanti pavesi lì ad aiutare il Barbarossa a distruggere la città, lo sai? Come hai detto tu, poco fa… quando uno cade per terra bisogna aiutarlo ad alzarsi. Ecco, le nostre città devono imparare a fare così. Insieme. Questa è la fratellanza di cui parla il mio signore Ugo”.

Sentii un calore dentro di me. Arvino ci credeva così tanto, era impossibile non condividere il suo ardore. Ma… il nonno? Il papà? Il lavoro di generazioni? che confusione! Non sapevo proprio come rispondere.

In quel momento, sentii qualcosa cambiare nell’aria. Vicino al camino, Tebaldo smise di suonare. I rumori della festa andavano scomparendo, i bicchieri non tintinnavano, i ballerini si fermarono, le conversazioni si interruppero. Ugo de’ Visconti si era alzato in piedi, mio papà imbarazzato al suo fianco.

“Onorati ospiti di Pavia,” disse “fratelli cavalieri di Milano, d’accordo con il nostro galante campione in comune, il rappresentante dei capomastri Faramundo,” e mio papà si fece ancora più imbarazzato, “domani chiederò all’assemblea comunale di Milano di poter estendere il nostro soggiorno in città fino al giorno attesissimo dell’incoronazione di Federico di Svevia, quando potremo fare omaggio all’imperatore da parte dei miei concittadini”.

Alzò il calice, e mio papà fece altrettanto.

Ci fu una sorta di applauso esitante.

“Nobili compatrioti, onorati ospiti pavesi, come ben sapete,” proseguì Ugo de’ Visconti, “la nostra città di Milano non riconosce alla casata Ghibellina di Svevia, né al suo erede Federico di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, il diritto alla corona imperiale. Noi di Milano stiamo con Sua Santità il Papa nel riconoscere il diritto alla casata Guelfa di Bavaria. Tuttavia, non offenderemmo la dignità dei nostri cari ospiti pavesi, rifiutando l’invito esteso oggi dall’assemblea cittadina di rimanere in città e presenziare alla cerimonia d’incoronazione che si terrà a breve. Per questo motivo, rimarremo qui fino al giorno in cui la Corona Ferrea cingerà il capo del Barbarossa nella Basilica di San Michele. Ma sia chiaro, lo facciamo per rispetto non del tiranno d’oltralpe, ma dei nostri fratelli lombardi, cittadini di Pavia. Che tutti vedano in questa nostra cortesia la strada maestra che si apre davanti a noi, l’unica strada che può salvarci dal giogo straniero! La cortesia tra città, non le offese. L’alleanza fraterna, non le guerre fratricide”.

Alzò il calice, e tutti lo imitarono, ma vidi che non tutti i cavalieri erano contenti. Sentivo borbottare qua è la… impantanati qui altre due settimane… e poi non ne posso più di questa città provinciale… e anche fratelli di chi? Non certo miei… Tra quelli rimasti con i nasi arricciati, c’era il signore di Tebaldo. Mi chiedevo se anche lui, di nascosto, chiamasse Ugo de’ Visconti ‘il profeta’?

Alla fine della festa, il Signor Ugo venne alla porta della casa canonica per augurarci la buonanotte. Per prima, si sedette sui talloni per salutare Gisi.

“Grazie della compagnia, Gisi, ci ha fatto molto piacere conoscerti” disse, e le baciò solenne la mano. Poi si girò verso me e Pietro.

“E grazie di essere venuti, piccoli capomastri. Mi raccomando, i vostri papà hanno tanto bisogno di voi, adesso, per finire in tempo. Non distraetevi con birbonate, e datevi da fare. Me lo promettete?”

Annuimmo. Aveva un tale carisma che non ebbi nemmeno un solo pensiero ironico.

Alzandosi, strinse la mano a Matteo.

“Buon Matteo, grazie, e lasciami dire questo: un giorno rinnoveremo la nostra amicizia nella tua Tortona”.

“Lo spero di cuore” rispose Matteo, “e grazie a te.”

Ora Ugo fece un piccolo inchino davanti a mia madre.

“Grazie di averci regalato questa serata insieme, signora Imilia. Spero che la cena sia piaciuta anche al piccolo che porti in grembo, e che entrambi ne siate rafforzati. Credo bene non si farà attendere a lungo, il bebè, n’è vero?”

“Credo anche io” la mamma sorrise. “Grazie della serata così piacevole, signor Ugo”.

Mio padre annuì.

“Piacevolissima” disse “siamo in tuo debito”.

Ugo scosse la testa.

“Sono io in debito con voi invece”.

“E come sarebbe?” chiese mio padre, perplesso.

“Sedersi a tavola con un nemico che vuol diventare amico… è un gesto di grande coraggio. Un gesto necessario. Spero che altre città non debbano subire la stessa sorte di Tortona prima di capirlo”. Sospirò, ma poi subito si tirò su. “Basta politica e diplomazia, ora. Il coprifuoco è passato da tanto”. Infatti, la città attorno era buia e silenziosa. Non ero abituato ad essere ancora in giro a quell’ora. “Tutti a dormire. Ci vedremo domani mattina per andare in assemblea insieme”.

“Domani non posso accompagnarvi,” disse mio padre “devo compiere un importante viaggio di lavoro.” Mi guardò. Era di buonissimo umore… c’era forse speranza…? E, quasi incredulo, sentii papà aggiungere: “assieme a mio figlio”. Il cuore dentro di me sussultò per la gioia! Sarei ritornato nel Ghastengarda! “E con mio cugino Matteo, e suo figlio Pietro, chiaramente” concluse.

“Sei sicuro di voler portare anche i ragazzi per questo tuo viaggio?” Ugo si preoccupò “Di questi tempi la campagna non è sicura”.

“Li terrò d’occhio tutto il tempo. E con noi ci sarà un vecchio amico, che sa prevenire ogni pericolo. Mi spiace soltanto non potervi accompagnare in assemblea”.

“Tranquillo, caro Faramundo, conosciamo oramai la via, e tutta l’assemblea sa che il paratico dei capomastri sostiene la nostra richiesta di trattare con il comune di Pavia. Fate buon viaggio”.

“Grazie, e buone… discussioni a voi”.

“Ah,” Ugo rise “penso che tu voglia dire ‘buone polemiche interminabili’, vero? Sei felicissimo di evitare l’assemblea di domani!”

“Lo ammetto, sì” disse papà, un sorriso obliquo in volto. “Molto meglio il viaggio. Buonanotte!”

E tornammo tutti alla nostra piccola, calda casetta.

Quis – Capitolo 6

Affonda-la-barca!

Illustrazioni di Francesca Duo

“Soldati alle porte…” Pietro sbiancò e si irrigidì tutto, dalla testa ai piedi, tranne la mano sinistra, che gli tremava. Ma quanta paura gli faceva la parola ‘soldati’? Che impressione! A vederlo, avevo quasi paura anche io. Feci finta di niente, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Dai, andiamo a casa nostra. La mamma avrà saputo tutta la storia dai suoi clienti, e ci dirà lei cosa succede, va bene?”

Uscendo dalla viuzza, esitai, e guardai un attimo in dietro. Ogni mattone, ogni sasso era al suo posto. Ogni traccia di Quis, del racconto, e del Ghastengarda era… non svanita nel nulla, ma nella normalità. La viuzza sarebbe apparsa meno vuota se ancora fosse stata piena di nebbia; almeno la fantasia l’avrebbe potuta riempire.

“Da che parte giriamo?” Chiese Pietro, ansioso.

“Qua, a destra, vieni.”

Tutta la gente che passava per strada parlava dei soldati alle porte: …milanesi, armati e a cavallo… diceva questo, ambasciatori, sotto l’insegna della pace… diceva quello, mentre un altro ancora diceva: Il signor Ugo de’ Visconti di Milano…

Pietro fece un sussulto.

“Ugo de’ Visconti. Era a Tortona. Dentro la città, con i cavalieri milanesi. Ci aiutava. Cercava di spingere via gli assediatori.”

“Cosa ci fanno alle porte di Pavia?” mi chiesi.

Eravamo arrivati al grande portone del palazzo dei Biscossi, dove c’è casa mia. Ecco in un angolo del cortile i nostri padri, intenti a parlare col maggiordomo dei Biscossi, che gli stava dicendo:

“…era Bergaldo dei tintori. Chiedeva di te, Faramundo, per l’assemblea stasera.”

“Cugino, sei il rappresentante?” Era Matteo. Feci segno a Pietro di stare zitto e seguirmi. Passando piano dal lato opposto del cortile, lo condussi verso la porta di casa senza farci notare.

“Si,” diceva mio padre, “quest’anno mi tocca. Doveva capitare proprio a me un anno così complesso…”

Eravamo arrivati. Diedi una sbirciatina dentro. La mamma non c’era, e mia sorellina Gisi stava vicino al camino, intenta a sbucciare castagne. Entrammo facendo finta di niente.

“E voi dov’eravate, fannulloni che non siete altro?” Subito Gisi era in piede di guerra. “Venite a sbucciare anche voi, ho già fatto più di metà da sola.”

“Va bene, va bene, hai ragione.”

“Oh, certo, ragione, si si, la ragione si da ai fessi! Eccomi qua, fessa, sempre sola, come prima in cantiere quando dovevi esserci tu per difendermi.”

Era proprio scura in faccia, incavolata nera. Cos’era successo?

“Cosa vuol dire, difenderti?”

“Quel babbeo di Gherardo ha raccontato a tutti quello che è successo quando io e mamma siamo andate a casa loro per prendere le misure…”

“Ossignore! Cos’hai combinato, Gisi?”

Gherardo aveva forse tre anni più di me, ed era figlio di un altro capomastro di quelli importanti, che lavorava da sempre con papà. Ma il figlio non era un bel tipo. Quando non c’erano grandi in giro, veniva spesso a tormentarmi, a prendermi in giro e cercare di intimidirmi. Non ho mai capito perché, non gli avevo mai dato motivo: si era messo in testa che doveva prendersela con me, e basta.

“E cos’è successo, Gisi?” Chiese Pietro.

“Io prendevo le misure di Gherardo e suo fratello, e la mamma scriveva i numeri. Solo che continuavo a scambiare la vita per il petto, il braccio per la vita… la terza volta mi metto a ridere, no? E lui fa, ‘sembri una papera’. Io già me la sono presa un po’, ma poi quando gli faccio il collo, per nessun motivo si mette a urlare ‘ahi, ahi, e io alle papere le tiro il collo e le spenno!’ Sembrava un pazzo.”

Pietro era indignato.

“Povera Gisi! Ma come si permette? Chi è questo zoticone?”

“Aspetta Pietro,” dissi io. Conoscevo Gisi. “Qualcosa non mi torna. Mentre gli facevi il collo, hai detto? Non è che tu gli hai stretto un po’ il filo, giusto giusto un po’, già che c’eri?”

“Che cosa?” Fu l’innocenza fatta persona. “No, assolutamente.”

“Bah!” Dissi io. “E oggi lui l’ha raccontato a tutto il cantiere, questa storia? E vogliamo scommettere che tutti mi dicono che tu l’hai strozzato?”

“Certo che lo dicono, ma solo perché lui è un bugiardo!”

Pietro, sempre galantuomo, la rassicurò.

“Io ti credo, Gisi.”

Lei gli fece un sorrisino dolce e grato.

“E quindi,” disse lei, col tono di chi afferma l’ovvio, “domani tu lo picchierai.”

Sentimmo una voce alla porta dietro.

“E come, qui si parla di picchiare?” Era Matteo, rientrato finalmente. Mio padre non era con lui: sicuramente era andato dritto all’assemblea. Matteo andò subito ad abbracciare Pietro, che sembrò quasi sorpreso. Certo, noi avevamo passato tutta la giornata coi nostri papà, ma loro non l’avevano passata con noi! Gli era mancato suo figlio.

“No, no,” dissi svelto, “mia sorella parla sempre così, ma è uno scherzo. Sarebbe una pazzia davvero. Il ragazzo di cui parla è il doppio di me!”

“Devi difendere il mio onore!” Strillò Gisi.

“Ah bon, a posto, posso stare tranquillo, non ne hai proprio d’onore.”

E quella furbetta fece gli occhi dolci a Pietro e lui, che ancora non la conosceva bene, si sciolse come la neve.

“Ma dai, Faro, dobbiamo fare qualcosa per difenderla. È tua sorella.”

“Mmmmm,” disse Matteo con l’accenno d’un sorriso, e poi continuò con tono formale: “vedo che qui l’assemblea dei piccoli è in seduta di guerra. Non desidero disturbare i procedimenti, volevo solo dirvi che vostro padre è andato all’assemblea dei grandi, e forse tornerà tardi.” E con questo andò a pulire e sistemare i suoi attrezzi di lavoro.

“Dai, Faro…” ripeté Pietro.

“Va bene.” Feci grande scena di un sospiro lungo e desolato, ma in realtà non ero tanto dispiaciuto: mi era venuta un’idea. “Gisi, ti difenderò. Ma niente picchiare, ché Gherardo è veramente il doppio di me. Lo sfiderò a una partita di affonda-la-barca. Se vinco io, lui ti chiede scusa. Soddisfatta?”

Gisi fece un sorriso così angelico che per un attimo sembrava Quis.

“Allora vieni in cantiere di nuovo domani pomeriggio, e vedrai se ti chiede scusa.”

“Affare fatto!”

“Ma dimmi,” le chiesi, “carissima dolcissima sorellina mia, che ci sei andata a fare in cantiere? Tirare un sasso al vespaio?”

“Cercavo te, per dirti di venire a casa a darmi una mano con le castagne, visto che ero rimasta sola. E tu dov’eri?”

“Oh, sai,” presi una castagna calda con aria disinvolta, e lanciai un’occhiata a Matteo, ma sembrava non avesse notato, “con questa storia dei cavalieri alle porte siamo andati a vedere, ma c’era troppa gente, non si capiva niente.”

“Cavalieri alle porte?” esclamò.

“Beh, ovvio,” feci, “milanesi.”

“Oh! … È Guerra ancora?”

Amici lettori, questa è una cosa che sicuramente non sapete: Milano è nemica acerrima di Pavia. Da quando eravamo in fasce c’era sempre qualche scaramuccia tra milanesi e pavesi da qualche parte nelle campagne tra le nostre due città. Ma il nemico non si era mai spinto fin sotto le nostre mura. Sapere che una compagnia di cavalieri milanesi era alle porte faceva spavento. Era l’inizio di un assedio? Ma Pavia stava col grande Barbarossa, come osavano sfidare lui?

“Si, Gisi,” disse Matteo, alzando la testa dagli attrezzi, “sono milanesi, ma tranquilla, sono pochissimi, forse una decina, con i loro paggetti. Il capo di tutti è il buon Ugo de’ Visconti. Lo conosco. Io dico che non vengono a fare la guerra.”

“Papà è andato in assemblea per questo?” chiese Gisi.

“Brava, Gisi” Matteo annuì, “devono decidere se dare ospitalità a questi cavalieri stanotte, o sbarrargli la porta.”

“Ma è già sera,” dissi io, “non arriveranno mai a Milano oggi se non li fanno entrare.”

“Appunto. Sarebbe un grave insulto non offrirgli ospitalità. Eppure, per i pavesi sono nemici.”

Fece spallucce.

“Cosa si deve fare? Secondo me l’assemblea ci metterà un bel po’. Papà tornerà dopo cena. Ma mi ha dato un compito importante. Durante la cena vi devo raccontare una bella storia nuova.” E con questo, finì di sistemare l’ultimo attrezzo e si mise accanto a noi a sbucciare castagne. Chiese a me e Pietro la domanda che avremmo voluto evitare: “Com’è andata la giornata in cantiere?”

Pietro si pietrificò. Capì subito che non era uno che sapeva mentire. Per fortuna, io sono sempre pronto a farlo! E per qualche motivo, sono quasi più convincente quando dico le bugie che non la verità. Chissà perché?

“Mah, la scuola una noia come sempre. Certo, Pietro si diverte perché è la prima volta, ma io non ne posso più. Voglio dire, non possono inventare qualche nuova lettera? Quelle vecchie le ho fatte mille volte.” Matteo sorrise. Stavo andando alla grande. “Poi il pomeriggio ci siamo fermati poco. Quando abbiamo sentito questa storia dei cavalieri ce la siamo svignati per andare a vedere cosa succedeva.”

“Dovevate restare a lavorare…” Matteo ci ammonì, ma non era proprio severissimo. Certo, con un figlio come Pietro non era abituato a dover fare le ramanzine, forse gli serviva pratica.

Curioso, Matteo chiese: “A quale porta sono i cavalieri?”

“Oh, San Giovanni,” inventai spigliato. Ma dietro le mie spalle, la mamma era arrivata alla porta.

“Ma quale Porta San Giovanni?” disse lei bruscamente. “I milanesi sono alla porta del ponte.”

“Ah, ecco perché non abbiamo visto niente.” Dissi, ma la mia risata era finta. La mamma mi faceva più paura di dieci papà, e con lei mi sentivo trasparente come l’acqua. Era andata da qualche famiglia a cui aveva portato i vestiti riparati, perché portava la sua borsa da cucito. Che aria stanca che aveva, povera! con il grosso pancione che portava in giro a ogni passo non c’era da meravigliarsi. Balzai in piedi, le presi la borsa e la aiutai a sedersi sulla cassa.

“Ruffiano! Non mi aiuti mai. Guarda che ti ho sentito prima, hai portato tuo cugino via dal cantiere per farti compagnia mentre te la spassavi in giro con la scusa dei soldati alla porta. Adesso per punizione la cena la servi tu a tutti, e i dopo sistemi pure le stoviglie.”

“Ma quello è lavoro da femmine! È Gisi che…”

“Zitto! Il lavoro da maschi l’hai svignato oggi pomeriggio, ora ti tocca quello da femmine.”

Quando la mamma aveva quel tono lì, uno stava zitto e faceva quel che lei voleva, e basta. Mascalzone lo ero, ma non stupido. Mi misi al lavoro con le scodelle e il paiolo di grano cotto.

Durante la cena, come aveva promesso, Matteo ci raccontò una storia. Secondo me non dovrete mica spremervi le meningi per indovinare quale. Da tutta la mia vita papà era partito ogni tanto la mattina per un viaggio speciale, per tornare la sera con una nuova, bellissima fiaba, che poi scolpiva anche su una nuova pietra per la basilica. Finalmente io sapevo da dove venivano questi racconti, e queste sculture. Il Ghastengarda.

Matteo, come suo figlio, era così mite, così pacato e affabile, che la sua versione di cantastorie mi soprese. Ci andava dentro, si divertiva a raccontare del re che annegava con l’oro nel fiume, dei pescatori trascinati su e giù dal grande storione che sapeva anche parlare, della fattucchiera con il suo mantello di piume…

Peccato che io ero così stanco. E che dovevo servire la cena, e sistemare i piatti e pulire il paiolo. Mentre Pietro ascoltava suo padre incantato e felicissimo, io quasi dormivo in piedi, le cose mi cadevano dalle mani, non trovavo più i cucchiai, facevo fatica a tagliare il pane… Insomma, non ascoltai bene ogni parola, senza sapere che questa cosa poteva ritorcersi contro di me il giorno dopo. Non appena finita la cena e sistemato tutto al focolaio, me ne andai a dormire.

“Papà non viene?” Gisi stava chiedendo alla mamma.

“Penso che farà tardi all’assemblea. Vai a dormire con tuo fratello se hai sonno.”

Forse venne, ma non saprei, ero già nel mondo dei sogni.

Mi svegliai molto lentamente la mattina dopo, e durante quella piacevole dormiveglia nel caldo morbido e soffice del letto, quando tutto fuori dal letto sembra un po’ un sogno, vidi mio padre seduto per terra davanti al focolare, per lasciare spazio sulla cassa per la mamma. Povero papà, non solo era tornato tardi, si era pure alzato presto! Matteo si scaldava accanto al fuoco, intento a guardare qualcosa nelle mani di papà: un blocco squadrato di cera. Papà lo stava intagliando accuratamente col suo coltellino. Era sicuramente il modellino per un nuovo concio, e sapevo già quale storia raccontava… Sicuramente c’erano due pescatori, e il loro pescato!

“Faramundo,” diceva mia madre, “se non gli dai qualche responsabilità in più non cambierà mai.”

“Ma non ne merita. Combina sempre guai.”

“Al meno un modellino… alla sua età tu eri già in grado.”

“Come può fare i modellini se non viene nel Ghastengarda?”

“Appunto, è proprio quello che dico.”

D’un tratto ero completamente sveglio. Ma, stanno parlando di me? Ho capito bene, la mamma mi vuole mandare nel Ghastengarda? Il prossimo a parlare fu Matteo.

“Io non esiterei a portare Pietro, non credo sia pericoloso per lui se rimane sempre con noi.”

“Ah, certo,” rispose mio padre, “non esiterei neanch’io a portare Pietro. E fatto di altra stoffa. La stoffa di Faro è ancora grezza.”

“La stoffa,” disse la mamma, “rimane sempre grezza se non passa per le gualchiere. Va lavorata, affinata, altrimenti non cambia. Con i bambini è la stessa cosa, e non sono le bastonate a farlo, sono le piccole responsabilità. Pietro è un ragazzo serio, è vero… ma certo che lo è! Pensa a quello che ha vissuto in questi mesi, povero…”

Mio padre sospirò.

“So che tu hai ragione, Imilia. Eppure…” Per un lungo momento guardò, pensieroso, il modellino di cera, girandolo nelle mani per vedere ogni lato. “Il tempo di finire la Basilica. Poi, lo sai, c’è la chiesa di San Giovanni in Borgo, avrà ogni opportunità. Dammi due settimane, fino a quando non arrivi il Barbarossa. La situazione è troppo delicata ora, con questi cavalieri milanesi in città, e avrò meno tempo che mai…”

Matteo chiese: “I cavalieri sono dunque entrati ieri notte?”

“Alla fine, sì. Don Giorgio li ha convinti a deporre le armi alla porta. E quali armi! Non credo ci sia un solo cavaliere in tutta Pavia che possa vantarsi di armi simili.” Matteo annuiva, con l’aria di chi ha già visto quel che gli viene descritto. “Poi, li abbiamo scortati alla canonica, e saranno lì a dormire ancora, beati. Quanto hanno insistito per entrare in città! I frati di San Salvatore li volevano accogliere fuori le mura…”

“Chi? Cosa?” disse Gisi. Si era svegliata accanto a me e – maledizione! – con un calcio tolse le coperte da entrambi. Quella aveva il dono di svegliarsi subito energica. Anche Pietro si svegliò a questo punto, ma dalla sua faccia rintontita capii che faceva tanta fatica quanto me ad alzarsi la mattina.

“Niente Gisi, roba da grandi,” disse papà. “Parlavo dei cavalieri milanesi di ieri e dell’assemblea.” Poi alla mamma e Matteo: “Ambasciatore. Quell’Ugo de’ Visconti dice di essere un ambasciatore. Mah! Vedremo oggi.” Posò il modellino. “Ragazzi,” si alzò in piedi e sbatté le mani forte, “forza, colazione, svelti. Ci dobbiamo sbrigare, devo portare gli ospiti milanesi in assemblea all’ora terza, ma prima devo assolutamente mettere in cantiere il nuovo concio.”

“Va bene,” disse la mamma, alzandosi a fatica. “Chi vuole ricotta col siero?”

“Io!” quasi urlai.

“Non avevo dubbi,” disse lei, sorridendo.

“Una sola scodella, Faro,” disse papà, “non abbiamo tempo per altro. E oggi in cantiere mi raccomando. La mamma mi ha detto come hai portato Pietro a gironzolare ieri pomeriggio. Oggi, quando vado via io, fai quel che ti dice il cugino Matteo. Intesi?”

“Intesi papà.” Dissi, ma la mia attenzione era tutta per la ricotta. Papà mi guardò severo.

E continuò a guardarmi severo tutta la mattina. Assieme a Matteo e i lavoranti, fece trascinare fuori un nuovo concio di pietra e si misero al lavoro. Misuravano i lati del modellino di cera, e poi misuravano i lati del concio… e alzò lo sguardo per fissarmi. Tracciavano segni e forme con carbone sulla pietra… e alzò lo sguardo per fissarmi. Facevano volare via le prime scaglie con martello e scalpello… e alzò lo sguardo per fissarmi.

Ve lo giuro, io stavo lì nella sabbia con gli altri ragazzi, Pietro accanto a me, e cercavo di concentrarmi sulla lezione del maestro Paolo. È colpa mia se papà mi distraeva sempre? Intanto, i ragazzi seduti a fare scuola si sussurravano che i cavalieri milanesi avevano passato la notte nella casa canonica accanto alla basilica.

 Verso metà mattinata vedemmo che fu proprio così: i milanesi uscirono dalla canonica, passando proprio in mezzo al cantiere. Ah, che subbuglio! Il maestro agitava il bastone per ordine, e il malcapitato più vicino a lui si beccò pure un colpo, ma non c’era niente da fare, tutti noi ragazzi saltammo su, e seguimmo i cavalieri con i loro paggetti, restando a bocca aperta solo a vedere i loro vestiti ricchi e coloratissimi. Ma non eravamo solo noi. La gente della città apparve come dal nulla, e d’un tratto lo spazio attorno alla basilica brulicava di persone, che chiacchieravano, esclamavano, ammiravano… Il mio povero padre, che non voleva fare altro che scolpire il nuovo concio, dovette lasciare il lavoro e farsi largo in mezzo alla folla.

“Permesso! Fatemi passare! Sono il rappresentante del comune, sono io che devo accompagnare l’ambasciatore milanese all’assemblea, fatemi passare!”

Infine, raggiunse i cavalieri. Uno di loro lo salutò con rispetto. Era il più importante di tutti, giudicando dai vestiti, che letteralmente brillavano al sole per i ricami in filo d’oro e d’argento.

“Mastro Faramundo, ben trovato.” Disse, e sapeva farsi sentire senza urlare. D’un tratto ci fu silenzio in piazza. “Avevamo sentito quale meraviglia il paratico dei capomastri di Pavia stesse creando qui, in onore dell’Arcangelo Michele, ma vedere la vostra opera di persona è un’emozione non da poco. Complimenti a te e a tutti i capomastri e i vostri lavoranti.”

“Da parte del paratico, ringrazio.” Papà fece un goffo inchino. Non era per niente abituato a discorsi eleganti, tanto meno davanti a una folla.

Pietro al mio fianco si irrigidì con un sussulto. Vidi perché: il cavaliere aveva visto suo padre, e lo stava salutando.

“Buon capomastro, ti riconosco, ti ho visto tra la gente di Tortona durante l’assedio appena concluso, non è vero?”

Matteo, imbarazzato e nervoso, annuì, guardandosi attorno. Tutti lo guardavano. Mi sembrava di sentire i pensieri della gente: Tortona? Alleata di Milano! Città nemica!

Proprio in quel momento sentii una mano pesante posarsi sulla mia spalla, e stringere forte fino a farmi male. Capii subito che era Gherardo, e non gli diedi la soddisfazione di vedermi trasalire. Non guardai nemmeno in dietro.

“Mio cugino è nato e cresciuto a Tortona,” diceva papà ad alta voce, guardando bene la gente intorno, “ma è pavese quanto me, figlio del fratello di mio padre.”

Ci fu un gran bisbiglio tra la gente a queste parole, ma tutti continuavano a guardare sia Matteo che Pietro con sospetto. Dietro di me, con quella sua voce bassa e rocca, Gherardo mormorò: “Allora avete il nemico in casa?”

“Zitto, buffone.” Risposi.

Pietro si girò per vedere con chi parlassi, e indietreggiò un passo con sgomento a vedere quella sorta di scimmione di un ragazzo, che era più grande di noi di pochi anni ma aveva già peluria in viso e braccia spesse come rami d’un grosso albero, per non parlare della voce che sembrava un tamburo fatto col tronco dello stesso.

Sorrisi calmo a Pietro, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Questo è il babbeo che diceva la Gisi.” Spiegai.

“Gisi è una bugiarda canaglia!” Disse Gherardo, dandomi un colpo secco alla schiena con una mano, mentre mi teneva fermo con l’altra (altrimenti mi avrebbe buttato per terra, attirando l’attenzione dei grandi). Ma io non feci una piega.

Intanto, il cavaliere parlava alla gente: “… ma per questo preciso motivo. Gli altri cittadini di Tortona si stanno dirigendo verso Milano in seguito all’ingiusta e barbarica distruzione delle loro case. La nostra città li accoglierà con amor fraterno, e ospitalità, e li aiuterà a ricostruire la loro città non appena sarà possibile. Ordunque io sono venuto qui, ambasciatore di Milano, per dirvi questo: non è più tempo di guerra fratricida tra i nostri comuni! Il Barbarossa è più potente di ogni singola città, e ci potrà distruggere una ad una se vorrà. Soltanto l’unione fra noi potrà porci nelle condizioni di far valere la nostra libertà di vivere, lavorare e commerciare secondo i nostri costumi lombardi.”

“Perdonami, nobile signore,” disse mio papà, e secondo me si sentiva ridicolo a parlare così, “credo che il luogo adatto a questi discorsi è l’assemblea cittadina, dove tra l’altro ci attendono. Se mi seguirai, avrà inizio con il nostro arrivo.”

“Io ti seguirò.” Disse il cavaliere. Con mio padre in testa, uno dopo l’altro come una processione, i cavalieri e i loro paggetti se ne andarono verso il Broletto, dove si tenevano le assemblee. Dietro di loro il bisbiglio tra la gente divenne un ruggito.

“Affonda-la-barca,” dissi svelto a Gherardo, “se vinco io, tu chiedi scusa a mia sorella. O sei vigliacco?”

“Va bene,” disse lui, subito. Sapeva di avere il tiro più lungo del mio, ma io sapevo di avere il tiro più preciso. Chi avrebbe vinto?

Giusto, giusto, devo prima spiegarvi che cosa sia affonda-la-barca, anche se sono sicuro che i ragazzi lo fanno anche nel vostro tempo lontano. È un gioco divertentissimo, e facile come tirare un sasso. Beh, facile come tirare un legno e poi tirare tanti sassi. Ecco, così si gioca: tirate un legno qualsiasi nel fiume, e mentre la corrente lo porta via, voi tirate sassi per colpirlo. Chi lo colpisce più volte vince. Certo, vi conviene tirare il legno più possibile a largo e a monte, in modo che ci metta più tempo per passarvi davanti, e avete più possibilità di colpirlo.

Presto eravamo sotto la Porta Calcinara, dove il fiume ha lasciato alla base delle mura una bella e larga spiaggia di ghiaia, dove i barcaioli caricano e scaricano la calce e la sabbia per i cantieri. Erano abituati a condividere la spiaggia con ragazzi che giocavano ad affonda-la-barca, e anche se ogni tanto davamo fastidio, non ci mandavano mai via.

Nella squadra di Gisi c’eravamo-

Ah, un’altra cosa: so che state pensando, amici lettori, che ce l’eravamo di nuovo svignata da scuola e dal cantiere. No, no, questa volta avevamo il permesso. Era la pausa dell’ora di pranzo, e Matteo, sapendo già la storia di come Gherardo aveva offeso Gisi, ci aveva dato permesso, a patti che tornassimo al cantiere puntualmente per lavorare nel pomeriggio.

Dunque, come dicevo, nella squadra di Gisi c’eravamo io e Pietro, e nella squadra di Gherardo c’era lui stesso e il suo grande amico Astolfo.  Fu quest’ultimo a scegliere un legno, a spostarsi una cinquantina di passi a monte di noi, e tirarlo nel fiume. Poi lui e Pietro guardavano, arbitri, mentre io e Gherardo tiravamo.

Gherardo comincio a tirare a raffica non appena il legno si avvicinò abbastanza per le sue braccia lunghe e forti, quando io non avevo ancora speranza di raggiungerlo. Non importa: in primo luogo perché, avendo la mira pessima, non lo colpì neanche una sola volta fin quando non fu vicino abbastanza anche per me, e in secondo luogo perché io sfruttai quel tempo per scegliere i sassi più adatti alla mia mano e alla mia forza. In particolare, e me lo ricordo oggi come fosse ieri, ci fu un sasso dal peso e dalla forma perfetta, e di un colore porpora intenso, e inusuale per il nostro fiume. Mantenni il sangue freddo quel giorno: mentre Gherardo tirava come un matto impazzito, senza neanche guardare la ghiaia quando si abbassava per prenderne manciate a casaccio, io, svelto ma calmo, feci un piccolo mucchio di sassi più a monte, da dove avrei cominciato a tirare, e un piccolo mucchio di sassi più a valle, dove avrei finito di tirare. Ecco, ero pronto: amici lettori, sareste fieri di me! (Se solo io fossi così ben organizzato e veloce pure in cantiere, anche papà sarebbe fiero di me…)

Il legno arrivò nel raggio del mio tiro! Prendendo posto al primo mucchio, incominciai a tirare con la mia mano buona, la sinistra, con la mano destra estesa dritta per tenermi in equilibrio e per prendere meglio la mira. Uno, due, tre… un colpo!

Gherardo bestemmiò, ancora lui non l’aveva colpito una sola volta. Non persi tempo ad esultare o fare balletti di vittoria, tirai ancora, e ancora… Quattro, cinque, sei, sette… Mentre approntavo l’ottavo sasso, si sentì un bel toc: anche Gherardo aveva fatto un colpo. Otto, nove… un altro colpo, ero di nuovo in vantaggio! Dieci, undici… un altro colpo! Ma il mucchio era finito. Sfrecciai lungo la riva verso il secondo mucchio… accidenti! Proprio allora la prua di una barca piena di calce si arenò sulla spiaggia, esattamente tra me e i miei sassi. Mentre aggiravo l’ostacolo sentii Gherardo, infuriato dal mio successo, grugnire lanciando un’intera manciata di sassi al legno, tutta in una volta e con tutta la sua forza. Maledizione, uno dei sassi colpì il legno, ma un altro urtò contro la poppa della barca appena arrivata.

“Ehilà, ragazzaccio, fai attenzione!”

Io ero già al mio secondo mucchio, ma ora toccò a Gherardo di aggirare la barca. Sgraziato com’era, investì il barcaiolo che saltava giù dalla prua con un sacco pesante in spalla.

“Oh, ancora tu, testa di piffero! Di chi sei, chi è tuo padre?”

E sapete cosa gli disse quel farabutto di una canaglia di Gherardo? “Papà si chiama Faramundo, il capomastro…”

Ma che mascalzone!

Certo, il barcaiolo andò via borbottando, “Ehi già, me l’han detto quel povero uomo ha un figlio piantagrane…”

Ma che m’importa? Io ero in vantaggio di un colpo, e stavo già tirando nuovamente, alla grande, calmo, equilibrato… Dodici, tredici, quattordici… Gherardo mi raggiunse, e subito ebbe fortuna con un forte tiro: toc, e il legno si abbassò per un attimo nell’acqua. Pari…

Quindici, sedici… un colpo! Di nuovo in vantaggio!

Gherardo, frustrato e preso dal panico di perdere, riprese a lanciare intere manciate di sassi per volta. A me pareva senza capo né coda questa strategia, ma sapete cosa? A furia di lanciare e lanciare, fece un altro colpo, ed eravamo di nuovo in parità. Mi abbassai per raccogliere l’ultimo sasso della pila, l’ultima speranza. Si, avete già capito, il sasso porpora. Per lanciare era il migliore di tutti per peso e forma, ma non bastava: io avrei dovuto fare il tiro della mia vita, e il legno si stava allontanando, era quasi fuori tirata…

Amici lettori, ce la misi tutta: tutta la mia forza, tutta la mia concentrazione. Lanciai! Ma con sì tanto slancio che persi l’equilibrio, e tentando di riprendermi inciampai in una pietra di quelle grosse, e caddi per terra senza nemmeno capire se il mio colpo fosse andato a buon fine. Lo seppi presto però, perché quando Gherardo si inchinò per darmi una mano ad alzarmi, la sua faccia era nera, poi divenne rossa, poi porpora, poi di nuovo nera. Avevo vinto!

“Bravissimo, bravissimo, sei stato fantastico!” Urlava Pietro, abbracciandomi. Astolfo diede una pacca sulla spalla a suo amico.

“Beh, andrà meglio la prossima volta,” diceva. “Niente male questo ragazzino, eh?” Mi fece un cenno di rispetto. “Dai, Gherardo, torniamo in cantiere, ché pomeriggio viene la Gisi e le devi chiedere scusa, mi sa…”

E se ne andarono, con Gherardo che sbuffava e scoppiettava che sembrava il rumore di acqua buttata su un falò.

“Grande!” disse Pietro, con un sorriso enorme. Così, a braccetto, ridendo e chiacchierando, rivivendo ogni momento della gara trionfale, tornammo alla Basilica.

Quis – Capitolo 5

Chi viene accontentato non è mai contento

Illustrazioni di Francesca Duo

E fu proprio in quell’istante che sentimmo il craaaa, craaaa del corvo sopra di noi, e vedemmo quelle ali nerissime battere, e quando abbassammo lo sguardo, Quis aveva fatto la sua magia ancora una volta, e ci trovammo di nuovo in riva al fiume con i due pescatori, e sempre per fortuna o magia, a distanza dai nostri padri. Ci nascondemmo, e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. Picaldo stava mettendosi le mani alla bocca a mo’ di tromba, e fece più forte che poté il richiamo che gli aveva insegnato lo storione fatato:

Cuuuuuuuuuuuuuuuuuuì!

Presto, vedemmo emergere dall’acqua la testa appuntita e dorata con i baffi arcobaleno e gli occhi color ambra…

“Salve, fratelli pescatori. Non mi sorprende affatto vedervi qui ancora. In cosa vi posso servire?”

Picaldo spiegò: “Con la moneta d’oro che abbiamo trovato l’ultima volta, abbiamo cominciato a costruire una nuova casa, in pietra, e mia moglie si è comprata vestiti più belli. Ma ancora la nuova casa non è finita, e già ha detto che non basta. Ora vuole vivere in un grande palazzo di città, come una nobildonna!”

“Spero che non le sarà concesso,” disse Pacoldo. “Se non l’hai già capito, fratello, lei non sarà mai soddisfatta, e ti manderà sempre al fiume a pescare, comunque; anche se vivrà davvero come una nobildonna… Ti immagini, vivere in un palazzo, in città; lei vestita di seta e tutta profumata, e tu che parti la mattina con la rete per andare al fiume, e torni che puzzi di pesce? Sei mio fratello, e ti aiuterò sempre, ma lascia che te lo dica: prima o poi le dovrai portare a casa un bel ‘no’ al posto del pesce”.

“Un bel ‘no’ eh?” disse Picaldo, scocciato. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”

“Non ho mai visto il mare. Ma so che c’è gente che l’attraversa”.

“Taci, fratello, e lascia parlare lo storione fatato”.

Ma con suo sgomento, il grande pesce ripeté quanto aveva detto la prima volta:

“Se è questo che vuoi, io ti manderò storioni di fiume da pescare, e nelle loro pance troverete un nuovo tesoro. Ma dal tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie.”

Picaldo guardò male entrambi, pesce e fratello.

“Sì, grazie, è questo che voglio.”

Di lì a poco, i fratelli si caricarono in spalla il lungo bastone con gli storioni bianchi appesi, e quando tornarono a casa si vedeva accanto alla vecchia capanna una nuova casa costruita a metà, molto più grande, e con i muri di pietra. Un lavoratore stava spargendo malta, mentre un altro si serviva del peso a piombo per fissare un legno ben dritto. Sarebbe diventata una bella casa, molto più spazioso della stanza dove vivevo io con mamma, papà e la mia sorellina Gisella. Vedemmo i nostri papà, che la guardavano attentamente, scambiarsi sottovoce qualche commento, e mio papà con le mani descrivere un angolo e un muro; da buoni capomastri, avevano le idee chiare su come costruire le case.

E sulla porta, la signora aspettava…

Che bel vestito costoso,
E che cantiere favoloso!
Ma il tuo sguardo è nervoso,
Avido, senza riposo…

Infatti… La donna aveva un vestito nuovo, i capelli lavati e conciati, e scarpe nuove, e non sembrava per niente contenta. Non guardò nemmeno il marito che arrivava, stanco e con i panni zuppi di sudore, guardava solo ai pesci, e aveva già il coltello in mano.

“Presto, posateli sul tavolo da lavoro”.

I due fratelli si fecero da parte mentre lei incominciò a pulire i pesci. Ne sventrò una, ma la pancia era vuota. Ora, ben determinata, ne prese a caso un altro… Pancia vuota anche qui. Rabbiosa, ancora a caso. Pancia vuota… Infine, nella pancia del quarto pesce, trovò i due tesori degli storioni, le uova e…

“Oh cielo! Tesoro! Vero tesoro questa volta! Cinque monete d’oro, e quanti rubini e zaffiri, e perfino un diamante! Non ho mai visto così tanta ricchezza!”

Vi dirò, non era cosa bella vederla esultare così. Pensai a mia mamma, e non potevano essere più diversi il carbone e il miele. Per fortuna non dovemmo assistere a lungo alla sua avara gioia: tra un craaaa craaaaa e un cuuuuuuuuuuuuuuuuì, eravamo ancora una volta in riva al Ticino, dove i fratelli pescatori parlavano con lo storione fatato… per l’ultima volta.

“In cosa vi posso aiutare, fratelli pescatori?” diceva il pesce.

“Mia moglie ora vive in un grande palazzo” rispose Picaldo, e non ne sembrava affatto contento… “Proprio nel centro di Pavia. Ha tanti servi, tanti vestiti bellissimi, e mangia sempre il meglio della stagione. Eppure…”.

“Non le basta mai” finì per lui Pacoldo.

“Non mi sorprende, caro pescatore” fece lo storione.

Ma, era soltanto una mia impressione, o i pesci sono in grado di sorridere sotto i baffi… intendo, sotto i barbigli?

“Non volete sapere che cosa mi ha chiesto adesso?” disse Picaldo.

“Francamente,” disse il fratello “non m’interessa più. Non voglio sapere”.

Questa volta lo storione rise davvero, una risata calda e sonora.

“Vieni vicino, uomo dalla moglie incontentabile, vieni vicino e sussurrami quest’ultimo desiderio, e non faremo arrabbiare tuo fratello”.

Il pescatore, imbarazzato e un po’ goffo, fece come chiesto e scese dentro l’acqua fino alle ginocchia, e si piegò per sussurrare qualcosa al pesce.

“Aaaah!” esclamò lo storione. “Quale desiderio illuminante. Allora ho una buona notizia per voi. Oggi non vi dovrete affaticare per niente. Per realizzare questo suo desiderio non serve affatto alcun tesoro; e non servono pesci! Questo desiderio è del tutto fuori dalla mia portata. Servirà ben altra magia, temo”.

“Ma quale magia? Come posso fare?” Picaldo era disperato.

“Mmmmmm” il pesce meditava “io una volta ho avvertito una magia forte, ma non saprei da dove venisse.”

“Quando? Quale magia?”

“La prima volta che ci incontrammo, quando presi in bocca la vostra esca. Sapevo benissimo di sbagliare, ma per qualche motivo, non seppi resistere”.

Picaldo stette un attimo a bocca aperta, come un pesce.

“Fratello!” Pacoldo chiamò dalla riva. “Poteva essere soltanto la magia della fattucchiera Edburga, ti ricordi che tua moglie era stata da lei?”

“Andiamo!” Picaldo uscì dall’acqua di corsa, e stava scomparendo nel bosco quando il fratello lo richiamò.

“Eh, testa di rapa, non saluti prima di andare via?”

Picaldo si fermò, imbarazzato, e fece un inchino rispettoso al pesce.

“Grazie, storione fatato. Chiedo scusa se ti abbiamo disturbato tanto”.

“Il piacere è tutto mio” Rispose il pesce con eleganza. Ora anche Pacoldo lo salutò.

“Che tu possa vivere altri quattrocento anni. Almeno!”

“Grazie! Che la tua rete si riempia sempre di alborelle gustose”.

E con questo, lo storione fatato scomparve nel fiume, per sempre.

La fattucchiera Edburga stava preparando qualcosa dentro un calderone – sicuramente un filtro magico, ché si sentiva un odore tanto pungente quanto strano.

“Edburga” chiamò Picaldo “scusa se ti disturbiamo, ma siamo veramente disperati…”

“Lui è disperato”. Corresse il fratello. “Io sono esasperato”.

La vecchia maga, benda sugli occhi, si fece vedere sull’uscio e…

“Ah, siete voi. Ben tornati, era da tempo che non vi vedevo. In che cosa vi posso assistere, buoni uomini?”

“Mia moglie qualche tempo fa era venuta da te, e ti ha chiesto di aiutarci a trovare il tesoro del fiume. Io le avevo detto che il tesoro sono i pesci che peschiamo, ma lei voleva quello del re Ariperto. Poi abbiamo pescato lo storione fatato, e ti dico, è stata una fatica incredibile, ma lui in cambio della vita ci ha fatto pescare dei normali storioni che avevano ingoiato il tesoro del re, monete d’oro, pietre preziose… Ora mia moglie vive in un grande palazzo, con tanti servi e tanti bei vestiti e tutto quello che vuole…”

“E non è mai soddisfatta”. Finì per lui la fattucchiera con un sospiro. “Beh, non so se ti posso aiutare. Non riesco ad immaginare un solo suo desiderio che la renderebbe felice”.

“Ecco…” Picaldo era nervoso. “Di fatto ha espresso ancora un desiderio. Io le ho detto che è ridicolo, ma questa sua bella vita le è andata alla testa, e non ascolta più ragione…”

“Non l’ascoltava manco prima, a dire il vero” mormorò Pacoldo.

“Dimmi, dimmi,” disse la fattucchiera “sono curiosa”.

“Io no” fece Pacoldo “non voglio proprio sapere. Sono nauseato dall’intera faccenda”.

“Posso sussurrartelo nell’orecchio, Edburga?” chiese Picaldo.

“Vieni, vieni”.

Tutto impacciato per l’imbarazzo, Picaldo le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. La faccia della fattucchiera dapprima si fece scura e arrabbiata, poi si illuminò, e ridacchiò divertita.

“Che donna sorprendente! È riuscita a trovare l’unico desiderio che forse, forse, una volta realizzato la renderebbe felice. Certo, ci vorrà tempo. Ma tu, marito sciocco,” divenne d’un tratto seria e severa “dovrai smetterla di cercare di accontentarla di ora in poi. Chi viene accontentato non è mai contento, ricordatelo. Abbiamo un accordo”.

Picaldo annuì, solenne come un bambino sgridato (almeno, come un bambino sgridato dovrebbe essere, perché io non lo sono mai…)

“Bene” disse la fattucchiera, “allora, tornate al vostro bel palazzo signorile in città, ché il desiderio sarà esaudito”.

Quando i due fratelli se ne andarono, Quis aspettò un poco prima di seguirli, per tenerli a discreta distanza. Intanto la vecchietta si girò, e occhi bendati o no, sembrava che guardasse proprio lì dove stava Quis dietro un tronco d’albero.

“Vecchio amico, ben trovato” disse la fattucchiera.

Quis sorrise come se la conoscesse, e seguì i pescatori.

Presto i due fratelli arrivarono alla capanna. Accanto, la nuova casa di pietra era stata lasciata con i muri a metà.

 Andarono avanti, per tutta la lunga strada che passava in riva al Ticino, sotto San Salvatore e fino alle mura della città. Alla piccola Pusterla di Sant’Agnese entrarono e, passando per le viuzze più strette e deserte (secondo me non volevano farsi vedere con i vestiti vecchi e bagnati da pescatori) arrivarono infine a un palazzo meraviglioso, con i muri tutti rivestiti di stucco affrescato, i portoni decorati e dei servi armati che stavano di guardia.

Picaldo e Pacoldo si avvicinarono a una piccola porta di servizio, quasi nascosta sul retro dell’edificio. La, mi aspettavo di vedere la moglie ad aspettarli con ansia… macché! Aveva mandato un servo, vestito meglio lui che non i pescatori, ordinatissimo e precisissimo.

“La signora ordina che il pesce sia portato direttamente in cucina” disse loro, e con una mano si tappò il naso.

“Oggi non abbiamo un solo pesce” gli disse Pacoldo.

Il servo sembrava inorridito, ma proprio in quel momento scoppiò una confusione dietro l’angolo del palazzo, dove c’era la porta principale. Vedemmo soldati con spade e lance riempire la via. Quis e i due papà andarono a vedere, ma Pietro ed io avevamo paura, e rimanemmo nascosti dietro una fontanella. Ma sentivamo tutto.

“Questo palazzo è sotto sequestro, nel nome del re” disse un soldato.

“Ma come, sotto sequestro? Cosa sta a dire?” Era la moglie di Picaldo.

“È stato comprato con monete e gioielli appartenenti di diritto al tesoro reale. Sono stati esaminati, e non vi è ombra di dubbio. Tu, o donna presuntuosa, avresti dovuto dichiararli subito al Palazzo Regio. Invece li hai trafugati e utilizzati loscamente, per profitto personale. Se tu avessi dichiarato il tesoro ritrovato alle autorità, è probabile che ti avrebbero lasciato una moneta d’oro come ringraziamento. Ora come ora, sei tu che devi ringraziare il re e il Signore che ti sequestriamo solamente questo palazzo. Avresti potuto finire in cella, o peggio”.

“Ma… ma… non potete… com’è possibile?”

Presto la vedemmo apparire da dietro l’angolo, in mezzo a una scorta di soldati che la tenevano rudemente per le braccia rudemente, e sorridevano come se avessero preso un bambino con le mani dentro il sacco. E Quis non mancò di fare la sua morale..

Ma quale disastro le ambizioni!
Esce di scena, scortesemente scortata,

Sua superbia sgradevole sgretolata,
Per tornare alla più umile delle situazioni.

E sopra di noi sentimmo craaaaa, craaaaa. Il corvo ci aveva raggiunto…

Eravamo di nuovo al vecchio noce, accanto alla capanna dei pescatori, i nostri genitori e Quis dietro il muro, vicino alla finestra. I fratelli pescatori arrivarono, e la donna venne loro incontro alla porta. Ora non c’erano storioni, e al posto del bastone in spalla portavano una grossa cesta, piena di piccoli pesci, argentati dalla luce matutina.

“Alborelle” disse la moglie con disgusto, sbattendo le mani contro la sua veste di povera lana. “Beh, meglio di niente! Pulitene un po’ per il pranzo prima di andare al mercato”.

“No, cara” disse il marito, fermo. “Noi siamo stanchi, vogliamo un attimo di riposo. Li pulirai tu. E poi ne sceglierai i migliori, e li porterai dalla fattucchiera Edburga come regalo. Senza chiederle niente. Capito?”

Per un momento la moglie sembrò incredula, stava lì a bocca aperta, gli occhi spalancati, come se nessuno le avesse mai parlato così. Poi, vedendo l’espressione convinta del marito, scrollò le spalle e annuì, e si mise al lavoro.

Picaldo e Pacoldo andarono a riposarsi all’ombra della quercia dietro la capanna.

Un silenzio, poi Picaldo, scuotendo la testa con meraviglia: “Pensa un po’, fratello mio, tutto questo perché un giorno ti cascò dal cielo un lombrico tra le mani”.

“Già! Ma non credo capitò a caso. Ci sarà stato lo zampino della fattucchiera Edburga anche in quello”.

“Dici? Forse hai ragione”.

Ricadde il silenzio.

“Picaldo,” disse il fratello dopo un po’, “non ti ho più chiesto. Qual era il terzo desiderio di tua moglie?”

Il fratello rise.

“Sicuro che vuoi sapere questa volta?”

“Sicuro!”

“Ghertruda ha detto così: voglio vivere come fossi la regina Teodolinda! Anzi, no, voglio… voglio vivere come fossi l’imperatrice Teodora… No! Voglio vivere come fossi Dio stesso!” E Picaldo rise di nuovo. “Assurdo, ovvio. Chi è come dio?”

Pacoldo non rispose. Guardava la loro capanna.

E sentimmo per l’ultima volta il verso del corvo, e questa volta dietro le nostre spalle. Girandoci, lo vedemmo descrivere grandi cerchi nell’aria, e spargere una nebbia fitta, come nella viuzza di Pavia quell’altro corvo. Capii subito che dentro quella nebbia avremmo trovato la via per casa. Ma come entrare senza farci vedere dai papà? Dovevamo aspettare che entrassero prima loro, e poi entrare noi, e poi… come funzionava? Uno cercava la via nella nebbia? E poi? Ci rendemmo conto che non sapevamo davvero come fare. Solo non dovevamo perdere di vista i nostri papà!

Poi il mio cuore si gelò in un istante. Il corvo aveva lasciato di fare la nebbia, ed era venuto a posarsi sopra un ramo del noce, proprio sopra le nostre teste! E faceva craaa craaaa… ci guardava… Ci avrebbe fatto scoprire!

“Cosa vede là il tuo corvo, Quis?” Sentii chiedere mio papà. Ahi! Dovetti pensare veloce. Dalla tasca tirai fuori una noce, e la gettai per terra. Il corvo, magico o no, non seppe resistere alla tentazione, e ci si lanciò sopra…

“Aaah, ha trovato da mangiare”. Disse il papà di Pietro.

Il corvo posò la noce tra due radici dell’albero, e con un preciso colpo di becco ne spaccò il guscio. Assaggiò il gheriglio, ma lo sputò con un’espressione amara. Quis guardò il nostro nascondiglio, proprio come se ci vedesse attraverso l’albero, e commentò.

Si vede quella noce ha un pessimo gusto,
C’è stato un passaggio storto, se non ho torto,
E chi l’ha portata qui non ha fatto il giusto.

Pietro mi guardò impaurito. Sapevo benissimo cosa stava pensando. Avevo rubato quella noce dal povero, generoso fruttivendolo Anselmo… Come avrei potuto sapere che le creature magiche sono disgustate dal cibo rubato? Per fortuna, i nostri genitori stavano già entrando nella nebbia.

“Grazie, come sempre Quis” diceva papà “ancora due volte, e poi avremo finito la tua basilica. Speriamo di farcela in tempo”.

Non ne dubito, finirete quasi subito.

“Non oso pensare cosa succederebbe se non riuscissimo”. disse Matteo, con aria grave.

Abbiate fede, il lavoro ben procede.

Mio padre annuì. Poi, con un piccolo inchino, entrò a passo sicuro nella nebbia, con Matteo al suo fianco.

Saremmo corsi dentro anche noi, ma Quis, con il suo viso angelico e sorridente, teneva lo sguardo di nuovo fisso sul nostro nascondiglio.

Cari ragazzi, perché restate là?
Non aspetto qui per sgridarvi,
Quello tocca ai vostri papà,
Voglio solo vedervi e salutarvi.

Mentre parlava, il corvo spargi-nebbia si posò sulla sua spalla. A questo punto, non c’era altro da fare. Uscimmo da dietro il noce. Pietro era ben mortificato, io invece facevo finta di essere dispiaciuto. Inutile mentire: mi ero divertito un sacco!

Ma su, ma basta facce contrite,
Volevate stare coi papà, lo so bene,
Ma ora, attenti, la via non smarrite,
Andate, e niente paura per le pene!

E con la testa indicò la nebbia.

Pietro ed io ci scambiammo uno sguardo, e ci mettemmo a correre. Ma quando sentii il gelo e l’umido della nebbia in faccia, mi girai, e guardai Quis.

“Ma… chi sei tu?”

Ah! La domanda posta

È la sua stessa risposta.

Ovviamente, rimasi lì un attimo, confuso. Poi Pietro mi prese per il braccio.

“Forza, andiamo!”

Ed entrammo nella nebbia.

“Che cosa troveremo?” mi sussurrò Pietro.

“Non lo so…” dissi io “è la prima volta anche per me, sai. Proviamo ad andare avanti”.

A passo lento avanzammo nel bianco denso… per quanto tempo? Non vi saprei dire. Esattamente come quando ci eravamo trovati nella nebbia all’inizio dell’avventura, dentro quello strano luogo che mio padre aveva chiamato ‘il Ghastengarda’, e persi l’orientamento, nello spazio e nel tempo. Infine, Pietro disse esultante:

“Ciottoli! I ciottoli della strada!”

Sotto i piedi c’erano i sassi tondi delle strade di Pavia. Ma eravamo ancora immersi nella nebbia più densa di sempre, e non si vedeva nulla.

“Ora che facciamo?” chiese Pietro.

“Non lo so… Camminiamo,” dissi, “sperando che sia la direzione giusta”.

Uscimmo dalla nebbia dentro la stessa viuzza della mattina. In fondo all’angolo vedevamo la gente passare sulla via principale, ed erano persone che conoscevamo, vestite in modo normale. Che meraviglia! Che sollievo trovarci di nuovo a casa!

Ma c’era qualcosa che non tornava. La luce… era molto diversa… era già sera, quasi l’ora del coprifuoco. Ma quanto tempo eravamo rimasti dentro il mondo del racconto? Non ci fu tempo neanche per pensarci, perché quelle persone in fondo alla via stavano correndo, e stavano urlando:

“Soldati! Soldati alle porte! Soldati!”

Quis – Capitolo 4

Ma tu crederesti alle parole di un pesce?

Illustrazioni di Francesca Duo

Io vi chiedo: com’è possibile passare da un luogo e un tempo a un altro, per magia, per miracolo, non lo so, senza lampi, nessun tuono, nessuna luce strana o fumo colorato? Un momento sei qua, poi sei là, e non ti accorgi nemmeno! L’unica cosa sicura è che c’entrava il corvo di Quis, che tutte le volte si faceva vedere con tanto di craaaaa craaaa.

Ci aveva trasportato dalla casa della fattucchiera a una solitaria curva del fiume, dove i due fratelli pescatori cercavano gli storioni fatati. Per via della magia, o per pura fortuna, eravamo un po’ distanti dai nostri padri, e dietro le loro schiene, e così ci nascondemmo velocemente nella sabbia, dietro un ciuffo di giunchi. Che cosa stava accadendo sul fiume?

Il fratello minore, Pacoldo, stava in una piccola barchetta con una canna da pesca in una mano, e con l’altra usava una larga pagaia per tenere la barchetta dritta nella corrente. Posò la pagaia per un attimo, intanto che infilava un verme sull’amo, ma l’esca gli scivolò dalle dita e cadde in acqua.

“Mannaggia, che giornataccia! Altro che storioni fatati, tutto mi va storto!”

Proprio in quel momento il piccolo tordo che avevamo visto dalla fattucchiera volò basso sopra la testa di Pacoldo, e lasciò cadere qualcosa. Per sua grande sorpresa, si trovò tra le mani…

“Che meraviglia! Tu caschi proprio a fagiolo, vermone. Vediamo come te la cavi come esca”.  Infilò il lombrico sull’amo, e lanciò in un punto profondo del fiume. Quis intanto commentava.

Chi storioni stregati a pescare va,
O follia o fortuna farebbe,
Saltare in salvo sapere dovrà
E nuotare bene non nuocerebbe!

A riva, su una spiaggetta di sabbia bianca, il fratello più grande, Picaldo, era seduto accanto a un’altra barchetta simile a quella di Pacoldo.

“Gli storioni fatati…” diceva. “Soltanto una fiaba, secondo me. Tu hai mai sentito nostro padre dire di averne pescato uno? Il nonno? Il bisnonno?”

“Mai” rispose Pacoldo “ma è vero che i cantastorie ne raccontano…”.

“Cantastorie! Bah! Quante cose raccontano… contadine che sposano principi… folletti che trasformano il fieno in oro… Non siamo più bambini…”

Pacoldo lo tagliò corto con un urlo.

“Un pesce!” La sua canna era piegata, il filo teso che più teso non si poteva. “Ma è grosso!” La barchetta incominciò a muoversi contro corrente; tenendo la canna stretta tra le ginocchia, cercava di tenersi con la pagaia. “È grosso, e forte!”

La barchetta però veniva trascinata, e sempre più veloce, da qualcosa sotto l’acqua, qualcosa di una forza impressionante.

“Maaaaaai seeeentiiiiiiitoooooo…” Pacoldo scivolava, correva davanti a tutta velocità, “uuuuuun peeeeeesceeeee coooooosììììììììììììììììììììììììììì!!!!!

Quis si divertiva:

Il pesce l’ha preso e lo porta a spasso!

Picaldo si lanciò nella sua barchetta.  “Passami la canna quando puoi! In due lo facciamo stancare!”

“Nooooooon èèèèèèèèèèèè faaaaaaaaaaciiiiileeeeeeeeeee….” diceva il fratello.

Picaldo diede tre, quattro colpi fortissimi di pagaia, e la sua barchetta sopravanzò quella del fratello. Se il pesce non cambiava rotta, certo si sarebbero scontrati! All’ultimo, con un altro colpo di pagaia si spinse leggermente da un lato, e mentre passava Pacoldo gli prese la canna. Incredibile!

La barchetta del fratello andava così forte che salì sulla spiaggia e finì in mezzo ai cespugli, non lontano da dove Pietro ed io stavamo a guardare. Ci abbassammo per quanto potemmo nella sabbia, trattenendo il fiato. Ma non c’era bisogno, stava già tornando al fiume, barchetta e pagaia in braccio. Quis approvava:

Fremente, il fratello torna sfrecciante al fracasso!

Nel frattempo, anche Picaldo correva su e giù per il fiume tra urla e spruzzi d’acqua. Ora, non pensate che io stia scherzando, se volete potete chiedere anche a Pietro, che non mentirebbe mai. A un certo punto dall’acqua saltò su un pesce enorme, dal naso appuntito, più lungo dell’uomo più alto, e con una grande gobba sulla schiena. Completamente dorato, scintillava nel sole, e aveva lunghi baffi – barbigli, li chiamano i pescatori – color d’oro alla base e viola luccicante alle punte e, in mezzo, tutti i colori dell’arcobaleno. Saltò talmente in alto che Picaldo, che teneva la canna strettissima, fu tratto su dalla barca con una lunga e alta curva in aria… E quando il pesce ricadde in acqua, trascinò giù anche il pescatore, che finì nel fiume con la canna ancora in mano.

Per fortuna, Pacoldo era lì vicino, e riuscì a mettersi con la barchetta sulla stessa rotta di Picaldo.

“Forza! Passamela! Questo pesce ce lo portiamo a casa!”

E, miracolò! Riuscì a prendere la canna dal fratello, e così toccò di nuovo a lui correre su e giù, sul pelo dell’acqua, veloce come il vento…

Che intrepido trucco, che trovata, che trapasso!

Ma forse vi state chiedendo: questo pesce non si stancava mai? Dico la verità, non credo che un uomo solo, per quanto forte e determinato, avrebbe mai potuto catturare quel pesce, ma questi due fratelli riuscirono tre, quattro volte a passarsi la canna, e senza mai lasciarsela sfuggire di mano. Infine il pesce smise di tirare, e venne a galla vicino alla riva con la testa fuori dall’acqua. Vedevamo l’amo infilzato nella bocca, e i grandi occhi color ambra. E il pesce incominciò a parlare.

Ripeto: voi avrete capito ormai che a volte io dico cose… beh, diciamo così, non completamente vere. Ma Pietro è un pezzo di pane, non ce la fa proprio a dire le bugie, e lui vi dirà subito che tutto questo è successo davvero. Anzi, prima che questo racconto sia finito accadranno cose ben più strane, vedrete! Quindi, come dicevo, il pesce incominciò a parlare:

“A voi la vittoria, fratelli pescatori! Nuoto nel fiume da oltre quattro secoli, e mai avevo rischiato di essere pescato. Ma siete stati anche tenaci, coraggiosi, e abili, oltre che astuti. E così, la mia storia finisce qui, e ora. Spero che vi ripaghi il giusto chi mi acquisterà, e che il banchetto sia degno dell’ultimo degli storioni fatati.”

I due fratelli si guardarono a bocca aperta. Erano bagnati, stremati, distrutti dalla lunga lotta con il pesce. Pacoldo si riprese per primo dalla sorpresa.

“Mi piange il cuore se penso che questo storione sarà servito sul tavolo di qualche ricco stasera. Non è giusto. È un animale nobile, valoroso. Secondo me dobbiamo far finta di niente, e lasciarlo andare”.

Picaldo sospirò.

“Sono d’accordo con te. È il pesce più bello che abbia mai visto, lo risparmierei volentieri. Ma ora che ho sentito un pesce parlare, comincio a chiedermi se i racconti dei cantastorie non siano veramente veri. E se dentro la pancia ci siano le monete d’oro e le gemme del re che annegò nel fiume tanti anni fa? Potrei accontentare mia moglie per sempre con una sola moneta d’oro”.

“Ha!” il fratello ridacchiò. “Sei grande e forte, ma hai la testa di coccio. Accontentata per sempre con una sola moneta? Impossibile. Meglio le alborelle, caro mio, meglio le alborelle…”

Ma riprese a parlare lo storione fatato.

“Ascolta tuo fratello, pescatore. È saggio. E in ogni caso, io non ho nella pancia né l’oro né le gemme del re Ariperto. Conosco bene questo tesoro, e in verità giace nel letto del fiume. Ricordo bene quel giorno, cent’anni fa, quando il re annegò. In verità, una volta ho anche provato ad assaggiare una moneta, ma sembrava piombo, non oro. Una cosa rubata ha sempre un pessimo gusto, e il re Ariperto aveva accumulato la sua ricchezza a discapito della gente, con tasse ingiuste, sequestri, e tante altre prepotenze”.

“Ahimé!” lamentò Picaldo. “Vedo la felicità svanire. Mi serviva, quel tesoro. Ora che cosa dirò a mia moglie?”

Il pesce lo guardò con comprensione.

“Se per te è veramente importante portare a casa una parte di questo tesoro, e se mi libererai, io ti manderò dei pesci minori della mia stirpe, storioni bianchi di fiume, come quelli che pescate per le feste. Nelle loro pance troverete una moneta d’oro. Ma ti avverto: da un tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie”.

“Veramente faresti questa cosa per me? Come posso sapere che manterrai la parola?”

“Picaldo!” disse il fratello. “Non dire così. Io di questo pesce magico mi fido. Dopotutto, gli risparmiamo la vita”.

Picaldo era turbato, ma dopo un lungo momento disse:

“Allora ti libero”. Tolse l’amo dalla bocca del pesce. Ma lo storione non se ne andò subito.

“Sono sicuro che tornerete a cercarmi in futuro” disse loro. “Per risparmiare a voi, e a me, la fatica di altre giostre sul fiume come oggi, vi insegno un modo per chiamarmi. Basterà chiamare a grande voce cuuuuuuuuuuì! Vedrete che io verrò. Così gli uomini dei secoli dimenticati usavano richiamare la mia gente. Io sono l’ultimo rimasto, ma non ho dimenticato quel richiamo. Per ora, vi saluto”.

E con questo, lo storione fatato scomparve. Quis, al suo solito, commentò:

Parlare con pesci può parere pazzia,
Oppure parodia,
Ma piace a me come pura poesia!

Qualche tempo dopo, i due fratelli appesero quattro storioni – bianchi e lunghi meno della metà di quello fatato – a un bastone, si misero il legno sulle spalle, e a passo pesante tornarono alla capanna. C’era un largo tavolo da lavoro davanti alla porta, e vi posarono i pesci, e Picaldo prese un coltello per pulirli, ma in un batter d’occhio apparve la moglie, dicendo:

“A me il coltello, Picaldo, questi storioni li pulisco io!”

“Ma lo sai fare, moglie? Non hai mai voluto provare. Guarda che questi puzzano come tutti i pesci”.

“Zitto!” e gli prese il coltello “te l’ho visto fare mille volte, purtroppo. Ora fatti da parte, sarò veloce”.

A grande fatica, con vivo disgusto, incominciò a pulire i pesci…

Ma quale forza che trovi nell’ambizione!
Non avevi mai alzato un dito

Per aiutare il tuo marito
Ma l’incanto dell’oro è più forte d’una pozione.

Nel ventre del primo pesce non c’era niente, e lei stava buttando le budella per terra quando il marito disse:

“Ma no, cara, non si butta via. E come faranno la colla se tu butti via la vescica? Vale quanto tutta la carne”.

“E portala via, allora, non sopporto la puzza”.

E così passò al secondo pesce. Ma anche il ventre di questo storione non aveva altro tesoro che la vescica. E così andò anche con il terzo. La faccia della donna diventava sempre più cupa, e a questo punto sbatté il coltello sul tavolo.

“Inutile! Qui non c’è nessun tesoro. Finisci tu!”

E se ne tornò dentro casa.

E così era troppo faticoso
Finire un lavoro laborioso.
Infatti, mi sembrava miracoloso
Per il tuo carattere borioso!

Ora, con grande pazienza, Picaldo e Pacoldo sfilettarono i primi tre pesci, ricoprendoli di muschio e mettendoli con cura in cestini di erba bagnata per tenerveli al fresco. Solo ora, con la carne dei primi pesci al sicuro, passarono all’ultimo storione. E qui, aprendolo, trovarono due nuovi tesori.

“Uova!” disse Pacoldo, felicissimo. “Uova per il mercato, per il tavolo di un nobile…”

“Una moneta d’oro!” urlò invece Picaldo. “Qui, proprio qui nella pancia!”.

Avete capito? Non solo quei pesci avevano carne e uova abbastanza per una festa a palazzo con tanti nobili, musica, balli… ma nella pancia avevano trovato una moneta d’oro! La moglie poteva dunque sentirsi soddisfatta?

Quis – Chapter 3

The Treasure of the River

Illustrations by Francesca Duo

The ground was soft. And just as well, too, because we fell right on our bottoms, but weren’t hurt. What? We fell on the ground? Shouldn’t we have fallen into water? Well, my friends, we were inside a world of story: the Ghastengarda, father had called it. In that world, every kind of magic is possible. And now we found ourselves on wet grass that was so cold it was almost frozen, and around us the fog was thinning out. In the space of a few breaths, in fact, it cleared so much we could see all around us. We were un a small rise, in the middle of some leafless winter bushes, and luckily our fathers were about twenty paces away, lower down. We hid behind those bushes to watch. Our fathers were speaking with…

…a boy as beautiful as an angel and as cheerful as the sun. It was as though the best and brightest child of the richest nobleman of the city had had a hundred perfumed baths, then put on clothes that had been washed a thousand times, and… and I don’t know, I just can’t describe how… clean he was. And likeable. You couldn’t help but love him after a single glance. As we found out later, his name – and a rather odd name at that – was Quis.

Now he was speaking with them. Matteo’s face was as wonder-struck as ours, but my father seemed completely at ease – actually, he was enjoying his cousin’s surprise a little, I think. The angelic boy was pointing to something further away, down, down, toward the river. Because, you see, we were up high on the banks of the Ticino, I believe quite close to San Salvatore, outside the walls. To the left, in the distance, I recognised the Roman bridge, and nearer to us were brick-makers’ huts and fishermen’s boats.

…never have I seen such greed in a king,

The boy was saying.

For gold, jewels, belongings, for everything!
He took it all, from each and every subject,

Leaving them bitter, in poverty most abject,
And now that he’s fled in the face of battle,
At last they’ve seen his true face and mettle.

But what does he care? His only thought
Is for taking his treasure without getting caught.

Now, here’s two more incredible things about Quis: how he speaks. It seems like a nursery rhyme. I don’t know how he does it, I’ve tried and I can’t. A first rhyme might come to me easily, but if I try to keep going I trip over my tongue and that’s the end of it. The second thing is: when you are inside the Ghastengarda you can hear him everywhere, no matter whether he’s two feet from you, or a thousand. And he doesn’t shout, not at all! He speaks softly, and you can always hear him.

Meanwhile, Pietro and I were watching, and I have to admit, we were both scared. Now we had been magicked away beyond the city walls and, what’s more, beyond our own time! Because the brick-makers and the boatsmen down on the banks of the Ticino were all dressed like people out of old fairy tales, like the people in the oldest wall-paintings in the oldest churches of the city, the ones left the way they were after the great earthquake of years ago, half crumbled and ruined. And the city, from what we could see of it from there, was different, too. It was smaller, with more wood and less bricks, and there were no towers. Let me tell you again, we were scared!

What were we to do? Come out of the bushes and show ourselves, and let ourselves be punished a bit, or stay hidden and wait to follow our fathers back home to our own world at the journey’s end, and somehow try to get away with it? What would you have done?

Just watch him beg, grovel, entice,
While his heart within has turned to ice…

It was Quis again. Just who was he talking about?

Now we saw that the boatsmen were talking with a tall, rather fat man, who was half bald. He was dressed like a poor man, but his fingers, which looked like little sausages, bore thick gold rings, with huge coloured gems, that he could obviously no longer get off. He seemed to move with difficulty and was sweating… even though the air was very cold.

“…but you must obey, I am your king! Take me to the far side, straight away…”

“But Your Majesty…” said one of the boatsmen, a youth with a shy air. The other, older and more cunning, roughly cut in.

“What majesty, stupid boy? I can only see a fat, arrogant man wearing rags. Does a king go about dressed like that?”

Quis was amused by the scene:

My, my! Isn’t stubbornness a curse?
And cowardly greed just makes it worse!
You used to dress as commoner to spy

On your folk in the city: ‘twas a clumsy lie.
They always saw through you, it wasn’t hard,
So now you would try it again, they’re on guard.

Though all you are seeking is a helping hand,
Of course they won’t do as you haughtily command!

Now we heard other voices, crying out: “It’s him! It’s him! Apripert the greedy! Aripert the coward! In the name of the Lord, capture him!”

And from the plain beneath the city walls came soldiers wearing the strangest armour and carrying round shields, just like in the very oldest wall paintings. They were brandishing long spears, and were furious. The man with the golden rings turned as white as quick-lime and started running towards the river. Well, I say running… he sort of waddled, like a duck on land… do you know what I mean? With many a wail and a moan, he plunged into the freezing water, and began whinging like a puppy dog.

The angry soldiers got to the riverbank when he was already deep in the water, trying to swim. They stopped: there was clearly no point in trying to follow him, his doom was sealed. Quis sadly shook his head.

What astonishing effect has desperation!
Even the laziest will run if it’s from strife;
But is it the treasure you stole from your nation,
That you choose to save now, or your life?
Alas! Your pockets are leaden for all the gold inside,
The river flows swiftly, will you reach the far side?

Indeed, right in the middle of the river, we saw the current dragging the man away, and he was no longer able to keep himself afloat. Incredibly, he was no longer even trying to swim. He just held his arms up out of the water, with gold coins, rubies and sapphires clutched in his hands. Soon he went down.

The soldiers stayed to watch a little longer, but he didn’t come up again.

“He has punished himself for us.” Said one.

Just then, we heard a raven crying, caaaaw, caaaaw! We looked up. It made me think of the fog-raven in the alley way in Pavia, but then I saw that this one was older, its head nearly bald, with grey feathers beneath its wings. It slowly wheeled overhead, and called again… caaaaw, caaaaw! When we looked down again… we were no longer on the river.

“The treasure of the river? The treasure of the river… Nonsense!”

What? Who was talking? Where was I? What had happened? Oh, how confused I felt! We were not on the rise above the river anymore. Pietro and I were under an old walnut tree, and it was spring time, because its leaves were only tine, and of the lightest green, the very first of the year. But how? What had happened? We had entered no magical fog this time… quite simply, we were there.

“Your father made fun of both you and your brother, gullible as you are!”

It was a woman’s voice, coming from a poor little wooden hut, all crooked and leaning to one side, with a roof that seemed ready to cave in from one moment to the next. A narrow window opened in the wall closest us. Outside the window stood our parents and Quis, eavesdropping.

“What treasure of the river? How could my father have let me marry you? How could he? He abandoned me here, to this life of misery, surrounded by stinking fish… for ever!”

“My dear, don’t say these things,” came a man’s voice. “My father didn’t lie. Every day we take a piece of the treasure he was talking about to the markets…”

“Treasure? Is that what you call a basket of… of… tiny alborelle fish?”

“Before passing away, my father made me and my brother promise to work hard every day with our nets to search for the treasure of the river. E so, every day we take more and more fish to the markets. Soon we’ll have enough money to fix the roof, and maybe build a new room…”

“You didn’t understand what he meant, husband! I’ll give you one more chance. But this time I won’t leave the matter in your hands. I’m going to the woods-witch, Edburga, she owes us a favour. I’ll be back soon.”

And we heard a door shut – actually it sounded more like a door breaking – and a tall, proud, blonde woman with dark eyes strode angrily away from the house. Our fathers and Quis followed her at a discreet distance, not to be noticed. Quis commented, laughing:

My, my! Isn’t stubbornness a curse?
And ambition can only make it worse!
If she goes to the witch of the wood,

Whining about fish,
Demanding a wish,
There will surely come of it no good!

Once again, Pietro and I looked at each other. What should we do? Follow them?

“Let’s go,” he said, “and show ourselves to them. Come on, Faro, that’s enough now. Let’s give ourselves up, our fathers will give us a few smacks, and that’ll be the end of it. I don’t want to get lost and get stranded forever in this place… this time… this world… Well, I don’t know quite what it is.”

“No, come on, we’re going really well. All we have to do is keep an eye on them. Sooner or later they’ll go back home, and when they do we can follow them without being seen, as though nothing ever happened.”

Pietro was far from convinced, but I gave him no time to think.

“Let’s go, Pietro, we don’t want to lose sight of them.”

It was true, our fathers and Quis were disappearing into the woods. Pietro gave me an uncertain look, but he came.

Quis had spoken of a wood-witch called Edburga. Who was she? We would soon find out she was an extremely old woman, who spoke strangely and lived in a little cottage beneath a towering, majestic black poplar. Well, I say cottage, but that makes you think it was made of wood, at least. But instead of walls and a roof there were only old woollen cloaks hung about branches, one next to the other and sewn together, and then covered with feathers of every size and colour. It was a kind of feathered tent. It was surely the strangest house I had ever seen. But there was no doubt about it: it was the right house for a woods-witch.

Edburga was sitting on the ground and wore an ancient woollen cloak that was also covered with feathers, and she wore a blindfold. She had lit a fire and was roasting something. From the smell it must have been fish.

The fisherman’s wife went up to her.

Quis and our fathers kept well hidden, and we kept double hidden, once from our parents and once from the fisherman’s wife.

“Edburga,” the wife said without so much as a ‘good day’, “my husband and his brother brought you that fish you’re cooking, didn’t they?”

The witch smiled under her blindfold.

“Good day to you.”

“I said, my husband and his brother brought you that fish, didn’t they?”

“All the fishermen bring me something from time to time. Is your husband’s name Picaldo, and his brother’s Pacoldo? Two fine boys.”

“Picaldo’s father used to bring you fish, too, didn’t he?”

“To be sure, as did his grandfather. Wise and generous men, they were.”

“Then you owe us… I don’t know how many hundreds of fish, over generations… Enough is enough! They say you’re a powerful witch. Let’s see. When I got married, my father-in-law promised that Picaldo and Pacoldo would find treasure in the river. Instead, every day they bring home the smallest fish to be found in the river, the alborelle, and no treasure at all. I’m sick and tired of it. From now on, you must make them fish the great enchanted sturgeon that swallowed the treasure of King Aripert, that the storytellers sing of!”

After a long silence, the witch replied:

“Are you sure, my girl? The alborelle are tastier than sturgeon, have you ever tried them in marinade?”

“Don’t take me for a fool! I want to live like a normal woman, in a decent home, with decent clothes. Do as I say, and you will have paid back all the fish of ours you have eaten.”

“Very well, then, I will do as you demand. But you must give me a hair from your head.”

“A hair…? Oh, yes. For the magic, of course!” And with a grimace, she plucked on of her long blonde hairs from her head. She gave it to the witch, and we saw her hand tremble a little. She was not nearly as sure of herself as she made out to be.

The old woman now did something truly strange: she held the hair between two fingers and blew gently all along its length. The… she let it drop. What happened next made me shiver… the hair began to move by itself, as though it was a worm. It wormed its way into the ground. Down, down, down it went, until it was all gone. Then, with a determined expression, the witch began to dig with her bare hands, and soon drew forth from the soil a big, fat earthworm, just the same length as the hair.

As she watched, the wife was as fascinated as she was disgusted. The witch, calm and sure, whispered something to the worm, which stopped wriggling and calmed down. After a few moments a bird – a thrush, I think it was – flew out of a nearby bush and came to rest on the witch’s hand. It took the earthworm in its beak and flew away.

“Is that your magic done, witch?” Asked the fisherman’s wife. She was clearly struck by it all, but at the same time disappointed.

“That is my magic done.” Nodded Edburga.

“Very well, then. Goodbye.”

And with that, the woman went off as quickly as she could.

Caaaaw, caaaaw!

We heard the raven call overhead one more. We looked up at those black and grey wings… we blinked… and  we were no longer by the  wood-witch Edburga’s house.

Dreamteam – Chapter 3

‘you’ve got so many qualities they may have been looking for’


Ninzi had started her work trial at the Time Park just one month before the Darkness fell. She’d almost felt guilty about it. Shouldn’t it be more difficult than that to get your first decent job? She’d only sent out… what, about three hundred CVs since finishing her latest degree? Some college kids her own age had sent out two or three times that many and were still ‘doing time’, either back for yet another degree, or kicking their heels in Community Service, wondering what to try next. But Ninzi had got lucky, and to make it even more miraculous, it was one of those wishful-thinking applications, the ones where you send off your CV thinking it’ll just get trashed without ever being opened. Not so. They had opened it.

The holler had come while Ninzi was at a café in Lagos with her friend from choir, Mai. They were soothing their voices with a long latte after rehearsal.

“Good morning, do I have the pleasure of speaking with Caterina Guarini?” A formal opening. He was dressed formally, too, in office clothes. Mai and Ninzi exchanged a look. There was no name or location on the holler image.

“Good afternoon, yes I am.” How do you ask another person their name, formally? “Who… ah, to who do… to whom do I have the pleasure of talk… ah, speaking?” Damn! She hated it when she gave away that English wasn’t her native language. It was frustrating, she never made mistakes when she wasn’t nervous.

“I’m Pedro Xu, of the Junior Human Resources team, Time Park Enterprises.”

Ninzi managed to keep calm, but Mai, who was out of the holler’s frame of sight, broke into a triumphant grin on her behalf, and gave a silent whoop of joy with a few air punches for good measure. The man in the holler went on.

“I’m pleased to inform you that you have been selected for a work trial beginning Monday, attached to the Historical Investments team. Do you accept the offer?”

Do I accept? Of course I accept! It’s the Time Park for God’s sake, it’s like a dream! She struggled to keep her composure.

“I would be delighted to accept.”

The man in the holler gave her one of those polite smiles people give when they are struggling to be professional through a wall of boredom.

“I’m afraid that phrase is legally ambiguous, can you just answer yes or no? Do you accept the offer?”

Ninzi took a deep breath and closed her eyes, not to be put off by Mai. Her friend had got up from the table and was doing a delighted little victory dance, attracting a few stares.

“Yes, I accept.”

“Excellent.” He glanced down at his bracelet, flicked his wrist a couple of times, and looked up again. “I’ve just sent you the contract, and details about your salary.” At the word ‘salary’, Mai’s face broke into an even broader grin, and stepped up the pace of her victory dance. “Should you have any queries or doubts about anything at all, please don’t hesitate to get in touch with me.”

“Ah, thank you. I’ll send you the signed contract back right away…”

The holler had already closed. Mai couldn’t keep her mouth shut any longer.

“Girl, you’ve got yourself a paid position, and you’re not yet thirty!” She erupted. Their nearest fellow customers nodded when they heard this. Mai’s outlandish dance explained, they went back to their newspapers, their moodboards, their music. “I’m so happy for you, Ninzi,” she leaned across the table, took Ninzi’s head in her hands and kissed her, “this has really made my day!”

And it was true, Mai was the kind of person who just put herself into your shoes and felt your own feelings in the moment, better than you could for yourself. And right now, it was joy. If it had been the other way round, Ninzi would have been struggling with envy, frustration, and bitterness as her friend received the good news… Why couldn’t she just relax and celebrate? Why was her joy stained with a sense of guilt, a sense of… Not that she’d done anything wrong, “it’s just…” she tried to voice why she wasn’t whooping and dancing on the tables, “I feel like I haven’t earned it. I mean, why me? They must get hundreds, if not thousands of CVs every day. Why me?” When Mai rolled her eyes, Ninzi hastened to add: “Not that I’m complaining. I just feel a bit guilty.”

“Girl, you’ve got so many qualities they may have been looking for. Don’t even start speculating, it’s useless. They’ll tell you on the job.” That was hopeless advice, and they both knew it. Who could stop themselves from speculating about something like this? Sure enough, about half a second later: “What are your degrees, again, Ninzi?”

“History of philosophy… I knew I wanted to do it, I knew it would be tough, so I got it out of the way first, back in Italy…” Mai was nodding. She began sticking fingers in the air to keep count as Ninzi went along. “Then I did a two-year course on investment tools in Philadelphia. That’s another one I knew I wouldn’t enjoy, so I had to get it out of the way. Then I did Anabranch history in Mumbai, where we met, I wouldn’t have bothered sending them my CV if I hadn’t done that. You know the rest.”

“Psychology in Monterrey, and History of Music here in Lagos.” She finished ticking off her fingers. “Not a huge amount, not too little. Some odd combinations that might have helped.”

Mai stopped to think it over, draining the rest of her latte. Ninzi had carefully been making hers last as long as possible, she didn’t want to go back to her room by herself, she wanted to stay with her friend. But Mai had no intention of stopping there. Absent mindedly, still engrossed in her speculation, she went about ordering something else.

“Net, what’s the biggest calorie thing I can still order here?”

“You have already reached your limit.” Her bracelet told her. “You can order a glass of water.”

Mai rolled her eyes and slapped her hands down on the table. Ninzi giggled.

“It’s ok, I’ll get you something.”

“I don’t know how you get by on so little. I don’t want to be a parasite…”

“Don’t be silly. I don’t want to go home yet, anyway.”

“Oh, well… thank you.”

“Net, another latte for me.”

“On its way.” Came the reply.

Mai shook her head.

“How can you make it to this time of day with a latte’s worth of cals to spare? Anyway, I was thinking, you don’t have a lot of technical background, and I don’t think they’d take technical staff without experience anyway. The things they get up to are just too delicate. You must be going into customer relations, or communication. Or even the education team, that’s actually big business for them. You’ve done lots of history, and psychology along with it… the History of Music thing may tie back to Einstein, and the Beatles. That could be it.” Then her eyes widened, she theatrically put her hand to her chest, and her voice rose. “Hey, I didn’t even think of it, but your mother tongue is Italian.”

Ninzi glanced about, embarrassed.

“No, that may be an advantage…” Mai lowered her voice and leaned forward, articulating every syllable, “if you actually have to enter the Time Park.”

The latte arrived just then. The plate hovered still after Ninzi had taken it off. Lost in thought, she stared at it blankly for a while before glancing down at her almost-empty latte glass. So that was what it wanted.

“No, no, I’m still finishing it.”

The plate hovered away. Ninzi pushed the new latte over the table to her friend.

“That would be so amazing if you were right…” She breathed to Mai.

Her bracelet interrupted them.

“A document has arrived from Time Park Enterprises.”

“Let me see it.” Ninzi ordered. She caught Mai’s curious eyes through the gram when it appeared. “Let us see it.”

The gram of the document lowered down, flattened out, and swiveled around till they could both read it, like a moodboard. Silence fell while they examined it, broken only by the sound of Mai’s latte, which was really Ninzi’s, frothily shooting up its straw.

“There it is,” Mai pointed, “that’s the job description.”

Ninzi read it, almost unbelieving. It was just one sentence.

“Personal assistant to Mr Ferro Garbarin.” She looked up at Mai. “It just doesn’t say who he is, or what he does.” Uncertainty was flooding over her, and it showed on her face.

“What kind of name is that? The way you say it, it sounds Italian.”

“It is. Well, sort of. I mean, it’s not normally a name. It means ‘iron’, the metal. But there is another name, Ferruccio, which is like the diminutive of Ferro, like my name is a diminutive of Caterina. Well, sort of. Italians like diminutives.”

“Oh.” Mai paused in her latte suction. “Well. What do you think he does?”

“How should I know?”

“Are you going to sign?”

“I… Oh. I guess… I mean, how can I not sign? This is a once in a lifetime thing… Isn’t it?”

“You don’t look happy about it.”

“It’s just… I mean, it’s obvious. I wish the contract said what this guy does.”

“Well, it doesn’t.” Mai was very matter of fact. “You gonna sign?” She smiled encouragingly at her friend.

Ninzi took a deep breath. Then another. She tried to think it over carefully, but the truth was, her mind had gone blank. Mai was looking at her expectantly. Ninzi looked down. Mai was three years older than her, and had only ever had a quick, three-month placement as an unpaid intern, somewhere in Mongolia. She felt so guilty.

“Net, I’m going to write.”

“Ready.” Her bracelet replied.

Ninzi put her finger to the holographic paper, and signed.

“Net, you can send the contract back.”

Mai leaned across an shook Ninzi’s hand.

“You did the right thing. Go get your career.”

Ninzi nodded, then she muttered to herself. “I wish I knew what this Ferro Garbarin does.”


Quis – Capitolo 3

Il tesoro del fiume

Illustrazioni di Francesca Duo

La terra era bella morbida. Per fortuna, perché siamo caduti proprio sul sedere, ma senza farci male. Che cosa? Sulla terra? Non dovevamo cadere dentro l’acqua? Ebbene, amici miei, eravamo dentro un mondo fatto di racconto: il Ghastengarda, l’aveva chiamato papà. Al suo interno, ogni magia era possibile. E ora ci trovavamo sull’erba bagnata e fredda, anzi, quasi ghiacciata, e attorno a noi la nebbia andava scomparendo. Nel giro di pochi respiri, infatti, si era alleggerita così tanto che riuscivamo a vedere tutto attorno a noi. Eravamo sopra una piccola altura, in mezzo a dei cespugli invernali senza foglie, e per fortuna i papà erano una ventina di piedi distanti, più in basso. Ci nascondemmo dietro quei cespugli a guardare. I nostri papà stavano parlando con…

…un ragazzino bello come un angelo, allegro come il sole. Era come se il figlio più bello e bravo del nobile più ricco della città avesse fatto cento bagni profumati, e si fosse messo vestiti lavati mille volte, e… e che ne so, non riesco a descrivere quanto era… pulito. E voglio dire, simpatico. Non potevi che volergli bene sin dal primo sguardo. Avremmo poi scoperto che il suo nome – piuttosto strano – era Quis.

Ora parlava con loro. Matteo aveva una faccia meravigliata quanto le nostre, ma il mio papà sembrava completamente a suo agio – anzi, si stava un pochino divertendo per la sorpresa del cugino, secondo me. Il ragazzino angelico gli stava indicando qualcosa più lontano, in fondo in fondo, verso il fiume. Perché vedete, eravamo in alto sulle rive del Ticino, credo vicino a San Salvatore fuori le mura. A sinistra, in lontananza, riconobbi il ponte romano, e più vicino le baracche dei mattonieri e le barche dei pescatori.

…non ho mai visto un re sì avaro

Diceva il ragazzino.

Più del sangue, l’oro gli è caro.
Ha raccolto i beni della gente
Lasciandole poco o niente,
E ora che è fuggito dalla battaglia
Tutti vedono quanto è canaglia.
Ma a lui non importa, basta riempire
Le tasche di tesoro, e partire.

Ecco altre due cose incredibili di Quis: una è come parla. Sembra una filastrocca. Non so come fa, io ci ho provato e non riesco. Magari una prima rima mi viene in tempo, ma se poi vado avanti m’impappino e finisce lì. La seconda cosa è: quando sei dentro il Ghastengarda senti Quis dovunque sia, fa niente se sta a due piedi da te, o a mille. E mica grida, no no! Parla piano, e tu lo senti sempre.

Intanto, io e Pietro ci stavamo guardando e, vi ammetto, avevamo tanta paura. Ora eravamo stati trasportati da una strana magia fuori dalla città, e vi dirò di più, fuori dal tempo! Perché i mattonieri e i barcaioli laggiù sulle sponde del Ticino, erano tutti vestiti come la gente delle fiabe, come la gente nei dipinti più antichi nelle vecchie chiese della città, quelle crollate a metà nel grande terremoto d’anni fa. E la città, che un po’ vedevamo da lì, era diversa, più piccola, più legno e meno mattone, e non c’erano le torri. Lo dico ancora, avevamo paura.

Cosa fare? Uscire dai cespugli, farci vedere, e accettare una certa punizione, o restare lì nascosti aspettando di tornare nel nostro mondo e sperare ancora, in qualche modo, di farla franca? Voi che cosa avreste fatto?

Ecco che implora, blandisce, minaccia,
Ma il cuore dentro gli si ghiaccia.

Di nuovo Quis. Di chi stava parlando?

Ora vedemmo che i barcaioli parlavano con un signore alto e un po’ grasso, e mezzo calvo. Era vestito da povero, ma alle dita, che sembravano piccole salsicce, portava grossi anelli d’oro, con delle enormi gemme colorate, che certamente non riusciva più a togliersi. Sembrava muoversi con fatica, e sudava… eppure faceva veramente freddo.

“…ma dovete ubbidire, io sono il vostro re! Portatemi all’altra sponda, subito…”

“Ma vostra maestà…” diceva uno dei barcaioli, un giovane dall’aria timida. Un altro, più grande e più scaltro, lo interruppe rozzamente.

“Ma quale maestà, sciocco ragazzo? Io vedo solo un grasso arrogante in vecchi abiti strappati. Un re va in giro così?”

Quis era divertito:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Un re travestito mi sa di asinaggine.
Sempre andavi, sospettoso, girando
Vestito da povero, la gente spiando,
Ma tutti lo sapevano, ci voleva poco fiuto.
Ora che stai cercando soltanto un aiuto
Ci provi ancora con lo stesso inganno?
Ma certo che non ti salveranno!

Ora sentimmo altre voci ancora, che urlavano: “È lui! È lui! Ariperto l’avaro! Ariperto il codardo! Nel nome del Signore, catturatelo!”

E dalla radura sotto le mura della città, arrivavano soldati dall’armatura stranissima, con scudi tondi, proprio come nei più antichi affreschi. Brandivano lunghe lance, ed erano infuriati. L’uomo dagli anelli d’oro si fece bianco come la calce viva, e cominciò a correre verso il grande fiume. Beh, correre… Dondolava, faticando come un’anatra sulla terra… Avete presente? Con tanto di lamenti e piagnucolii entrò nell’acqua gelida, mettendosi a guaire come un cagnolino.

I soldati, arrabbiati, arrivarono sulla riva quando lui era già nell’acqua profonda, e stava cercando di nuotare. Si fermarono: ovviamente, non valeva la pena di seguirlo, il suo destino era segnato. Quis scosse tristemente il capo.

Ma quale forza che trovi nella disperazione!
Non avevi mai fatto una corsa sì spedita,
Ma è l’oro che hai rubato dalla tua nazione
Che vuoi salvare ora, oppure la tua vita?
Ah! Le tasche son pesanti, e l’acqua è profonda,
Sbracci e sgambetti, m’arriverai all’altra sponda?

E infatti, proprio in mezzo al fiume, vedemmo che la corrente stava trascinando via l’uomo, che non ce la faceva più a stare a galla. Incredibilmente, ormai non tentava nemmeno più di nuotare, e teneva le braccia alzate fuori dall’acqua, stringendo nelle mani monete d’oro, rubini e zaffiri. Ben presto affondò.

I soldati stettero a guardare ancora qualche tempo, ma l’uomo non emerse più dalle acque.

“Si è punito da solo” disse uno.

Proprio in quel momento, sentimmo il verso di un corvo, craaaa craaaa! Guardammo in su. Col pensiero tornai al corvo spargi-nebbia che avevamo visto nella viuzza di Pavia, ma poi vidi che questo corvo era più vecchio, con la testa quasi calva, e piume grigie sulle ali. Girava lento, proprio sopra le nostre teste, e gracchiò ancora…craaaa, craaaa! Quando abbassammo lo sguardo… non eravamo più presso il fiume.

“Il tesoro del fiume, il tesoro del fiume… Bah!”

Cosa? Di chi era questa voce? Dov’ero?  Cos’era successo? Ma quanto mi sentivo disorientato! Non eravamo più sull’altura sopra il fiume. Io e Pietro ora ci trovammo sotto un vecchio noce, ed era primavera, perché le foglie erano piccole piccole, e d’un verde chiaro, le primissime dell’anno. Ma come? Cos’era successo? Non eravamo entrati in nessuna nebbia magica questa volta… semplicemente eravamo lì.

“Tuo padre vi ha preso in giro, te e tuo fratello credulone quanto te!”

Era la voce di una donna e veniva da una povera, piccola capanna di legno, tutta squadrata e pendente da un lato; il tetto sembrava che potesse cadere da un momento all’altro, e una stretta finestrella si apriva nella parete più vicino a noi. Fuori la finestra stavano i nostri genitori e Quis, intenti ad ascoltare la donna.

“Ma quale tesoro del fiume? Come ha potuto mio padre lasciare che io ti sposassi? Come ha potuto? Mi ha abbandonata qui, a questa vita misera, in mezzo a pesci puzzolenti… Per sempre!”

“Mia cara, non dire queste cose” giunse la voce di un uomo. “Mio padre di fatto non ha mentito. Ogni giorno portiamo al mercato un pezzo del tesoro di cui parlava…”

“Tesoro? Tu chiami tesoro un cesto di… di… minuscole alborelle?”

“Prima di lasciare questo mondo, mio padre ha fatto promettere a me, e a mio fratello di lavorare sodo ogni giorno con le reti a cercare il tesoro del fiume. E così ogni giorno portiamo al mercato sempre più pescato. Presto avremo abbastanza denaro per cambiare il tetto, e forse costruire un’altra stanza…”.

“Sei tu che non hai compreso un fico secco, marito! Ti do ancora una possibilità. Ma questa volta non lascio la mia sorte nelle tue mani. Vado dalla fattucchiera Edburga, ci deve un favore. Tornerò tra poco”.

E sentimmo sbattere una porta – in verità era più il suono di una porta che si rompeva – e una donna alta, altezzosa, dai capelli biondi e gli occhi scuri, si allontanava dalla capanna a grandi passi rabbiosi. I nostri padri e Quis la seguirono a una distanza discreta, per non farsi notare. Quis commentava, ridendo:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Questa moglie ambiziosa mi sa di asinaggine.
Se dalla fattucchiera Edburga sta andando
Per chiedere un favore
In questo nero umore
La porterà soltanto allo sbando.

Ancora una volta Pietro ed io ci guardammo. Cosa fare? Seguirli?

“Andiamo” disse lui, “e facciamoci vedere da loro. Dai, Faro, ora basta. Arrendiamoci, i nostri papà ci daranno due sberle, e finirà lì. Non voglio smarrire la strada e rimanere per sempre in questo strano posto… tempo… mondo… non so bene che cosa”.

“No, dai, stiamo andando alla grande. Dobbiamo solo tenerli d’occhio. Prima o poi torneranno a casa, e quando succederà torneremo anche noi, senza farci vedere, come niente fosse”.

Pietro non era convinto, ma non gli diedi tempo per pensare.

“Forza Pietro, andiamo, se no li perdiamo di vista”.

Era vero, i due e Quis stavano per scomparire nel boschetto. Pietro mi lanciò uno sguardo incerto, ma si mise a camminare.

Quis aveva parlato di una fattucchiera Edburga. Chi era? Di lì a poco avremmo capito che si trattava di una donna estremamente anziana, che parlava strano e viveva in una casetta sotto un gigante, maestoso pioppo nero. Beh, casetta… dire così fa pensare a una casa fatta di legno, almeno. Ma al posto delle pareti e del tetto c’erano solo vecchissimi mantelli di lana appesi ai rami, uno accanto all’altro e cuciti insieme, e poi ricoperti di piume di uccelli d’ogni colore e forma. Una sorta di tenda piumata. Era la casa più strana che avessi mai visto. Ma senza dubbio era la casa giusta per una fattucchiera.

Edburga stava seduta per terra, e vestiva un vecchissimo mantello di lana ricoperto di piume. I suoi occhi erano bendati, e capii che era cieca. Aveva acceso un fuoco, e stava arrostendo qualcosa. Dal profumo sembrava pesce.

La moglie del pescatore le si avvicinò.

Giunti sul posto, Quis e i nostri genitori si mantennero nascosti, per non farsi accorgere e noi, doppiamente, ci nascondemmo alla moglie del pescatore e a loro.

“Edburga,” la moglie del pescatore non la salutò nemmeno, “quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

La fattucchiera sorrise sotto la benda.

“Buongiorno”.

“Dico io, quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

“Tutti i pescatori mi portano qualcosa di tanto in tanto. Tuo marito si chiama Picaldo, e suo fratello Pacoldo, vero? Ragazzi per bene”.

“Anche il padre di Picaldo lo faceva, vero?”

“Certamente, e anche suo nonno. Uomini saggi e generosi”.

“Allora tu ci devi… non so quante centinaia di pesci, da generazioni… Adesso basta. Dicono che sei una fattucchiera potente. Vediamo! Quando mi sono sposata, mio suocero ha promesso che Picaldo e Pacoldo avrebbero trovato un tesoro nel fiume. Invece ogni giorno portano a casa i pesci più piccoli che esso contiene, le alborelle, e niente tesoro. Io sono stufa. Fa che peschino d’ora in poi i grandi storioni fatati che hanno ingoiato il tesoro del Re Ariperto, come dicono i cantastorie!”

Dopo un lungo silenzio, la fattucchiera rispose:

“Sicura, mia cara? Le alborelle sono più gustose degli storioni, hai mai provato a farle in carpione?”

“Non mi prendere in giro! Voglio vivere come una donna normale, con una casa decente, e vestiti decenti. Fa come ti dico, e ti sarai sdebitata con noi di tutto il pesce che hai mangiato “.

“Allora, farò come chiedi. Ma dovrai darmi uno dei tuoi capelli”.

“Uno dei miei…? Ah, sì. Per la magia. Certo!” E con una smorfia di dolore, si strappò un lungo capello chiaro dalla testa. Lo porse alla fattucchiera, e vedemmo che le tremava un po’ la mano. Non era sicura di sé come sembrava.

La vecchietta ora fece qualcosa di veramente strano: tenne il capello tra due dita, ci soffiò sopra leggermente, per tutta la lunghezza e poi…  lo lasciò cadere. E qui successe una cosa che mi fece venire i brividi… il capello cominciò a muoversi come… come un verme, e infilarsi sotto la terra. Giù, giù, e giù, fino a scomparire del tutto. Poi, con espressione determinata, la fattucchiera scavò con le mani, e presto tirò fuori dal suolo un grasso lombrico, lungo esattamente quanto il capello.

La moglie guardò il tutto con una faccia tanto affascinata quanto disgustata. La fattucchiera, calma e decisa, sussurrò qualcosa al verme, che smise di agitarsi, e si calmò. Dopo qualche attimo un pennuto, credo che fosse un tordo, venne fuori da un cespuglio vicino, si posò sulla mano della fattucchiera, prese in becco il lombrico, e volò via.

“È questa la tua magia, fattucchiera?” chiese la moglie del pescatore. Era chiaramente impressionata, ma delusa.

“Questa è la mia magia” annuì Edburga.

“Bene, arrivederci”.

E con questo la donna si allontanò più in fretta possibile.

Craaaa, craaaaaa!

Sentimmo di nuovo il verso del corvo dall’alto. Guardammo su a quelle ali nere e grigie… Battemmo le palpebre, e tutto d’un tratto non eravamo più alla casa della fattucchiera Edburga.

Quis – Chapter 2

The Ghastengarda

Illustrations by Francesca Duo

That morning I woke up very early. I couldn’t sleep for the excitement: I would finally have a friend of my own age at the Basilica! Pietro had rested up well, and woke up full of energy, too.

“Today we’re off to the building site, aren’t we?” He asked.

“Of course. For school, first of all.” Said Matteo.

“You boys are,” said my father, “us grown-ups have a little journey to make. You know, Faro. One of those journeys.”

When she heard this, mum lifted her gaze from the pot where she was warming the curds and whey.

“Be careful, Faramundo.” She said in a serious tone. “And you will show your cousin everything properly, won’t you?”

I was burning with curiosity, but I said nothing. I’d already tried many times to persuade dad to let me go with him during one of those journeys, as he called them, but nothing worked. I was still too small, and dad wouldn’t budge.

After breakfast, as we walked to the Basilica, Pietro whispered:

“What is this journey, Faro? Is my father going away?”

“Just until this afternoon, it’s fine.” Poor thing, he was so nervous, his face full of worry.

“But Faro, I want to stay with him.” If you think about it, he had just seen his home destroyed, had fled to a different city, and hadn’t seen his mother and sisters for days.

“Oh… of course…” I felt embarrassed. He was looking at me with those big eyes of his, and I thought he might start crying any moment. “But we can’t go, dad won’t let me go with him, he says I’m too small. That means you are, too.”

“But your mother told them to be careful. That means it’s dangerous!”

“I don’t know, I’ve never been. You know, these journeys are a real mystery. Every time, dad sets off in the morning and comes home before evening, but as tired as can be, and hungry, as though he’d been travelling for days. After dinner he always tells us some wonderful new tale. That’s the best part of it. Then, at the building site, he starts work on a new block of stone, and carves the story of the new tale onto it.”

“I want to go with him.” Pietro was determined. What could I tell him? Now, I know what you’ll say: for me it was just an excuse to get into some strife, and you’d be a little bit right, but I swear, it really was moving to see how worried Pietro was. What was I supposed to do?

“Listen Pietro, I have an idea. When they leave the building site for the journey, why don’t we follow them in secret? They can’t be going far, anyhow, if they’re back by afternoon. It must be somewhere near the town. Are you rested enough to walk again today?”

“Yes, yes!” Now he was happy again. “Let’s do it! I don’t know my way around here, nor where to hide. You’ll be my guide, won’t you?”

“It’s a deal!”

Pietro regretted it as soon as he’d said it.

“We’re not getting ourselves into trouble, are we?”

“Don’t be silly…” I told him, matter-of-factly. “If the teacher catches us, he’ll just beat us. But that’s nice, soft wood, that stick of his, trust me, I’ve tested it on my backside many a time. If our fathers find out, it’ll be a kick or two on the rear end, but it won’t be too bad, they love us. The catastrophe is if mum finds out…” I made a frightened face, like a street-actor’s mask at Carnival: “No curds and whey tomorrow morning!”

Pietro forced a laugh. I could see he wasn’t the kind of boy who usually got into trouble, but the worry of being separated from his father was too much.

“Very well.” He said. “I’ll do it.”

Sometime afterwards, we were sitting on the ground at the back of the group of kids doing school I was keeping one eye on Maestro Paolo, the teacher, and one eye on my father, who was talking with his workmen. He was explaining to them that he was going away for the whole day, and listing all the things they should do while he was gone. Cousin Matteo was listening and looking at the unfinished works.

Then they set off. I would have got up straight away, if it hadn’t been for the way Matteo kept looking back at Pietro. I could see he was as sorry to leave his son alone for a day as Pietro was to be left alone. Only when they had turned the corner did I whisper to Pietro:

“As soon as the teacher turns around… ready… now!”

Stooping low, without a sound, we were off and away in no time.

“Come on, faster!” I kept saying to Pietro, as our feet went tap tappa tap, tap tappa tap on the cobbles. “Run, hur…” I cut myself off mid-word. We were passing Anselmo’s stall. Mum always bought things from him, fruit in the summer and nuts in the winter.

“Hello, Faro.” Said he, always kind and cheerful. “Why the hurry?”

“Oh, ah…” I stopped for a moment. Anselmo would usually give me something to nibble on when I stopped there with mother. What about if I stopped there with a friend? “I left something I need for school at home.” I told him, without taking my eye off our fathers, striding away down the crowded street. “Here, this is my cousin Pietro. He’s just arrived in town. And… well, he forgot something, too.”

“Oh, nice to meet you Pietro. Ah, so, are you a stonemason’s son, too? And how is the schooling going, boys? I hope you know how lucky you are. I never learnt letters myself.”

“Oh, I do.” Said Pietro, very seriously. “It really is the best of luck.”

“Mister Anselmo,” said I, “we really are in a hurry, I’m sorry…”

“Oh, of course, of course boys. Off you go. But first, why don’t you help yourselves to a chestnut each?”

Hooray! I thought. That’s my Anselmo!

“Oh, well, if you insist…” I really didn’t want to lose sight of our fathers, but those chestnuts looked inviting. I started seeking out the biggest. Anselmo was a kind man, but he knew me.

“Take whichever one happens to hand, Faro, and only one! The Good Lord is watching.”

Pietro had just taken the one nearest him.

I chose one of the biggest ones just the same, and with a: “thanks again, Anselmo, see you soon!” we set off after our fathers. And just in time, because they were just turning the corner down the far end of the street.

We ran, and we ran. As soon as we had our fathers safely in sight again, I offered Pietro a walnut. He looked at me, shocked.

“You took some walnuts, too? But he said the Good Lord was watching!”

“Don’t worry, the Good Lord was watching the chestnuts, not the walnuts.”

We had come to the street our fathers had turned off into. I knew it was a winding alleyway, covered in parts by houses built right across, over the street as though they were bridges.

We stopped, hidden behind the wall on the corner, and edged our faces out to peek into the alleyway. Our fathers were standing with their backs to us, looking up. We looked up, too. The buildings were close together, and not much sky was showing, but what we could see of it was blue and cloudless, with just a few trails of smoke from chimneys. We heard a caaaaw, caaaaw, and then the sound of claws and a beak on roof tiles, and wings beating. Black it was, as black as tar, an enormous raven with a long grey beak, wings like shadows, and eyes like deep wells.

It flew down from the rooftops and settled on a windowsill to one side of the alleyway. As it flew, it had left behind a trail of mist in the air, like the fine mist of early September mornings, so light you could barely see it.

The raven looked at my father for a long moment. Dad looked at the raven. It was as though they knew each other. The bird took flight in the alleyway again, flapping up and down, round about, settling on a windowsill from time to time, leaving snaking trails of mist as it went. The mist hung in the air and did not fade away. Actually, it seemed to grow. And the different trails, as they got larger and larger, began to merge one into the other, and fill up the alleyway, and the mist became thicker and thicker, until it was dense fog, and everything was white. Then the raven vanished into the fog, and our fathers followed. Pietro and I looked at each other. All the wonder and confusion I felt was also showing in his face. For a moment we spoke to each other with our eyes alone. Pietro’s eyes said:

What shall we do? Shall we go on, or go back to the building site? Maybe we should go back, all this is so strange…

My eyes were saying:

Come on! Go back to get a beating for a misdeed only half done? Let’s keep going!

Mine was the winning gaze. Silently, we followed them. Inside the fog it was easier not to be seen, but it would also be easier to lose sight of our fathers. Luckily, I knew that alleyway well. I knew, for example, that it turned first to the right, and then to the left, like so…

Hold on! It turned right again. That’s not how the street went, it should have gone left. What was happening? I stepped closer to the wall to follow it, and saw that, instead of the usual red bricks of buildings in Pavia, the wall was smooth, and plastered white. There were strange pictures, made with a paint that seemed to have no thickness, and without brushstrokes, as though the vivid colours had settled on the wall all by themselves. And so many pictures! Each stranger than the last, some large, some small… The first that struck me was a star that was also a rainbow, with glowing rays in front of… they looked almost like petals of colour, I wouldn’t know how else to describe it. Another painting seemed at first to be a tower, then a cross made of many coloured squares, and then I saw that it was a kind of portal. A little further along, we saw a sword of flame.

Once again, Pietro and I spoke with our eyes. His gaze said:

You don’t know where this is, do you? I can tell from your face. What on Earth is going on?!

Mine replied:

I haven’t the foggiest notion. Let’s not lose sight of them, I’m starting to get a bit scared.

In the meantime, our fathers had stopped further down the alley to study some paintings. Dad was saying:

“Look, Matteo, this is the deepest magic of the Ghastengarda. You have to find the right picture to open the passage toward the tale.”

“I’m trying to understand.” Said Matteo uncertainly. “Which tale.”

“There are three empty spaces in the west face that need filling, one for each portal. What I want to do is sculpt the three theological virtues.”

“Faith, Hope and Charity.” Matteo nodded. “Three ladies, the first bearing a cross, the second…”

“No, no… Or rather, maybe yes, maybe no. We don’t know that yet. We’ll only find out when the passage opens. He will show us. We’ll enter inside the tale that we’ll sculpt. Where shall we begin, with Faith?”

“Very well.” Was Matteo wondering if my father was mad? “Yes… Faith… she’s the first in order.”

“Good, and which of these pictures might be Faith?”

Matteo studied the wall. We couldn’t see which pictures he was looking at from where we stood. After a long moment, he pointed to a patch of wall, and said:

“It’s this one, I’m sure of it.”

Father nodded.

“I’m sure of it too. Come now, Matteo, place your hand on it, and let’s see.”

A little unsure, he reached out towards the wall. I couldn’t quite see what happened for the fog, but I heard a strange noise, the sound of air moving, like a long breath, almost a sigh. Then dad spoke again.

“You see? Are you ready?”

And next to me Pietro started when he saw my father take two steps forward, and… disappear inside the wall, followed by Matteo.

“Let’s go, quickly!” I whispered. Pietro didn’t need to be told, though. He was already moving.

Coming to the wall where they had disappeared, we found an opening in the shape of an archway. A soft, pale glow was coming from inside. Holding hands, we stepped inside.

It was a long, narrow tunnel, with a vaulted ceiling. Here, too, the walls were covered with the same pictures as before, but now I could see that the colours themselves gleamed. That was the glow we had seen from outside. We could hardly see anything by that light, but it was much better than having none at all. Ahead of us we could hear our fathers’ footsteps echoing, and we hurried to follow them, keeping our own steps as silent as possible.

“Is it always like this inside the Ghastengarda?”

 It was Matteo. Pietro and I looked at each other. The Ghastengarda?

“It’s different every time,” said father. “That’s the magic of it. The place itself is the story… That why I was saying, if we want to go on we’ll need faith. Because this is the story of Faith. Do you see what I mean?”

After a pause: “I think so… to move forward in the dark.”

“Sometimes you need to, right?”

Matteo laughed, nervously.

“All the time, lately.”

On the one hand we were comforted to hear their voices ahead of us, but on the other the tunnel was windy, just like the alleyway before, and we had soon lost all sense of direction, and all sense of time passing. More and more, I felt that the only way was forwards.

After I don’t know how long, I heard: “It’s a lake. Or is it a river?” It was my father.

Water? In a tunnel? I shivered.

“Here, a little boat with paddles, you see?”

“I think we have to go across.”

“Towards… what?”

“Exactly. We don’t know. But don’t worry, our grandfather always used to say: in the Ghastengarda you just need to go forwards.”

Now we heard the gentle sound of water lapping against the wood of a boat, and of a paddle dipping into water. Soon we came to the shore, too. We were no longer in a tunnel. Actually, we weren’t even in a cave, because there was no longer any echo. There was only a vast sheet of water in the gloom, and a few round little boats, each with a broad, flat paddle.

“Have you ever used a boat?” I murmured to Pietro.

“never.”

“I have, a few times… on the Ticino… I didn’t use the oars, but it looked easy. You choose the boat.”

Pietro was a simple lad. He pointed to the nearest. We got aboard a bit clumsily, like two boys who aren’t used to boats, which is what we were. I took the paddle and pushed us away from the shore.

“Faro wait…” said Pietro, when I had already made the first push. “Which direction?”

It was too late; we were already adrift in the water. My face must have been a mask of fear. Pietro’s certainly was…

Just a moment. How could I see Pietro’s face? Where was the light coming from?

Peering about us, we saw something white reflected on the water. It looked just the way the full moon is sometimes mirrored on the river, rippling with the waves. But how could it be there if there was no moon to be seen? Having nothing else to do, I paddled the boat towards that light.

I was relieved to see the shape of our fathers in their own boat. They were nearing that same patch of light on the water.

As we drew closer, the light spread out, and rose up, shapeless, from the water, becoming a white, gleaming fog. First it swallowed up our fathers’ boat, and then after a short while our own. Around us everything was now white, not black.

My friends, you who read this, I don’t know if in your world, or your time as it may be, have anything like the fog we have in our Pavia. Everyone thinks they know what fog is, but when they come to Pavia they think again. Ours is special. It can be as white and light as you like, but it’s as bad as a moonless night, because you really can’t see a thing. I swear, not even the water beneath the boat. That’s why I reached downwards… almost to check the water was still there… Good Lord! I could no longer see the water because… the water was no longer there! Our boat was floating… on the fog itself!

In just that moment, a voice came from… from where?

The fog hangs, floating beneath the sun,
Over hills and plains, where rivers run,
Billowing blanket, white mystery shroud,
Whirling word-and-story cloud.
Master masons,
Fathers of sons,
Hurl yourselves headlong
Into the heart of my song!

“That’s Quis.” Said my father. Following the sound of his voice, I could just make out the blurred shadows of two men in a boat.

“But… is he telling us to jump into the fog?” Matteo was as shocked as we were.

“That’s it. Just what he says.” Dad said merrily. He was enjoying himself!

“But… it’s madness!”

“No, no, it makes sense. A leap of faith, you see?”

“You’re not joking?”

“Just as well we can’t see a thing below. Otherwise, I for one would never be able to…”

He trailed off.

“Able to do what?” Asked Matteo.

“This!” And one of the shadows… got up and… leapt from the boat and… disappeared…

I was so surprised, and so scared to see him disappear into the fog, that I started, and jumped to my feet, covering my mouth with both hands. Yes, that’s right, both of them.

I know, I know, what a fool! But as you know, I’m a city boy, brought up among the walls and streets and squares. A fisherman’s son would never have done it, not for anything, now matter how shocking. Fishermen’s sons know well that jumping to your feet rocks the boat like a mad seesaw, and the best way to keep balanced is with your arms out wide, not with your hands over your mouth. And so, I lost control and fell out of the boat. Poor Pietro, who had been much smarter than me and hadn’t stood up at all, tried to grab hold of me as I fell. Actually, he succeeded. But you see, he’s only small and skinny, while I am tall and thick set for our age. With my weight I pulled him down with me, and together we fell headlong into that magical fog…

Chapter 3 – The Treasure of the River

Dreamteam – Chapter 2

‘ When have the stars ever shone so brightly?’

When have the stars ever shone so brightly? Luisa wondered, looking out of her window. Chill breezes sighing down across the plains from the Alps had swept the sky clean of the summer haze. The Milky Way washed frostily across the sky as she had never seen it before. Below, on the horizon, Luisa thought she could just make out the white of snow glistening on the peaks, far, far out beyond the towers. I must be imagining it, she told herself. I’m not even sure what snow looks like, in starlight.
She shivered.
“Alf,” she called out, “did you find the sweaters?”
“Not yet. Haven’t got a clue where I put them.” Alf’s voice was muffled, his head stuck in some cupboard somewhere. “Incredible! It’s been, what? Five weeks since I put them away? My age is starting to sh- ahah! Found them. Coming.”
A moment later he arrived, pulling a sweater over his head, and carrying another one for Luisa. She took it gratefully.
“Is that snow on the mountains, do you think?” She pointed.
Alf squinted.
“It could be. Hard to tell.” He leaned forward over the balcony, as though it might help to get a few centimetres closer to the Alps, eighty kilometres away. “It’s all so weird,” he said, “we’ve never really seen nighttime like this. So crystal clear…”
Luisa had just pulled the sweater over her head, when the doorbell rang, and she turned to answer.
“Don’t answer! Looters!” Alf stopped her.
Luisa hesitated.
“Looters? Someone who needs help, more likely.”
Our help? What can we do to help?”
“We have a medicine cabinet, a store of food…”
“For us!”
Luisa stared hard at Alf.
“We’re supposed to be three meals away from barbarity. You’ve got a full stomach, and you’re going barbaric at the mere thought of sharing meals?”
“I’m a realist. This isn’t going to be easy…”
They glared at each other across the intercom. The doorbell rang again and again. Someone on the street really wanted to talk to them. Luisa raised a taut finger.
“My grandfather was fished out of the sea half dead, and down in Lampedusa they didn’t say ‘he’s come for loot’. If I’m alive and you’re married to me, it’s because they took him in.”
Alf softened for a moment, but she could see the fear in his eyes. She tried again.
“You’re a city alderman, for goodness’ sake. You can’t just shut yourself away. What if… What if it’s the mayor down there?”
“Wouldn’t she just call me? Why come here on foot?”
“Ok, ok… But, it doesn’t matter. You have to answer, whoever it is. You took the salary, you took the responsibility. If that’s a citizen down there who needs you, you have a moral obligation to answer, mister alderman.”
Alf didn’t answer, but she could tell she had him cornered.
“It’s alright,” she assured him, “I’ll just turn on the com. I won’t open the door unless we’re both convinced I should.”
The bell rang again.
Alf swallowed.
“Ok.”
Luisa pressed the intercom.
“Hello?”
“Hello?” It was a girl. “Is that Professor Faruq, the curator?”
Luisa’s eyes widened. She had assumed that the person on the street, whoever it was, wanted Alf.
“Yes, that’s me.”
“I’m Belinda Portalupi. I came to the museum last week, with my class…. A school trip… Please,” the voice caught, “I need your help. It’s Dad, he’s lost.”
“Lost here in Milan? He doesn’t know his way?”
Luisa and Alf eyed each other. A ruse?
“No. Yes… No. He… He’s from Milan, and he’s here, but he’s lost in time in the Anabranch.”
Luisa could hear her antique clock ticking. Some part of her brain detached itself and started counting the ticks. 1… 2… What did the girl just say? Did I hear right? 4… 5… 6… Alf gave her an ‘I told you so’ look. Albeit a bemused one. Luisa forced a laugh.
“That’s crazy, what are you talking about?”
Belinda’s voice rose.
“I’m not lying, I’m not joking, I mean it. He’s trying to make the Dreamteam. It’s true! He works for the Time Park. Staff have… special bracelets. I have one with me, I can show you! You have to help me find him.”
Luisa didn’t know which confused fragment of sentence to latch onto.
“Special bracelet?”
“You can enter the Time Park at any point in time.  It’s how they get around. He took one to form the Dreamteam.”
Luisa looked at Alf. “I…”
Alf shook his head, and reached out to switch off the intercom. Luisa blocked his hand.
“Get the Dreamteam?” She tried again. “From Kinshasa?”
“No! No, the Time Park is geolocal, you can’t use a bracelet to go outside of Milan. Anyway, he said the one in Kinshasa wasn’t good enough. That’s why-“
“Well it’s the best chance we’ve got.” Alf interrupted. The Time Park was hardly his scene, but he’d been avidly following the progress of the Dreamteam. “The richest city in the world is bound to have more of the top professionals in every field than any other city, especially Milan…”
“You’re still not listening! He’s here in Milan, but he’s in the Anabranch. It’s my fault. Your fault too, professor. I visited the museum with you, and you told us about how Einstein was here, and Leonardo da Vinci, and Mozart… and then I told him. And he’s gone to get them! He said a Dreamteam with Leonardo and Einstein and the others is humanity’s best hope. And now he’s gone missing, I thought… I…” She broke off, and then, audibly in the verge of tears, “You might be able to help me find him.”
“Just a moment,” Luisa told her, “I need to talk to my husband about it.”
She switched the intercom off and looked at her husband. He rocognised that look. He spread his hands out as though trying to halt the wind.
“No, Luisa, no! This is madness!”
“Alf, there is some kind of sense in this. The staff members down at the Time Park must have some way of getting around the Anabranch freely, without using the big portals, it’s logical, otherwise how would they get everything ready for the visitors? One of them has a daughter, who comes on a school visit to the museum with me, and goes home and tells her dad about all the brilliant people who were in Milan at some time or another. He realises that those people from history could form the Dreamteam. Think of it! Einstein, Leonardo, Mozart, Chaucer, Petrarch, Josquin de Prez, Paganini, Caravaggio, Giotto… even the Beatles! Can you imagine? No one moment in history has so many brilliant people in it, but if you can pick and choose from all of history… You can even choose Augustus Caesar or Garibaldi as team leader. So this dad decides to steal a bracelet, and go get them, to save humanity. It’s brilliant!”
Alf shook his head.
“Yep, brilliant. And you’ve fallen for it, hook line and sinker.”
“What?”
“Luisa, the looting’s begun, and we just don’t know about it. This girl wants to get us to open the door to the building, and there’s a group of boys with her with, with… wrenches and steel bars and things, just waiting. We open the door, and they ransack the whole building. Nice trick. Who knows how many buildings they’ve broken into so far tonight, with this little trick.”
“But…” Luisa felt dazed. “It’s midday.” She said, almost absently.
“Today, tonight… Exactly.”
She rallied.
“Don’t you think they could come up with a simpler trick than this? I mean… What kind of kid thinks up a story like that?”
“An imaginative one. Whose scared. Hell, aren’t we? What if we were on the streets right now?”
“I can’t believe she just made it up… It’s so… It sounds so true.”
“True?” He shook his head. “You’re crazy!”
Now it was Luisa’s turn to shake her head.
“Alf,” she said patiently, “ten days ago a mysterious alien civilisation somehow blocked all sunlight from reaching the Earth, and communicated to humanity that we are a suspected cancerous growth in the universe, giving us less than one month to create an object of such beauty and significance that it can somehow justify our continued existence, otherwise they will wipe us off the face of the planet. True?”
There was no answer. He was thinking, Alf, she’s going to out-talk you now. Serves you right for marrying an academic.
“True, or not?” Luisa insisted.
“Yes, it is.” He sighed.
“Is it true that snow is falling in the Alps for the first time in generations, and the Antarctic ice-cap is reforming, and if people aren’t already out there looting, they will be soon. Is all of this true?”
Alf nodded.
“And would you ever have believed even one word of that eleven days ago, the day before the aliens arrived?”
“No.” He sighed, wanting to just get it over and done with.
“And yet you say this girl’s story can’t be true?”
Alf shrugged, and looked down.
Luisa reached up and switched on the intercom, and pressed the button to open the door to the building.
“Belinda, you can come in.”
There was no answer.
“Belinda, are you there?”
Nothing.
“Belinda?”
Husband and wife exchanged a bleak look. The building was now open.
“Internet,” Alf rose his voice, “is there anyone at the front door?”
“No, there is no one there.”
Alf began swearing.
“Now I have to go down and close the bloody door again. Fifteen families in the building, and in ten bloody years of bloody condominium meetings they can’t agree on getting a new door with a voice-activated closing system.”
Luisa started towards their apartment door.
“No, Luisa, I’ll go down. You stay here. And keep this door shut.”
“No, we’ll both go.”
“No, you stay here.” He said as firmly as he could.
“You tell your paper-pushers what to do, Alf,” she snapped, “not me.”
He gave up.
“Ok, let’s just be quick. We go down, we close it before anyone notices it’s open, and we come straight back up.”

At street level, the atrium was even darker than the night without. The timers wouldn’t bring the lights on until 8:30 that evening, when the sun was due to set. The broad wooden double-door was ajar. Alf strode forward to pull it to, but Luisa got there first. She pushed it wide open.
“Luisa, stop!”
“That poor girl’s out here!” She stepped out onto round river cobbles of the street, calling out “Belinda!”
It was dark, and deserted. Where was she?
“Belinda!” She called louder. Via dei Chiostri swallowed up the sound of her voice, and gave nothing back.
“Luisa, get back inside!”
“She’s gone because she thought we didn’t believe her! This is our fault. What if she’s in trouble now?”
“I didn’t believe her! And how is our getting into trouble along with her going to help anyone? Let’s get back inside. She was just some crazy ki- ouch!”
He clutched his cheek where Luisa had slapped him.
“Are you the same man who once stopped a mugger from robbing me in the ruins of London?”
“Luisa, I… That was a long time ago… And… And there was only one. And… and it was in the middle of a tourist trap, we both knew there were policemen nearby. I’m convinced there’s a pack of them out there, with God-knows what weapons, and she’s acting as bait, and have you seen so much as the shadow of a policeman in the last two days?”
He grabbed her arm, but she shook him off, and started striding away towards San Sempliciano. He trailed behind.
“Damn, damn, damn…” he was muttering, “haven’t so much as done an hour of Tai Chi in years…”
“Belinda!” She called out again. The silence was frightening. She imagined the people in their houses, all the familiar faces she’d seen about her in the city all her life, listening to a lone voice calling out a name, and wondering what it meant, but not daring go to the window to see. As the street opened out into Piazza San Sempliciano, she threw her voice out with all her strength, imagining they should hear her even at the top of the Duomo.
“BELINDA!”
For a long moment there was only silence. Then there it was, faint, but unmistakable.
“Profess-!”
The cry was cut off. There had been terror in girl’s voice.
“Come on, Alf, this way! She’s in Corso Garibaldi.”
There came another cry, a man’ voice, from somewhere nearby.
“Belinda!” And then, two unfamiliar words, “Mea filia!
Luisa hesitated, confused, for an instant, then sprinted off over the cobblestones.
“Was that her? Who was that man?” Alf protested, but Luisa was already ten metres away. He started running. She was a lot faster then he thought. Panting heavily, he had just managed to come level with her when they both burst onto Corso Garibaldi.
There they were, the stuff of Alf’s nightmares, a gang of boys in their late teens, clubs and wrenches in hand, gathered around a slightly larger, older looking boy who was forcing Belinda’s legs apart, his own trousers open at the belt. One of his friends held his hand over the girl’s mouth, another two held her arms. They didn’t look hungry. They probably hadn’t missed a single meal, let alone three. They had simply, joyfully, dived headlong into barbarity. And when they saw a girl, they certainly wouldn’t use her to tell clever stories to convince respectable people to open their doors. They would just rape her.
To Alf’s relief, Luisa was stock still. At least she wasn’t hurling herself on the boys. She wasn’t even looking at them… Her eyes were wide with surprise. He followed the look. A man in some kind of medieval fancy-dress was stepping forward from a side street, a long weapon in one hand. It was a long pole with a complicated, cruel-looking metal tip. Calmly, like a normal man would chop wood, perhaps, he sank the metal axe-like thing on the end of it straight into the back of the boy who was raping Belinda. Bones cracked, flesh was rent. Luisa and Alf stared. Oh shit, oh shit…. That’s not a costume.
The rapist screamed in agony, his body writhing on the pike like an insect pinned alive onto cardboard. With easy strength, the man stretched one leg forward in front of him, bent his knee, lent the pike shaft against it, and levered his victim to one side, still howling, jerking, and spurting blood from his mouth. The body fell to the ground, the pike still in it.
In one motion, the man drew a sword and hacked the nearest boy’s head half off. Soon the smartest members of the gang were dropping their crude weapons and running. The stupidest were already gaping down at their fatal wounds in shock. Then they started screaming, too. Next, the man turned toward Alf and Luisa, sword raised. He had beautiful, pale green eyes in a dark, bearded face.
Alf never knew what he did, something inside just took over, something from the long years he’d spent in his youth, learning kung fu. A move, a second, a third… He was holding the bloody sword in his own hand, point down. The murderous man with green eyes was stepping back, gasping, clasping his wrist, those blue eyes wide with surprise. As quickly as he’d come, he disappeared down the side street.
“Alf!” Luisa exclaimed, looking at the sword. Then she looked down. The boys of the gang who’d been too slow get away were still dying, agonizingly, littered around them. There was gore everywhere.
“Drop it, Alf,” she told him, “if the police come they’ll think…”
“I’m not dropping anything,” he was still shocked at his own success in wrenching the sword from the warrior, but not too shocked to think straight. “What if he comes back with more…”
A gasp interrupted them. Belinda was rising painfully, pulling her clothes into place, sobbing. Luisa rushed to her side.
“Belinda, are you ok?” Luisa helped her get up.
“Who…? I don’t under…” She was staring in horror at her would-be rapist. He was near the end of his life, and was himself staring in horror at the blood pouring from his own mouth onto the cobbles. He was still moving, faintly, trying to breathe.
“Look away, don’t look!” Luisa was saying to herself as much as to Belinda. She forced herself to look up at her husband. Alf was poised with the sword for combat, the stance coming to him just as unconsciously as the disarming moves a few moments before. It made his portly belly all the more disproportionate.
“Professor… I heard father! It was him! He called my name!”
“What? Are you sure? So he’s not lost… In time?”
From the side street they heard the clinking of metal on metal. At a jog, the warrior who had wrought so much carnage reappeared, a group of perhaps ten men behind him, wearing similar costumes, each with a pike in hand. Two of them were holding a man in modern clothing tightly by the arms. He had greying hair, and resembled Belinda. The soldiers halted, and the green-eyed one gestured at Alf.
Histo est guerriero estrano!” Was that Spanish? “Sagittari, paràtevi!”
Two men slipped bows from their necks, and knocked arrows on the strings. They were looking at Alf, who still had the sword in his hand.
From behind the soldiers, two older men came slowly forward, one in scarlet, the other in light blue. The scarlet man’s eyes were dark brown and intense, his grey beard trimmed tightly, and strands of long, wavy grey hair crept loose from a scarlet cap to fall over his scarlet cloak. On one arm, he wore a broad black bracelet, just like Belinda’s. The bracelet that was not on her father’s arm anymore.
The second man, dressed in a light blue robe, bore a fur stole over his shoulders, and a heavy golden chain that hung low. Straight black hair hung down to the chin about a swarthy face, with pudgy cheeks, a nose as short as it was pointed, and a double chin. As he stepped toward Alf, Belinda’s father turned a gaze of loathing on him. The soldiers averted their eyes, as though in terror.
Qui estis?” The blue man asked. There was silence. He looked to Belinda’s father, and barked, “tradutione!”
The soldiers shook the poor man roughly until he obeyed.
“Who are you?” He asked Luisa and Alf.
Never turning from the soldiers and the strange man, Alf stepped backwards, warily.
“It’s all true.” He murmured slowly to his wife, never taking his eyes off the people from the past. “It’s all true… They’re straight from the Anabranch. On my mark, take the sword and Belinda and go as quick as you can. Hide in time – far from them!”
“But Alf…”

Qui estis!?” The blue man barked impatiently, taking a step forward.
Belinda’s father, rough-shaken again: “Who are you?”
“Go!” Hissed Alf. “I’ll talk to them, I’ll join them if I can. Belinda, I’ll try to keep your dad alive. Get the Dreamteam. He was right. I don’t know what went wrong. Be more careful than he was!”
Luisa just stared.
The scarlet man had stepped forward, his eyes intent upon Belinda.
Habe sua figliuola bracciale.” He told the blue man, pointing at Belinda’s wrist.
“They’ve seen her bracelet!” Alf hissed. “You have to go, before they get hold of it!”
Numbly, Luisa looked at Belinda, who was looking at her father, whose gaze was shifting from his daughter’s own time-bracelet to her face. Go! He was pleading with his eyes.
“Professor,” Belinda murmured, trembling all over. “Take the sword, let’s go. Let’s do it.”
Qui estis? Sagittari, mirate!” The archers raised their bows, half drawn.
Luisa took the sword. It was sticky with blood. As the weapon was passed to a woman, the soldiers and their leader visibly relaxed. The archers instinctively lowered their bows just a little. They had taken it as a gesture of submission.
Alf stepped forward quickly, away from Luisa and Belinda, and towards the soldiers, his hands in the air.
“I am Alfonso Morelli,” he declared with great self importance, “alderman of Milan, and master in the arts of combat. I represent my city…”
Belinda’s father was translating, while the man in blue, the man in scarlet, and the soldiers listened intently.
Luisa and Belinda looked at each other.
“Tell me a year, professor.” Belinda whispered, raising the smooth, broad black bracelet to her mouth. “Please.. a safe year.”
Luisa thought numbly for a moment. A safe year? In the Anabranch? There weren’t many, so it wasn’t hard to choose one.
“The year 2000.” Belinda nodded, then her eyes lost focus for a moment. She looked at the blood drying on the sword in Luisa’s hand, smiled, and said to the bracelet: “The thirty-first of October, 2000.”