Quis – Capitolo 8

Ritorno nel Ghastengarda

Illustrazioni di Francesca Duo

“Ah, che nostalgia!” disse papà, stranamente allegro, quando partimmo la mattina seguente. “Mi ricorda le mie prime avventure con Quis, al fianco di mio padre, quando avevo la tua età…”.

Passammo di nuovo davanti alla bancarella di frutta secca del generoso Anselmo, che ci salutò caloroso, ma purtroppo papà non si fermò. Presto arrivammo alla stessa viuzza dell’altra volta. Questa volta scoprii un nuovo dettaglio: fu proprio papà a richiamare il corvo spargi-nebbia, con un piccolo rito strano. Prese uno scalpello e con grande cura lo mise orizzontale in equilibrio perfetto su un dito esteso della mano sinistra. Poi, con altrettanta cura, prese il martello e diede quattro colpi leggerissimi alla lama dello scalpello, con un ritmo particolare: ta ta TA ta.

“Ecco,” disse a me e Pietro, “serve farlo tre volte per chiamare Becherta”.

“Chi?”

“Il corvo”.

“Ah”.

“Fai tu il prossimo, Pietro?”

Mio cugino fece cenno di sì. Matteo lo aiutò a mettere lo scalpello in equilibrio sul dito e gli diede il martello.

“Tieni. Lo faccio con te” gli disse. Pietro tenne il martello e Matteo tenne la mano di Pietro dentro la sua mano molto più grande. Insieme, fecero ta ta TA ta.

“Bene,” disse papà, “ora tocca a Faro”.

“Posso farlo da solo, papà? Ce la faccio…” implorai.

“Se non ti viene bene…” papà era incerto, poi mi guardò negli occhi “va bene lo stesso. Provaci”.

“Grazie papà!”

Effettivamente ci misi un sacco di tempo a mettere lo scalpello in equilibrio e poi quando allungai la mano per il martello cadde, e dovetti ricominciare. Povero papà, era impazientissimo, si trattenne e non disse niente, lasciando mi fare. Dopo un po’ lo scalpello era messo bene.

“Bene, ora devi fare i colpi più leggero che puoi, altrimenti fai cadere di nuovo lo scalpello”.

“Va bene, papà”.

Concentratissimo, feci ta ta TA ta.

“Bravissimo!” dissero papà e Matteo insieme.

“Vedi? Te l’ho detto che ce l’avrei fatta…” e gli porsi gli attrezzi.

 “Ssst. Non lo senti?”

Restammo tutti in silenzio, e udii un rumore… un battito di ali. Come la prima volta, il corvo nero – Becherta – scese nella viuzza, e si posò su una trave per un attimo.

“Incredibile!” dissi, “ma papà, è così facile? Lo potrebbe fare chiunque. Non sarebbe poi un segreto”.

“Eh, no, Faro, innanzitutto non finisce qui. Ci sono ancora due prove da affrontare prima di entrare nel Ghastengarda. E poi, Becherta non viene per chiunque. Solo un capomastro che fa il ritmo con gli stessi attrezzi che userà per scolpire il racconto può chiamare il corvo del mondo dei racconti”.

Becherta lo guardò con un occhio nero, e mio papà fece un leggerissimo inchino.

“Papà, anche gli altri capomastri sanno del Ghastengarda?”

“Non tutti. Siamo in tre famiglie, ma facciamo i modelli per tutti. Altrimenti, come si potrebbe costruire tutta una basilica ricoperta di figure?”

Salutato mio padre, Becherta dispiegò nuovamente le ali e se ne andò su e giù spargendo nebbia, riempiendo pian piano tutto lo spazio di un grigiore fitto e misterioso. Poi, il corvo se ne volò dentro la nebbia, scomparendo.

Papà guardò severo me e Pietro.

“Ragazzi, c’è una promessa che mi dovete fare prima di entrare nella nebbia”.

Lo guardammo con serietà solenne.

“Dentro il mondo del racconto, dovete solo e soltanto guardare. Non dovete toccare nulla, non dovete fare nulla. Solo guardare. D’accordo?”

Facemmo entrambi un cenno di sì con la testa.

“Allora, seguiamo Becherta!” disse papà.

Come la prima volta, dentro la nebbia ci trovammo in una via diversa, strana, con muri liscissimi e coperti da simboli strani dipinti con colori vivaci. Camminammo un poco senza parlare. Guardavo i simboli e mi chiedevo cosa potessero significare. Papà si fermò davanti a una parete larga, con tanti disegni strani.

“Ecco” disse, “la prima prova. Dobbiamo capire qual è il simbolo giusto. Spiegò a me e Pietro. “Le ultime tre pietre per la facciata rappresenteranno le virtù della Fede, della Speranza e della Carità. L’altro giorno abbiamo visto il racconto della Fede, i pesci. Ci serve ora il racconto della Speranza. Secondo voi, quale immagine sarà? Posandoci sopra la mano, questi disegni aprono portali ai racconti, ma ce ne sono tanti. C’è un vero labirinto di racconti dietro questa parete. Non possiamo sbagliare…”

Matteo venne avanti.

“La spada di certo no, direi” disse, indicando un disegno senza toccare la parete. “Significa tutto tranne la speranza, nella mia esperienza. Ragazzi, voi che dite?”

Guardai tutti i disegni, ma non trovai la Speranza. Era più facile dire quello che non si doveva toccare.

“Nemmeno le monete d’oro, vero papà?”

“Mmmm…direi di no, Faro. Il denaro non è speranza, benché a volte gli sciocchi lo scambiano per essa. Certo, oggi il rebus è difficile. Certamente la speranza non sarà questo leone addormentato…”

“E nemmeno il drago rampante…” aggiunse Matteo.

“Non so, neanche questo pavone che beve da una coppa non mi sembra la Speranza…” feci io.

Fu Pietro che, senza dire una parola, indicò il disegno più piccolo di tutti.

“Cos’è, Pietro?” Fece Matteo.

“Non è un seme, papà? Può essere?”

Lo guardammo tutti. Era un seme.

“Si, si, sono d’accordo con te Pietro” disse papà. “È vero che è una cosa piccola, ma può diventare qualcosa di più grande. Secondo me, questo è il disegno che fa per noi. Matteo?”

“Si, d’accordo. Bravo Pietro.”

Papà mise una mano sulla spalla del piccolo cugino.

“Allora, ci posi la mano tu?”

Pietro mi guardò.

“Fallo tu, Pietro” dissi.

“Sicuro?”

“Certo.”

Posò la mano sopra il disegno e… la parete tutto attorno scomparì, al suo posto un’apertura completamente buia. Ora Pietro guardò mio papà un po’ spaventato.

“Tranquillo,” gli disse papà, “non ti farò entrare per primo. Vado io avanti, tuo padre per ultimo, va bene? Così voi ragazzi siete in mezzo, e non perdiamo nessuno.”

Dentro il buio per qualche tempo ancora non vedemmo niente. Andammo avanti a passo lento, con papà che ci incoraggiava.

“Forza, sempre avanti piano, vediamo quale scherzo ci fa Quis oggi. C’è ancora una prova.”

Presto però quel buio pesto cominciò a schiarirsi e andavamo verso una luce proprio come quella della viuzza di prima. Anzi, emergemmo proprio nella viuzza di prima, sempre piena di nebbia fitta.

“Non è che abbiamo sbagliato nel buio, e siamo tornati indietro?” chiese Matteo dietro di noi.

Papà non sembrava per niente sicuro.

“Possibile?”

Craaaaa, craaaaa.

Il corvo stava davanti a noi, in aria, in mezzo al grigio nulla… ma non batteva più le ali. Come faceva restare in aria? Papà ci fece avvicinare. Piano piano vedemmo che il corvo era posato sopra qualcosa… ma che cos’era non si vedeva per la nebbia. Piano piano, con passo felpato, io e Pietro ci avvicinammo. Ora il corvo si vedeva muovere… con un salto e due battiti di ali si spostò più in alto… ripeté il gesto una volta, poi un’altra… si stava arrampicando… in alto… verso una macchia di nebbia luminosa molto in alto. Non poteva essere altro che il sole… Becherta andava sempre più in alto, posandosi dopo ogni salto su… su che cosa?

Ci avvicinammo, fino a capire che era un… albero! Un albero lì, nella viuzza! Ma non un alberello sottile, come si piantano a maggio ai crocevia con tanto di musica e balli. Questo era un tasso… come dire, vasto. Ed era vecchio, anzi, era proprio antico. Spuntava dalla terra con un tronco larghissimo, non tondo e liscio ma tutto a nodi e a costole, e anche spazi vuoti, come se fossero più tronchi diventati uno. Si alzava verso il cielo con rami curvi, intrecciati, ognuno spesso quanto un uomo cresciuto.

Aspetta… ma… la viuzza… non era stretta? Come poteva starci dentro un albero così enorme?

Ecco, quasi non c’eravamo accorti, ma in quella nebbia magica i muri dei palazzi non erano scomparsi soltanto dalla vista: erano proprio scomparsi del tutto. Voglio dire, completamente! Non c’erano più. Neanche un mattone. I palazzi erano scomparsi. La città non c’era più. In tutta quella nebbia c’eravamo solo noi, l’albero e Becherta.

Papà sospirò profondamente. Sapevo a cosa stava pensando: il corvo era tanto, ma tanto in alto.

“Niente,” disse lui, “mi sa che dobbiamo seguirlo… fin lassù…”

Per primo andava arrampicandosi mio papà, gli occhi chiusi stretti, sudore freddo sulla fronte e la faccia sbiancata per le vertigini. Poi seguivamo noi ragazzi, e poi Matteo seguiva più in basso, guardando su per vedere dove andava mio papà, e dicendogli come mettere mani e piedi.

“Forza, Faramundo,” diceva, “un po’ a destra… stendi il braccio di più… si, va bene, prendi quel ramo. Ora alza il piede sinistro…” e avanti così.

Che bel disegno che saremmo stati! Tutti ad arrampicarsi verso il sole, seguendo un uomo con gli occhi chiusi, sull’albero più grande del mondo.

A proposito, vi ricordate che ogni ramo dell’albero era spesso come il torso d’un uomo cresciuto? Ecco, per una strana magia quando toccava a noi più piccoli salire per gli stessi rami, erano grossi soltanto quanto i nostri corpi. E come se non bastasse, i rami che prima sembravano tanto lontani l’uno dall’altro, ora erano abbastanza vicini perché un ragazzo potesse raggiungere sempre il prossimo appiglio per arrampicarsi. Visto? Il Ghastengarda è così.

Quando papà raggiunse il ramo, altissimamente in alto, dove Becherta si era fermato, dalla nebbia attorno si sentì quella voce chiara e squillante che oramai conoscevamo.

La nebbia avvolge le verdi foglie
I rami, il tronco, la terra stessa
Densa e bianca, soffice accoglie,
Di un sole nascosto luce riflessa.
Figli di scultori,
E padri lor tutori,
Allungate la mano

Afferrate quel bagliore lontano!

“Quis!” disse papà. “Vuole che noi afferriamo… ho capito bene, ragazzi, vuole che afferriamo il sole?”

“Non è possibile!” disse Pietro. Fui fiero di lui, qualche tempo prima sarebbe rimasto zitto per paura di dire la cosa sbagliata. Si stava sciogliendo un po’, nella nostra compagnia.

“Afferrarlo? Non si vede nemmeno!” dissi io per sostenere Pietro. “Ci credo solo se lo vedo.”

Per la grande sorpresa di noi ragazzi, mio padre e Matteo risposero con le stesse parole allo stesso tempo:

“Se credi soltanto a quello che vedi, vedrai soltanto quello in cui credi.”

Furono sorpresi anche loro. Papà addirittura aprì gli occhi e guardo in giù verso il cugino, poi li chiuse di nuovo in fretta, barcollando sul ramo.

“Me lo diceva sempre il nonno,” disse papà, intendendo suo nonno, mio bisnonno.

“Non l’ho mai conosciuto,” Matteo rise, “lo diceva sempre mio papà.”

Mio padre sorrise, con aria nostalgica. “Lo zio Ricciardo… Va bene,” disse papà, “è sempre così: quando Quis mi chiede l’impossibile, chiudo gli occhi e penso al vecchio nonno, e ci provo.”

Allungò la mano destra più in alto possibile, verso il cuore luminoso della macchia dorata di nebbia sopra di noi.

“Sento qualcosa…”

Lasciò la presa sull’albero con l’altra mano, e si sporse completamente dal ramo. Con un grugnito per lo sforzo, si tirò su di peso e… scomparve nella nebbia. Per fortuna non caddi giù per la sorpresa, com’era successo la mia prima volta nel Ghastengarda.

“Forza, Faro e Pietro,” disse Matteo dal suo ramo più in basso, “anche voi adesso.”

Ci arrampicammo fin sul ramo dove Becherta stava, posato e tranquillo a guardarci, e anche noi allungammo la mano verso il sole nascosto. Sentii qualcosa di duro, rigido e fermo, dal tocco simile ai rami dello stesso albero. L’afferrai anche con l’altra mano, e mi tirai su…

…e mi ritrovai appeso a un ramo di albero. Un altro albero di tasso, più piccolo, più normale, e non più nella nebbia, ma al sole. O meglio, la luce del sole che attraversa le foglie di un bosco, tutta screziata e verdastra. Perché questo albero non era solitario, ma parte di una grande foresta. Mi sistemai comodo sul ramo, e mi guardai attorno. Papà stava più fermo possibile, occhi sempre chiusi, su un altro ramo vicino. Pietro era al mio fianco sullo stesso ramo. Sentimmo un fruscio di foglie sotto: era apparso pure Matteo.

“Siamo tutti qui?” fece papà.

“Tutti” disse Matteo.

“Benissimo, questo è il mondo del racconto. Ma dov’è Quis? Guardate in giro, voi che potete.”

Subito, giunse la voce di Quis da sotto.

Ecco, quaggiù mi trovate
Se lo sguardo abbassate.

E infatti il ragazzo dal viso angelico stava seduto su una radice sporgente dal terreno?? del nostro albero.

“Scendiamo da te, buon Quis?” chiese papà.

Venite, arriva una mia conoscente,
Che pronuncia la sorte di ogni nascente.
Il tempo preme, conosceremo insieme
L’eroe e il seme del racconto e della speme.

“Va bene, Quis” disse papà. “Soltanto che, io ci metterò un po’ di tempo, sai com’è. Ragazzi, mi aiutate voi a scendere?”

Con tanto di “un po’ più a destra, papà” e “un po’ più giù,” e “abbassa la gamba destra” e “no, no, un po’ su a sinistra” riuscimmo pian piano ad aiutarlo a scendere dall’albero. Toccando il suolo, mi accorsi per la prima volta che la terra sotto l’albero non era piana, ma in pendenza… eravamo in montagna! E ciò significava che non eravamo certo vicino a Pavia, circondata com’è da una vasta pianura. Ma che meraviglia! Fino a quel momento avevo dato per scontato che la magia del Ghastengarda era comunque confinata alla mia città…

Quis ci osservava sorridente e forse un poco impaziente.

Nell’attesa distesa della vostra discesa,
è salita spedita la persona avvertita.

E di fatto una giovane donna stava salendo tra gli alberi e piccoli cespugli, un copricapo di stoffa bianca in testa. Sul sentiero appena sotto di noi, si fermò, guardò Quis, a cui fece/che le fece un piccolo cenno rispettoso con la testa, come per dargli il benvenuto. Capii che i due si conoscevano già. Poi, senza dire parola, la giovane donna proseguì sul sentiero, e Quis ci fece cenno di seguirla. Sempre un po’ a distanza e senza parlare, camminammo nelle orme della donna fino a quando il bosco si aprì in una piccola radura, rivelando un panorama che mi tolse il fiato. Sotto di noi si vedevano chiaramente una serie di grandi massi grigi, ciascuno grande come una capanna, e sotto ancora il fianco verde e spiovente della montagna che si stendeva fino al fondo nascosto di una profonda valle. Ma la cosa più sbalorditiva era vedere un’altra montagna direttamente davanti a noi: svettava maestosa al sole, tutta scintillante di neve e ghiaccio, una cosa mai vista per noi ragazzi delle città di pianura. Da Pavia, nelle giornate più limpide, si vedono i picchi delle Alpi in lontananza, ma fino ad allora mi ero soltanto immaginato cosa si potesse provare a essere in mezzo a simili giganti rocciosi. Pietro era rimasto di stucco come me, e perfino Matteo. E papà? Chissà quante cose splendide aveva visto dentro il Ghastengarda… eppure rimase a bocca aperta davanti a tale splendore. Quis era deliziato dalla nostra reazione.

Che gioia fare vedere a nuovi amici
Un mondo di meraviglie incantatrici!

La giovane donna stava andando… dove? Non l’avevo notato a prima vista, ma c’era un piccolo villaggio nascosto fra i massi grigi sotto la radura. Fumo saliva dai tetti di paglia di una manciata di casette costruite in pietra grezza con tanta cura da essere perfettamente tondi (i tetti?). Infatti, si confondevano con i massi, e sembravano propaggini della roccia viva della montagna stessa. Bambini vestiti di lino grezzo giocavano per terra con dei cani, e capretti salterellavano attorno a una pila di fieno. Una signora corse incontro alla giovane donna.

“Dama Bianca, ringrazio il cielo che sei qui. Presto, presto…”

“Tua sorella partorisce” disse la giovane. La signora sgranò gli occhi.

“Ma come fai a saper…? Oh. Ah, si. Certo.”

“Non stare lì sbalordita. Portami da lei.”

“Si, si, presto, di qua.”

Entrarono in una casa al confine tra il villaggio e il bosco. Una piccola folla si era creata attorno, tra bambini i paesani, che guardavano curiosi la Dama Bianca. Prima di entrare in casa, si tolse il copricapo. I suoi capelli erano bianchi. Non il bianco di un anziano… è difficile spiegare, erano di un bianco folto e rigoglioso, quasi lucevano. Ci fu un sussulto di stupore tra tutti.

La Dama Bianca era entrata da poco tempo quando uscì un uomo, sicuramente il padre del nascituro perché cominciò a dare ordini ai bambini attorno alla porta, dicendo: “La Dama porterà alla luce vostro fratello, non serve stare qui incantati. Tu puoi spaccare la legna, tu puoi fare il fuoco, tu puoi prendere acqua dal ruscello… tu puoi fare erba per i conigli, tu puoi prendere le uova… e tu, piccolo, puoi venire con me.”

I fratellini erano ben sei, tutti dai capelli rossicci e riccioluti, e tutti maschi! Mentre si davano da fare, ogni tanto si fermarono e guardarono verso casa, gli occhi grandi e tondi, quando si sentì la loro mamma gridare per il dolore.

“Papà,” sussurrai, “anche la mamma griderà così quando nascerà il fratellino?”

“Il fratellino o la sorellina…” mi corresse con un sorriso, “certo,” mi mise un braccio attorno alle spalle, “ma tranquillo, è normale. Se questa signora ha già sei figli, vedrai che non ci vorrà molto tempo.”

Detto fatto. Presto, le grida tacquero, e dopo un altro po’ la Dama Bianca emerse dalla porta della casa, asciugandosi le mani sul grembiule. Si sistemò i capelli, e rimise il copricapo. La folla di paesani si era riformata, ma questa volta a una discreta distanza: guardarono la Dama con profondo rispetto. Il padre si avvicinò, il figlioletto più piccolo a suo fianco con un cestino pieno di tortine in mano.

“Ma grazie, piccolo,” disse la Dama Bianca, abbassandosi con un sorriso. Non mi ero accorto prima, era davvero tanto bella. Strana, con i capelli bianchi e occhi color ghiaccio, ma bella. “Tu hai un nuovo fratello. Non sei più il bambino della famiglia, adesso sei uno dei grandi.”

Il piccolo fece una risatina felice, e le porse il cestino. Lei lo prese, e gli dette un bacino sulla guancia. Alzandosi, la Dama Bianca parlò con il padre.

“Anche tu hai sei fratelli maggiori, tutti maschi, non è vero?”

Il padre annuì, solenne.

“Allora,” disse lei, “non dubito più di quel che ho visto. Un giorno, tuo figlio nato oggi conoscerà la montagna meglio di chiunque altro, meglio ancora dei nostri camosci bianchi. Sarà un cacciatore famoso, un arciere senza pari. Sarà colui che colpirà con il suo arco il possente camoscio bianco, Corna d’Oro… e porterà nella Valle del Soča il suo tesoro.”

Il padre aveva incominciato a sorridere per la contentezza, sentendosi raccontare il prodigioso talento futuro del neonato. Ma queste ultime parole gli congelarono il sorriso sulle labbra, e tra la gente del villaggio ci fu dapprima un silenzio stupefatto, e poi un sussurro, un mormorio, “Corna d’Oro! Il tesoro di Corna d’Oro! Nessuno ha mai osato… Nessuno ha mai sperato…”

Quis – Capitolo 7

Il profeta

Illustrazioni di Francesca Duo

Arrivati alla basilica, avevamo un solo pensiero: il vuoto dentro le nostre pance. Tirai la tunica di Matteo.

“Cugino Matteo, la mamma ha dato il pranzo a te, vero?”

“Cosa? Oh, ah… sì. Un attimo, l’ho lasciato al nuovo concio”.

“Dai, veniamo con te. Ho tanta voglia di vederlo”.

“Anch’io” disse Pietro.

“Va bene, venite”.

Dopo un po’ di pane e castagne, tutto il mondo sembrava più bello, e con Pietro guardammo bene il blocco di pietra. Certo, il lavoro era ancora all’inizio, ma già si vedeva a grandi linee la scena che papà e Matteo andavano scolpendo: i fratelli pescatori con i quattro storioni appesi a un lungo bastone portato in spalla.

“Il pesce” diceva Matteo con aria da catechista, “è un antichissimo simbolo della fede cristiana, sin dai tempi dei martiri. Come ben saprai, il nostro Signore disse ai suoi discepoli di seguirlo, promettendo di farli diventare pescatori di uomini”. Secondo voi, cosa voleva dire con questa frase?”

Povero Matteo, ancora non mi conosceva bene.

“Da quelle parti c’erano uomini che vivevano nel mare come pesci?” chiesi con finta meraviglia.

Al posto di Matteo, papà avrebbe sospirato rassegnato, ma suo cugino mi guardò sconcertato.

“No… non è proprio quello…”

“O forse c’erano degli uomini che mangiavano vermi, come i pesci” aggiunsi io. Poi guardando il concio: “peccato non c’è il verme”.

“Come?” Matteo sbatté le palpebre, confuso.

“Il verme fatto dalla strega con il capello della donna”.

“Oh!” batté le palpebre e scosse la testa, probabilmente per togliere dalla mente l’immagine di uomini che vivono nel mare e mangiano vermi. “Vero, mi ero dimenticato. Ma… conoscevi già la storia allora?”

“Cosa?”

“Non l’ho detto ieri sera, mi è sfuggito. Te l’aveva già raccontato qualche altra volta tuo papà?”

“Oh, ah…” maledizione, non fui veloce abbastanza a riprendermi dalla sorpresa, e Pietro, quel dolce, mite, onesto ragazzo, ebbe il tempo di reagire. Sbiancò in faccia e quella sua mano sinistra si mise a tremare. Suo padre, riconoscendo questi segni, capì che qualcosa non andava, e si fece tutto severo. Beh, rispetto a mio papà o mia mamma, non era poi tanto severo, ma per intimidire Pietro bastò.

“Che cosa è successo, Pietro? Io ti conosco, mi stai nascondendo qualcosa”.

E Pietro, incapace di mentire com’era, confessò tutto.

“Eravamo con voi tutto il giorno ieri… vi abbiamo seguito di nascosto… Siamo entrati anche noi dentro… dentro quella nebbia strana… dove c’era il corvo, e poi l’altro corvo, e la barca nel buio… come si chiamava, il Ghastengarda…”

Io intanto nascosi la faccia fra le mani.

Matteo avrebbe dovuto punirci, o quantomeno farci una bella sgridata, ma tutto sommato non poteva fare più di tanto, lì per lì: non sapendo quante persone al cantiere erano a conoscenza del segreto del Ghastengarda, non poteva certo urlarci dietro. Non ci diede nemmeno delle sonore bastonate, pensando che qualcuno gli avrebbe chiesto perché (e nel caso di Pietro aveva ragione, ma nel mio caso nessuno lo avrebbe notato, abituati com’erano a vedermi prendere le bastonate). Così, ci riprese severamente ma sottovoce, e ci rimandò dal maestro per finire la scuola. Da parte mia, riuscivo a concentrarmi, ma Pietro accanto a me era agitatissimo.

“Pietro, che cos’hai?” Gli sussurrai quando il maestro era distratto.

“Ho paura di quel che dirà tuo padre. Lui mi spaventa”.

“Ma no, dai, fa scena di essere severo, ma sotto sotto è buono”. Lo rassicurai, ma non fece grande effetto. La sua mano continuava a tremare di tanto in tanto, e le sue lettere incise nella sabbia erano tutte storte.

Quando papà tornò, accompagnava sempre l’ambasciatore dei milanesi e i suoi cavalieri. Il nobile milanese, Ugo de’ Visconti, gli stava dicendo:

“…davvero, tu e tutta la tua famiglia, insisto. Mi è evidente che, per quanto non sia ancora convinto del messaggio che io desidero diffondere venendo qui, ti comporti con grande integrità, insistendo con i tuoi concittadini affinché mi diano ascolto rispettoso, nonostante la tragica inimicizia trascorsa in passato tra le nostre due città”.

Mah! Voglio dire, non sapeva parlare semplice questo milanese?

“Ti ringrazio” fece papà imbarazzato “ma noi siamo gente semplice…”

“Insisto, davvero. Dopo essere stato immerso una giornata intera nella complessità dell’assemblea, mastro Faramundo, la compagnia della gente semplice mi aiuterà a tenere a bada i pensieri cupi”.

Papà sospirò, ma dalla sua espressione capii che, qualunque cosa gli stava offrendo il nobile, sotto sotto voleva tanto accettare.

“E va bene, verremo”.

“Ne sono davvero rallegrato. Manderò il mio paggio per tutte le compere del caso. Sarà una serata modesta, ma festosa”.

Quando i cavalieri se n’erano rientrati nella casa canonica, il viso di papà s’illuminò con un ampio sorriso, e mi diede una pacca sulla spalla.

“La mamma stasera mangia carne, Faro, mangia carne! Ringraziamo il cielo, saranno settimane ormai. Povera donna, che lavora tutto il giorno, incinta…”

“Ah… non ho capito papà”.

“La nostra famiglia è invitata a mangiare con l’ambasciatore e i suoi cavalieri nella casa canonica stasera. Si vede che piaccio a questo Ugo de’ Visconti”. Guardò Matteo un po’ incerto. “Non ho cercato mai di piacergli, ho solo fatto il mio dovere.”

“Per questo gli piaci” disse Matteo “durante l’assedio di Tortona si è mostrato un uomo retto, onesto, anche generoso. E per mostrare queste qualità, di questi tempi difficili, serve prima ancora essere coraggioso. È forse l’unico milanese di cui mi fiderei”.

“Ne sono tanto felice”. L’umore di papà era veramente ottimo. Peccato che si doveva rovinare subito.

“Cugino,” esordì Matteo “purtroppo ti devo dire una cosa un po’ meno felice. Questi nostri figli hanno combinato una birbonata ieri, e l’ho scoperto per caso stamattina”.

Papà divenne subito iroso e rosso in faccia, e guardava me. Voglio dire, perché? Matteo aveva detto questi nostri figli e non questo tuo figlio. Eppure, lui guardò solo me. Che ingiustizia!

“Ci hanno seguiti” diceva Matteo, “dentro il Ghastengarda. Pare che abbiano visto tutto. Quis, i pescatori, la fattucchiera, lo storione stregato, tutto”.

L’ira di papà raddoppiò e da rosso la sua faccia divenne porpora. Eravamo pur sempre nel bel mezzo del cantiere, e non poteva gridare molto forte, ma compensò alla grande con le minacce sibilate.

“E pensare che tua madre vuole convincermi di portarti con me nei viaggi… Ti farà tanto male il sedere che non ti potrai sedere più per un mese! E poi ti…”

…quando Pietro, pallido e rigido tranne la solita mano sinistra tremolante, lo interruppe:

“Signor Faramundo, per favore, è stata la mia idea”.

Silenzio.

Tutt’e tre lo guardammo stupefatti. Poi, ricordando la mattina precedente, dissi:

“Beh, effettivamente lui…”

“Zitto tu!” papà teneva gli occhi su Pietro, e chiese con voce più mite: “Che cosa intendi, piccolo cugino?”

“Io ho detto a Faro più volte, voglio andare con mio papà, voglio andare con mio papà… non volevo stare senza lui, sapete, mi sento tanto solo qui, non conosco nessuno, e… e poi… è mio papà e voglio stare con lui…”

Cavoli! Pensai. Che ragazzo garbato che è mio cuginetto. Da parte sua, papà era rimasto senza parole, anzi, si era un po’ commosso, stava cercando di nascondere gli occhi umidi sbattendo le palpebre come se un moscerino gli fosse andato nell’occhio. Ebbi allora il tempo di chiedermi: Ammetto che è stata però la mia idea di seguirli, o sto zitto? Ero in conflitto con me stesso. Dai, Faro, non dire niente, Pietro ti sta coprendo benissimo. Tanto, a lui non succederà niente. Non lo puniranno mai. Stai zitto e tutto va benone…

Nonostante quella voce cinica dentro me, con grande meraviglia mi sentì dire: “Papà, quello che dice Pietro è vero. Ma sono stato io a dire di seguirvi di nascosto”.

Ma sante nespole! Ma quale cattiva influenza era questo cugino su di me? Forse per la prima volta in vita mia avevo ammesso una mia colpa senza necessità. Brutta, bruttissima piega questa.

Gli occhi di papà, intanto, si erano asciugati in fretta e la rabbia tornata, anche se meglio controllata di prima.

“Adesso ti dico cosa succede, Faroaldo. Tra un giorno o due io e il papà di Pietro dobbiamo tornare nel Ghastengarda. Abbiamo pochissimo tempo per completare la facciata, e dopo questo rimangono altre due sculture. Ciò significa altri due viaggi con Quis. Ora, ti dico una cosa: il nonno mi portò con lui nel Ghastengarda per la prima volta quando avevo più o meno la tua età. Ma io ero un ragazzo serio, non un piantagrane nato come te. Perciò la prossima volta Pietro verrà con noi, e tu rimarrai qui. Per punizione”.

Per fortuna c’è la mamma. Non perché sia meno severa di papà. Vi dico la verità, quando si arrabbia lei mi fa ancora più paura di papà, anche senza alzare la voce. E filo dritto come non mai. Ma la mamma è più saggia. Durante la cena quella sera, nella casa canonica assieme a Ugo de’ Visconti e i suoi cavalieri, io facevo finta di ascoltare uno dei paggetti milanesi, Tebaldo, che parlava con un gruppetto dei suoi simili, ma in realtà stavo origliando quello che dicevano i miei genitori. Non era facile affatto, in mezzo a tutti i rumori della festa: le chiacchierate e le risate, la musica del liuto di un altro paggio, e i passi di chi ballava. Non ero mai stato a una festa, ed ero affascinato dall’atmosfera colorata, gaia, e dalla ricchezza della compagnia. Ma ero ancora più interessato a capire cosa dicessero i miei.

“…è per il suo bene”. Era papà. “Prima o poi deve imparare a controllarsi”. Era stranissimo vederlo con un calice in mano e non una scodella di creta. “Il bambino è troppo irresponsabile. Lascia stare il Ghastengarda, hai saputo cosa mi ha combinato ieri al fiume? Non vedi come Pietro si comporta in modo diverso?”

“Faro non è più un bambino”. La mamma ribatté. “E come potrà mai a diventare più responsabile se non gli diamo responsabilità? Dovresti portartelo. È ora che impari. Tanto, i due ragazzi sono già entrati una volta, il segreto lo conoscono. E non è giusto punire solo Faro e non Pietro, erano insieme”.

Papà fece una faccia scura, ma non seppe rispondere. Dopo un po’ disse: “Il Ghastengarda può essere pericoloso”.

“Esatto. Meglio che entrino sotto i tuoi occhi, e non di nascosto. Gli poteva succedere qualunque cosa”.

Papà sospirò, esasperato. Vide quanto era inutile andare avanti così, e si arrese.

“Va bene, va bene. Lo porterò con me. Ora, prendi ancora un po’ di coniglio, mangia la carne finché siamo qui…”

Da parte mia, non so come ho fatto a non urlare per la gioia. Sarei tornato nel Ghastengarda! Favoloso! Papà aggiunse: “A Gisi non diciamo nulla però. Con la testa che ha, vorrà venire pure lei”.

“No no,” disse la mamma, “la Gisi sta a casa con me. Ho bisogno”.

Guardai mia sorella che giocava con la nipote del canonico. Per fortuna aveva trovato una compagna della sua età, altrimenti si sarebbe appiccicata a me quella sera. Tutta fiera e compiaciuta, raccontava all’amica come si era presentata in cantiere al pomeriggio per affrontare Gherardo davanti a tutti i ragazzi, e lui, a denti stretti e assai a malincuore, le aveva chiesto scusa per averla chiamata papera e per aver minacciato di tirarle il collo. Certo, lei non disse che era accaduto tutto grazie a me, ma dalla mia peste di una sorellina non mi aspettavo altro.

Sentì una mano sulla spalla.

“Ehi, tu, ragazzo!” Era Tebaldo, il paggio milanese che facevo finta di ascoltare.

“Scusami?” dissi, “Non ho sentito bene”.

“Una cotta di maglia, dico, l’hai mai vista?” Stava raccontando come i paggi e gli scudieri preparano i loro cavalieri per la battaglia.

“Um, una cotta di maglia? No, no, mai”.

“È pesantissima, ma io riesco ad alzarla. Per chiuderla devo fare tanti nodi dietro la schiena e alle spalle, con lacci di cuoio. Poi viene la sopravveste, poi le cinture per le armi…”

“Sono qua, le armi?” Ero curioso. “Non ho mai visto da vicino la spada di un cavaliere, o lo scudo…”

“Maledizione, no. La sera che siamo entrati in Pavia le abbiamo dovuto deporre alla porta, altrimenti non ci facevano entrare. Non volevamo. Ragazzo, non sai quanto costano, quanto una casa! Ma non c’era altro modo, e il signor Ugo ha insistito che rispettassimo tutti la legge della città. Allora, abbiamo lasciato tutto ai guardiani delle porte”. Con una faccia brutta agitò un pugno. “Dico io, se quei mascalzoni ci rubano qualcosa…”

“Ehilà, Tebaldo,” arrivò il paggio che fino allora aveva suonato il liuto per chi voleva ballare,” tocca a te, ho le dita tutte dolenti”.

“Ma non ho finito di mangiare”.

“E io non ho iniziato… a mangiare. Ti pare giusto? Tocca a te suonare ora”.

“Va bene, va bene, dammi qua il liuto”.

Tebaldo prese lo strumento e si sedette sullo sgabello lasciato libero dal compagno. Sin dalla prima carezza delle sue dita sulle corde dello strumento si capiva che sapeva il fatto suo.

L’altro paggio soffiò leggero sulle dita arrossite e scosse la testa. “Tebaldo! Tanto è fine la sua musica, quanto è rozza la persona”. Poi mi si presentò. “Io sono Arvino, al servizio del signor Ugo de’ Visconti. Tu sei Faroaldo, non è vero?” Conosceva il mio nome! “Tu sei il figlio del capo dei capomastri”.

“Oh, beh, non proprio. Voglio dire, sono suo figlio sì, ma lui non è il capo. È solo il rappresentante in comune. Rappresentante del paratico, intendo. Tra un anno non lo sarà più”. Lo guardai più attento. “Come fai a sapere il mio nome?”

“Il mio signore parla tanto di voi. È stato tuo padre a convincere l’assemblea ad accoglierci qui in città, anche se siamo nemici milanesi.” Arvino era alto, aveva forse due anni più di me, e ai miei occhi un aspetto già un po’ da signore.

“Oh, non saprei,” feci spallucce, “può darsi”.

Passava un servitore con un vassoio colmo di dolcetti al miele. Ne presi due, poi non ero sicuro che bastavano, e ne presi un altro.

“È difficile il vostro mestiere?” Chiese Arvino, interessato. “Hai portato lo scalpello per caso?”

“Mmmm…” Avevo la bocca piena. “Mi spiace… mmmm…. abbiamo lasciato tutti gli attrezzi… a casa”.

“Peccato, volevo vederlo. Ma sei già in grado di fare… non lo so, un capitello…?”

“Chi, io da solo? No, no, no… Ancora noi levighiamo. Voglio dire, lisciamo le cose che hanno fatto i nostri padri. Ma prima di arrivare a modellare la pietra, si comincia dalla cera, dai modellini che usiamo fare prima di realizzare i conci veri. Io sarei capace di fare un modellino, ma papà non mi lascia fare. Dice che sono troppo piccolo e irresponsabile.”

“Davvero? A me non sembra”. Arvino era molto gentile.

“Beh, forse stavo facendo progressi, e poi è arrivato mio cugino da Tortona, così serio e responsabile, mi mette un po’ in ombra, se sai cosa intendo”. Feci un cenno a Pietro, che stava seduto accanto a Matteo, che parlava con Ugo de’ Visconti.

“Già, il ragazzo che c’era a Tortona. Siete cugini?”

“Esatto. Non che non gli voglio bene,” lo assicurai subito, “gliene voglio un sacco. Solo che… papà vorrebbe che io fossi più come lui”. Arvino annui, e mi diede una pacca sulla spalla. Non sapeva cos’altro dire. “Ah… È difficile il mestiere di… paggio?”

Arvino rise.

“Se chiedi al buon Tebaldo ti dirà che è la cosa più faticosa del mondo. “Io…” pensò un attimo “io invece so di essere fortunato. Sono figlio di un nobile minore… molto minore. Non potevo sperare di servire un cavaliere importante come il signor Ugo, ma lui ha scelto me tra tanti ragazzi di famiglie ben più importanti. Come Tebaldo, è un Della Torre sai. All’inizio, gli altri ragazzi me lo facevano pesare, e quando facevamo pratica con le spade di legno, mi sgambettavano per farmi cadere, e mi sferravano colpi anche quando ero per terra”. Lo ascoltavo curiosissimo. Chi l’avrebbe mai pensato?

“E tu?” chiesi.

Arvino sorrise.

“È io imparai in fretta a non cadere, e a sferrare colpi ancora più forti, anche da terra”.

Mi tornò in mente la scena di quella mattina, dopo essere inciampato sulla spiaggia, e Gherardo che, senza pensarci due volte, mi porse una mano d’aiuto per alzarmi. Scossi la testa.

“Che signorini gentili, i tuoi compagni! Tra noi gente comune non si picchia un ragazzo per terra, piuttosto lo aiuti ad alzarsi”.

Arvino annui. “Sai, più che altro deriva dall’invidia. Il signor Ugo è gentile e generoso, e non mi ignora mai. Fa che ogni suo gesto sia un insegnamento. Altri cavalieri non sono così attenti ai loro paggi, io sono fortunato”.

Sentendo questo, guardai il signor Ugo ben bene per la prima volta. Era giovane, forse non aveva che venticinque anni, e bello, anche se non di volto. La sua bellezza era nel modo di parlare, di porsi, di ascoltare gli altri come allora stava ascoltando Matteo, un mero capomastro.

“Sì,” dissi “lui piace a tutti”.

“Ah! Non a tutti” Arvino abbassò la voce “A Milano molti ce l’hanno con lui. Lo chiamano ‘il profeta’, anche alcuni della sua stessa famiglia, ma non è un complimento. Vedi, il signor Ugo parla tanto del futuro. Vuole convincere la città ad allearsi con altre città per far fronte al tiranno. Dice che solo così potremo vincere. Purtroppo, molti dicono che delle altre città non ci si potrà mai fidare”.

“Chi è il tiranno?” chiesi. Com’ero innocente! Di Guelfi e Ghibellini e delle loro guerre non sapevo ancora nulla.

“Il tiranno è il Barbarossa”.

“Vuoi dire l’imperatore? Ma è molto amato qui a Pavia!”

“Perché sperate di ottenere dei privilegi”.

“Cosa vuol dire?”

“Come posso spiegare… un trattamento speciale… favori… ma se ogni città fa così, dice il signor Ugo, nessuna si farà mai valere, saremo tutti dei leccapiedi e basta”. S’era appassionato al discorso.

“Boh. Mi spiace, ma io di queste cose non ne capisco. So solo che dobbiamo avere tutto pronto per l’incoronazione”.

“Certo,” la sua voce si fece ironica, “quando la sacra Corona Ferrea della regina Teodolinda verrà portata qui da Monza, i vescovi la porranno in testa al grande Federico, e tutti s’inginocchieranno davanti a lui e i loro cuori si colmeranno di felicità per il ritorno dell’imperatore in terra lombarda” disse, sul viso un brutto cipiglio, aggiungendo amaro: “che bella scena!”.

“Non lo è?” dissi, confuso. “Io aspetto quella scena da tutta la mia vita. Anche papà. E’ per questo che lavoriamo, che costruiamo la basilica… Il nonno aveva visto l’ultima incoronazione, prima del terremoto. Tutti sanno che se non finiremo la basilica, l’imperatore si farà incoronare in qualche altra città, forse a Milano, e per Pavia tutto sarà perso…”

“Faroaldo figlio di Faramundo” Arvino parlò ardentemente “le città lombarde sono come tanti ragazzi al gioco, e il Barbarossa è il bullo. Qualcuno cerca il suo favore, aiutandolo a picchiare i ragazzi che sono a terra. È quello che è successo a Tortona. C’erano tanti pavesi lì ad aiutare il Barbarossa a distruggere la città, lo sai? Come hai detto tu, poco fa… quando uno cade per terra bisogna aiutarlo ad alzarsi. Ecco, le nostre città devono imparare a fare così. Insieme. Questa è la fratellanza di cui parla il mio signore Ugo”.

Sentii un calore dentro di me. Arvino ci credeva così tanto, era impossibile non condividere il suo ardore. Ma… il nonno? Il papà? Il lavoro di generazioni? che confusione! Non sapevo proprio come rispondere.

In quel momento, sentii qualcosa cambiare nell’aria. Vicino al camino, Tebaldo smise di suonare. I rumori della festa andavano scomparendo, i bicchieri non tintinnavano, i ballerini si fermarono, le conversazioni si interruppero. Ugo de’ Visconti si era alzato in piedi, mio papà imbarazzato al suo fianco.

“Onorati ospiti di Pavia,” disse “fratelli cavalieri di Milano, d’accordo con il nostro galante campione in comune, il rappresentante dei capomastri Faramundo,” e mio papà si fece ancora più imbarazzato, “domani chiederò all’assemblea comunale di Milano di poter estendere il nostro soggiorno in città fino al giorno attesissimo dell’incoronazione di Federico di Svevia, quando potremo fare omaggio all’imperatore da parte dei miei concittadini”.

Alzò il calice, e mio papà fece altrettanto.

Ci fu una sorta di applauso esitante.

“Nobili compatrioti, onorati ospiti pavesi, come ben sapete,” proseguì Ugo de’ Visconti, “la nostra città di Milano non riconosce alla casata Ghibellina di Svevia, né al suo erede Federico di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, il diritto alla corona imperiale. Noi di Milano stiamo con Sua Santità il Papa nel riconoscere il diritto alla casata Guelfa di Bavaria. Tuttavia, non offenderemmo la dignità dei nostri cari ospiti pavesi, rifiutando l’invito esteso oggi dall’assemblea cittadina di rimanere in città e presenziare alla cerimonia d’incoronazione che si terrà a breve. Per questo motivo, rimarremo qui fino al giorno in cui la Corona Ferrea cingerà il capo del Barbarossa nella Basilica di San Michele. Ma sia chiaro, lo facciamo per rispetto non del tiranno d’oltralpe, ma dei nostri fratelli lombardi, cittadini di Pavia. Che tutti vedano in questa nostra cortesia la strada maestra che si apre davanti a noi, l’unica strada che può salvarci dal giogo straniero! La cortesia tra città, non le offese. L’alleanza fraterna, non le guerre fratricide”.

Alzò il calice, e tutti lo imitarono, ma vidi che non tutti i cavalieri erano contenti. Sentivo borbottare qua è la… impantanati qui altre due settimane… e poi non ne posso più di questa città provinciale… e anche fratelli di chi? Non certo miei… Tra quelli rimasti con i nasi arricciati, c’era il signore di Tebaldo. Mi chiedevo se anche lui, di nascosto, chiamasse Ugo de’ Visconti ‘il profeta’?

Alla fine della festa, il Signor Ugo venne alla porta della casa canonica per augurarci la buonanotte. Per prima, si sedette sui talloni per salutare Gisi.

“Grazie della compagnia, Gisi, ci ha fatto molto piacere conoscerti” disse, e le baciò solenne la mano. Poi si girò verso me e Pietro.

“E grazie di essere venuti, piccoli capomastri. Mi raccomando, i vostri papà hanno tanto bisogno di voi, adesso, per finire in tempo. Non distraetevi con birbonate, e datevi da fare. Me lo promettete?”

Annuimmo. Aveva un tale carisma che non ebbi nemmeno un solo pensiero ironico.

Alzandosi, strinse la mano a Matteo.

“Buon Matteo, grazie, e lasciami dire questo: un giorno rinnoveremo la nostra amicizia nella tua Tortona”.

“Lo spero di cuore” rispose Matteo, “e grazie a te.”

Ora Ugo fece un piccolo inchino davanti a mia madre.

“Grazie di averci regalato questa serata insieme, signora Imilia. Spero che la cena sia piaciuta anche al piccolo che porti in grembo, e che entrambi ne siate rafforzati. Credo bene non si farà attendere a lungo, il bebè, n’è vero?”

“Credo anche io” la mamma sorrise. “Grazie della serata così piacevole, signor Ugo”.

Mio padre annuì.

“Piacevolissima” disse “siamo in tuo debito”.

Ugo scosse la testa.

“Sono io in debito con voi invece”.

“E come sarebbe?” chiese mio padre, perplesso.

“Sedersi a tavola con un nemico che vuol diventare amico… è un gesto di grande coraggio. Un gesto necessario. Spero che altre città non debbano subire la stessa sorte di Tortona prima di capirlo”. Sospirò, ma poi subito si tirò su. “Basta politica e diplomazia, ora. Il coprifuoco è passato da tanto”. Infatti, la città attorno era buia e silenziosa. Non ero abituato ad essere ancora in giro a quell’ora. “Tutti a dormire. Ci vedremo domani mattina per andare in assemblea insieme”.

“Domani non posso accompagnarvi,” disse mio padre “devo compiere un importante viaggio di lavoro.” Mi guardò. Era di buonissimo umore… c’era forse speranza…? E, quasi incredulo, sentii papà aggiungere: “assieme a mio figlio”. Il cuore dentro di me sussultò per la gioia! Sarei ritornato nel Ghastengarda! “E con mio cugino Matteo, e suo figlio Pietro, chiaramente” concluse.

“Sei sicuro di voler portare anche i ragazzi per questo tuo viaggio?” Ugo si preoccupò “Di questi tempi la campagna non è sicura”.

“Li terrò d’occhio tutto il tempo. E con noi ci sarà un vecchio amico, che sa prevenire ogni pericolo. Mi spiace soltanto non potervi accompagnare in assemblea”.

“Tranquillo, caro Faramundo, conosciamo oramai la via, e tutta l’assemblea sa che il paratico dei capomastri sostiene la nostra richiesta di trattare con il comune di Pavia. Fate buon viaggio”.

“Grazie, e buone… discussioni a voi”.

“Ah,” Ugo rise “penso che tu voglia dire ‘buone polemiche interminabili’, vero? Sei felicissimo di evitare l’assemblea di domani!”

“Lo ammetto, sì” disse papà, un sorriso obliquo in volto. “Molto meglio il viaggio. Buonanotte!”

E tornammo tutti alla nostra piccola, calda casetta.

Quis – Capitolo 6

Affonda-la-barca!

Illustrazioni di Francesca Duo

“Soldati alle porte…” Pietro sbiancò e si irrigidì tutto, dalla testa ai piedi, tranne la mano sinistra, che gli tremava. Ma quanta paura gli faceva la parola ‘soldati’? Che impressione! A vederlo, avevo quasi paura anche io. Feci finta di niente, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Dai, andiamo a casa nostra. La mamma avrà saputo tutta la storia dai suoi clienti, e ci dirà lei cosa succede, va bene?”

Uscendo dalla viuzza, esitai, e guardai un attimo in dietro. Ogni mattone, ogni sasso era al suo posto. Ogni traccia di Quis, del racconto, e del Ghastengarda era… non svanita nel nulla, ma nella normalità. La viuzza sarebbe apparsa meno vuota se ancora fosse stata piena di nebbia; almeno la fantasia l’avrebbe potuta riempire.

“Da che parte giriamo?” Chiese Pietro, ansioso.

“Qua, a destra, vieni.”

Tutta la gente che passava per strada parlava dei soldati alle porte: …milanesi, armati e a cavallo… diceva questo, ambasciatori, sotto l’insegna della pace… diceva quello, mentre un altro ancora diceva: Il signor Ugo de’ Visconti di Milano…

Pietro fece un sussulto.

“Ugo de’ Visconti. Era a Tortona. Dentro la città, con i cavalieri milanesi. Ci aiutava. Cercava di spingere via gli assediatori.”

“Cosa ci fanno alle porte di Pavia?” mi chiesi.

Eravamo arrivati al grande portone del palazzo dei Biscossi, dove c’è casa mia. Ecco in un angolo del cortile i nostri padri, intenti a parlare col maggiordomo dei Biscossi, che gli stava dicendo:

“…era Bergaldo dei tintori. Chiedeva di te, Faramundo, per l’assemblea stasera.”

“Cugino, sei il rappresentante?” Era Matteo. Feci segno a Pietro di stare zitto e seguirmi. Passando piano dal lato opposto del cortile, lo condussi verso la porta di casa senza farci notare.

“Si,” diceva mio padre, “quest’anno mi tocca. Doveva capitare proprio a me un anno così complesso…”

Eravamo arrivati. Diedi una sbirciatina dentro. La mamma non c’era, e mia sorellina Gisi stava vicino al camino, intenta a sbucciare castagne. Entrammo facendo finta di niente.

“E voi dov’eravate, fannulloni che non siete altro?” Subito Gisi era in piede di guerra. “Venite a sbucciare anche voi, ho già fatto più di metà da sola.”

“Va bene, va bene, hai ragione.”

“Oh, certo, ragione, si si, la ragione si da ai fessi! Eccomi qua, fessa, sempre sola, come prima in cantiere quando dovevi esserci tu per difendermi.”

Era proprio scura in faccia, incavolata nera. Cos’era successo?

“Cosa vuol dire, difenderti?”

“Quel babbeo di Gherardo ha raccontato a tutti quello che è successo quando io e mamma siamo andate a casa loro per prendere le misure…”

“Ossignore! Cos’hai combinato, Gisi?”

Gherardo aveva forse tre anni più di me, ed era figlio di un altro capomastro di quelli importanti, che lavorava da sempre con papà. Ma il figlio non era un bel tipo. Quando non c’erano grandi in giro, veniva spesso a tormentarmi, a prendermi in giro e cercare di intimidirmi. Non ho mai capito perché, non gli avevo mai dato motivo: si era messo in testa che doveva prendersela con me, e basta.

“E cos’è successo, Gisi?” Chiese Pietro.

“Io prendevo le misure di Gherardo e suo fratello, e la mamma scriveva i numeri. Solo che continuavo a scambiare la vita per il petto, il braccio per la vita… la terza volta mi metto a ridere, no? E lui fa, ‘sembri una papera’. Io già me la sono presa un po’, ma poi quando gli faccio il collo, per nessun motivo si mette a urlare ‘ahi, ahi, e io alle papere le tiro il collo e le spenno!’ Sembrava un pazzo.”

Pietro era indignato.

“Povera Gisi! Ma come si permette? Chi è questo zoticone?”

“Aspetta Pietro,” dissi io. Conoscevo Gisi. “Qualcosa non mi torna. Mentre gli facevi il collo, hai detto? Non è che tu gli hai stretto un po’ il filo, giusto giusto un po’, già che c’eri?”

“Che cosa?” Fu l’innocenza fatta persona. “No, assolutamente.”

“Bah!” Dissi io. “E oggi lui l’ha raccontato a tutto il cantiere, questa storia? E vogliamo scommettere che tutti mi dicono che tu l’hai strozzato?”

“Certo che lo dicono, ma solo perché lui è un bugiardo!”

Pietro, sempre galantuomo, la rassicurò.

“Io ti credo, Gisi.”

Lei gli fece un sorrisino dolce e grato.

“E quindi,” disse lei, col tono di chi afferma l’ovvio, “domani tu lo picchierai.”

Sentimmo una voce alla porta dietro.

“E come, qui si parla di picchiare?” Era Matteo, rientrato finalmente. Mio padre non era con lui: sicuramente era andato dritto all’assemblea. Matteo andò subito ad abbracciare Pietro, che sembrò quasi sorpreso. Certo, noi avevamo passato tutta la giornata coi nostri papà, ma loro non l’avevano passata con noi! Gli era mancato suo figlio.

“No, no,” dissi svelto, “mia sorella parla sempre così, ma è uno scherzo. Sarebbe una pazzia davvero. Il ragazzo di cui parla è il doppio di me!”

“Devi difendere il mio onore!” Strillò Gisi.

“Ah bon, a posto, posso stare tranquillo, non ne hai proprio d’onore.”

E quella furbetta fece gli occhi dolci a Pietro e lui, che ancora non la conosceva bene, si sciolse come la neve.

“Ma dai, Faro, dobbiamo fare qualcosa per difenderla. È tua sorella.”

“Mmmmm,” disse Matteo con l’accenno d’un sorriso, e poi continuò con tono formale: “vedo che qui l’assemblea dei piccoli è in seduta di guerra. Non desidero disturbare i procedimenti, volevo solo dirvi che vostro padre è andato all’assemblea dei grandi, e forse tornerà tardi.” E con questo andò a pulire e sistemare i suoi attrezzi di lavoro.

“Dai, Faro…” ripeté Pietro.

“Va bene.” Feci grande scena di un sospiro lungo e desolato, ma in realtà non ero tanto dispiaciuto: mi era venuta un’idea. “Gisi, ti difenderò. Ma niente picchiare, ché Gherardo è veramente il doppio di me. Lo sfiderò a una partita di affonda-la-barca. Se vinco io, lui ti chiede scusa. Soddisfatta?”

Gisi fece un sorriso così angelico che per un attimo sembrava Quis.

“Allora vieni in cantiere di nuovo domani pomeriggio, e vedrai se ti chiede scusa.”

“Affare fatto!”

“Ma dimmi,” le chiesi, “carissima dolcissima sorellina mia, che ci sei andata a fare in cantiere? Tirare un sasso al vespaio?”

“Cercavo te, per dirti di venire a casa a darmi una mano con le castagne, visto che ero rimasta sola. E tu dov’eri?”

“Oh, sai,” presi una castagna calda con aria disinvolta, e lanciai un’occhiata a Matteo, ma sembrava non avesse notato, “con questa storia dei cavalieri alle porte siamo andati a vedere, ma c’era troppa gente, non si capiva niente.”

“Cavalieri alle porte?” esclamò.

“Beh, ovvio,” feci, “milanesi.”

“Oh! … È Guerra ancora?”

Amici lettori, questa è una cosa che sicuramente non sapete: Milano è nemica acerrima di Pavia. Da quando eravamo in fasce c’era sempre qualche scaramuccia tra milanesi e pavesi da qualche parte nelle campagne tra le nostre due città. Ma il nemico non si era mai spinto fin sotto le nostre mura. Sapere che una compagnia di cavalieri milanesi era alle porte faceva spavento. Era l’inizio di un assedio? Ma Pavia stava col grande Barbarossa, come osavano sfidare lui?

“Si, Gisi,” disse Matteo, alzando la testa dagli attrezzi, “sono milanesi, ma tranquilla, sono pochissimi, forse una decina, con i loro paggetti. Il capo di tutti è il buon Ugo de’ Visconti. Lo conosco. Io dico che non vengono a fare la guerra.”

“Papà è andato in assemblea per questo?” chiese Gisi.

“Brava, Gisi” Matteo annuì, “devono decidere se dare ospitalità a questi cavalieri stanotte, o sbarrargli la porta.”

“Ma è già sera,” dissi io, “non arriveranno mai a Milano oggi se non li fanno entrare.”

“Appunto. Sarebbe un grave insulto non offrirgli ospitalità. Eppure, per i pavesi sono nemici.”

Fece spallucce.

“Cosa si deve fare? Secondo me l’assemblea ci metterà un bel po’. Papà tornerà dopo cena. Ma mi ha dato un compito importante. Durante la cena vi devo raccontare una bella storia nuova.” E con questo, finì di sistemare l’ultimo attrezzo e si mise accanto a noi a sbucciare castagne. Chiese a me e Pietro la domanda che avremmo voluto evitare: “Com’è andata la giornata in cantiere?”

Pietro si pietrificò. Capì subito che non era uno che sapeva mentire. Per fortuna, io sono sempre pronto a farlo! E per qualche motivo, sono quasi più convincente quando dico le bugie che non la verità. Chissà perché?

“Mah, la scuola una noia come sempre. Certo, Pietro si diverte perché è la prima volta, ma io non ne posso più. Voglio dire, non possono inventare qualche nuova lettera? Quelle vecchie le ho fatte mille volte.” Matteo sorrise. Stavo andando alla grande. “Poi il pomeriggio ci siamo fermati poco. Quando abbiamo sentito questa storia dei cavalieri ce la siamo svignati per andare a vedere cosa succedeva.”

“Dovevate restare a lavorare…” Matteo ci ammonì, ma non era proprio severissimo. Certo, con un figlio come Pietro non era abituato a dover fare le ramanzine, forse gli serviva pratica.

Curioso, Matteo chiese: “A quale porta sono i cavalieri?”

“Oh, San Giovanni,” inventai spigliato. Ma dietro le mie spalle, la mamma era arrivata alla porta.

“Ma quale Porta San Giovanni?” disse lei bruscamente. “I milanesi sono alla porta del ponte.”

“Ah, ecco perché non abbiamo visto niente.” Dissi, ma la mia risata era finta. La mamma mi faceva più paura di dieci papà, e con lei mi sentivo trasparente come l’acqua. Era andata da qualche famiglia a cui aveva portato i vestiti riparati, perché portava la sua borsa da cucito. Che aria stanca che aveva, povera! con il grosso pancione che portava in giro a ogni passo non c’era da meravigliarsi. Balzai in piedi, le presi la borsa e la aiutai a sedersi sulla cassa.

“Ruffiano! Non mi aiuti mai. Guarda che ti ho sentito prima, hai portato tuo cugino via dal cantiere per farti compagnia mentre te la spassavi in giro con la scusa dei soldati alla porta. Adesso per punizione la cena la servi tu a tutti, e i dopo sistemi pure le stoviglie.”

“Ma quello è lavoro da femmine! È Gisi che…”

“Zitto! Il lavoro da maschi l’hai svignato oggi pomeriggio, ora ti tocca quello da femmine.”

Quando la mamma aveva quel tono lì, uno stava zitto e faceva quel che lei voleva, e basta. Mascalzone lo ero, ma non stupido. Mi misi al lavoro con le scodelle e il paiolo di grano cotto.

Durante la cena, come aveva promesso, Matteo ci raccontò una storia. Secondo me non dovrete mica spremervi le meningi per indovinare quale. Da tutta la mia vita papà era partito ogni tanto la mattina per un viaggio speciale, per tornare la sera con una nuova, bellissima fiaba, che poi scolpiva anche su una nuova pietra per la basilica. Finalmente io sapevo da dove venivano questi racconti, e queste sculture. Il Ghastengarda.

Matteo, come suo figlio, era così mite, così pacato e affabile, che la sua versione di cantastorie mi soprese. Ci andava dentro, si divertiva a raccontare del re che annegava con l’oro nel fiume, dei pescatori trascinati su e giù dal grande storione che sapeva anche parlare, della fattucchiera con il suo mantello di piume…

Peccato che io ero così stanco. E che dovevo servire la cena, e sistemare i piatti e pulire il paiolo. Mentre Pietro ascoltava suo padre incantato e felicissimo, io quasi dormivo in piedi, le cose mi cadevano dalle mani, non trovavo più i cucchiai, facevo fatica a tagliare il pane… Insomma, non ascoltai bene ogni parola, senza sapere che questa cosa poteva ritorcersi contro di me il giorno dopo. Non appena finita la cena e sistemato tutto al focolaio, me ne andai a dormire.

“Papà non viene?” Gisi stava chiedendo alla mamma.

“Penso che farà tardi all’assemblea. Vai a dormire con tuo fratello se hai sonno.”

Forse venne, ma non saprei, ero già nel mondo dei sogni.

Mi svegliai molto lentamente la mattina dopo, e durante quella piacevole dormiveglia nel caldo morbido e soffice del letto, quando tutto fuori dal letto sembra un po’ un sogno, vidi mio padre seduto per terra davanti al focolare, per lasciare spazio sulla cassa per la mamma. Povero papà, non solo era tornato tardi, si era pure alzato presto! Matteo si scaldava accanto al fuoco, intento a guardare qualcosa nelle mani di papà: un blocco squadrato di cera. Papà lo stava intagliando accuratamente col suo coltellino. Era sicuramente il modellino per un nuovo concio, e sapevo già quale storia raccontava… Sicuramente c’erano due pescatori, e il loro pescato!

“Faramundo,” diceva mia madre, “se non gli dai qualche responsabilità in più non cambierà mai.”

“Ma non ne merita. Combina sempre guai.”

“Al meno un modellino… alla sua età tu eri già in grado.”

“Come può fare i modellini se non viene nel Ghastengarda?”

“Appunto, è proprio quello che dico.”

D’un tratto ero completamente sveglio. Ma, stanno parlando di me? Ho capito bene, la mamma mi vuole mandare nel Ghastengarda? Il prossimo a parlare fu Matteo.

“Io non esiterei a portare Pietro, non credo sia pericoloso per lui se rimane sempre con noi.”

“Ah, certo,” rispose mio padre, “non esiterei neanch’io a portare Pietro. E fatto di altra stoffa. La stoffa di Faro è ancora grezza.”

“La stoffa,” disse la mamma, “rimane sempre grezza se non passa per le gualchiere. Va lavorata, affinata, altrimenti non cambia. Con i bambini è la stessa cosa, e non sono le bastonate a farlo, sono le piccole responsabilità. Pietro è un ragazzo serio, è vero… ma certo che lo è! Pensa a quello che ha vissuto in questi mesi, povero…”

Mio padre sospirò.

“So che tu hai ragione, Imilia. Eppure…” Per un lungo momento guardò, pensieroso, il modellino di cera, girandolo nelle mani per vedere ogni lato. “Il tempo di finire la Basilica. Poi, lo sai, c’è la chiesa di San Giovanni in Borgo, avrà ogni opportunità. Dammi due settimane, fino a quando non arrivi il Barbarossa. La situazione è troppo delicata ora, con questi cavalieri milanesi in città, e avrò meno tempo che mai…”

Matteo chiese: “I cavalieri sono dunque entrati ieri notte?”

“Alla fine, sì. Don Giorgio li ha convinti a deporre le armi alla porta. E quali armi! Non credo ci sia un solo cavaliere in tutta Pavia che possa vantarsi di armi simili.” Matteo annuiva, con l’aria di chi ha già visto quel che gli viene descritto. “Poi, li abbiamo scortati alla canonica, e saranno lì a dormire ancora, beati. Quanto hanno insistito per entrare in città! I frati di San Salvatore li volevano accogliere fuori le mura…”

“Chi? Cosa?” disse Gisi. Si era svegliata accanto a me e – maledizione! – con un calcio tolse le coperte da entrambi. Quella aveva il dono di svegliarsi subito energica. Anche Pietro si svegliò a questo punto, ma dalla sua faccia rintontita capii che faceva tanta fatica quanto me ad alzarsi la mattina.

“Niente Gisi, roba da grandi,” disse papà. “Parlavo dei cavalieri milanesi di ieri e dell’assemblea.” Poi alla mamma e Matteo: “Ambasciatore. Quell’Ugo de’ Visconti dice di essere un ambasciatore. Mah! Vedremo oggi.” Posò il modellino. “Ragazzi,” si alzò in piedi e sbatté le mani forte, “forza, colazione, svelti. Ci dobbiamo sbrigare, devo portare gli ospiti milanesi in assemblea all’ora terza, ma prima devo assolutamente mettere in cantiere il nuovo concio.”

“Va bene,” disse la mamma, alzandosi a fatica. “Chi vuole ricotta col siero?”

“Io!” quasi urlai.

“Non avevo dubbi,” disse lei, sorridendo.

“Una sola scodella, Faro,” disse papà, “non abbiamo tempo per altro. E oggi in cantiere mi raccomando. La mamma mi ha detto come hai portato Pietro a gironzolare ieri pomeriggio. Oggi, quando vado via io, fai quel che ti dice il cugino Matteo. Intesi?”

“Intesi papà.” Dissi, ma la mia attenzione era tutta per la ricotta. Papà mi guardò severo.

E continuò a guardarmi severo tutta la mattina. Assieme a Matteo e i lavoranti, fece trascinare fuori un nuovo concio di pietra e si misero al lavoro. Misuravano i lati del modellino di cera, e poi misuravano i lati del concio… e alzò lo sguardo per fissarmi. Tracciavano segni e forme con carbone sulla pietra… e alzò lo sguardo per fissarmi. Facevano volare via le prime scaglie con martello e scalpello… e alzò lo sguardo per fissarmi.

Ve lo giuro, io stavo lì nella sabbia con gli altri ragazzi, Pietro accanto a me, e cercavo di concentrarmi sulla lezione del maestro Paolo. È colpa mia se papà mi distraeva sempre? Intanto, i ragazzi seduti a fare scuola si sussurravano che i cavalieri milanesi avevano passato la notte nella casa canonica accanto alla basilica.

 Verso metà mattinata vedemmo che fu proprio così: i milanesi uscirono dalla canonica, passando proprio in mezzo al cantiere. Ah, che subbuglio! Il maestro agitava il bastone per ordine, e il malcapitato più vicino a lui si beccò pure un colpo, ma non c’era niente da fare, tutti noi ragazzi saltammo su, e seguimmo i cavalieri con i loro paggetti, restando a bocca aperta solo a vedere i loro vestiti ricchi e coloratissimi. Ma non eravamo solo noi. La gente della città apparve come dal nulla, e d’un tratto lo spazio attorno alla basilica brulicava di persone, che chiacchieravano, esclamavano, ammiravano… Il mio povero padre, che non voleva fare altro che scolpire il nuovo concio, dovette lasciare il lavoro e farsi largo in mezzo alla folla.

“Permesso! Fatemi passare! Sono il rappresentante del comune, sono io che devo accompagnare l’ambasciatore milanese all’assemblea, fatemi passare!”

Infine, raggiunse i cavalieri. Uno di loro lo salutò con rispetto. Era il più importante di tutti, giudicando dai vestiti, che letteralmente brillavano al sole per i ricami in filo d’oro e d’argento.

“Mastro Faramundo, ben trovato.” Disse, e sapeva farsi sentire senza urlare. D’un tratto ci fu silenzio in piazza. “Avevamo sentito quale meraviglia il paratico dei capomastri di Pavia stesse creando qui, in onore dell’Arcangelo Michele, ma vedere la vostra opera di persona è un’emozione non da poco. Complimenti a te e a tutti i capomastri e i vostri lavoranti.”

“Da parte del paratico, ringrazio.” Papà fece un goffo inchino. Non era per niente abituato a discorsi eleganti, tanto meno davanti a una folla.

Pietro al mio fianco si irrigidì con un sussulto. Vidi perché: il cavaliere aveva visto suo padre, e lo stava salutando.

“Buon capomastro, ti riconosco, ti ho visto tra la gente di Tortona durante l’assedio appena concluso, non è vero?”

Matteo, imbarazzato e nervoso, annuì, guardandosi attorno. Tutti lo guardavano. Mi sembrava di sentire i pensieri della gente: Tortona? Alleata di Milano! Città nemica!

Proprio in quel momento sentii una mano pesante posarsi sulla mia spalla, e stringere forte fino a farmi male. Capii subito che era Gherardo, e non gli diedi la soddisfazione di vedermi trasalire. Non guardai nemmeno in dietro.

“Mio cugino è nato e cresciuto a Tortona,” diceva papà ad alta voce, guardando bene la gente intorno, “ma è pavese quanto me, figlio del fratello di mio padre.”

Ci fu un gran bisbiglio tra la gente a queste parole, ma tutti continuavano a guardare sia Matteo che Pietro con sospetto. Dietro di me, con quella sua voce bassa e rocca, Gherardo mormorò: “Allora avete il nemico in casa?”

“Zitto, buffone.” Risposi.

Pietro si girò per vedere con chi parlassi, e indietreggiò un passo con sgomento a vedere quella sorta di scimmione di un ragazzo, che era più grande di noi di pochi anni ma aveva già peluria in viso e braccia spesse come rami d’un grosso albero, per non parlare della voce che sembrava un tamburo fatto col tronco dello stesso.

Sorrisi calmo a Pietro, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Questo è il babbeo che diceva la Gisi.” Spiegai.

“Gisi è una bugiarda canaglia!” Disse Gherardo, dandomi un colpo secco alla schiena con una mano, mentre mi teneva fermo con l’altra (altrimenti mi avrebbe buttato per terra, attirando l’attenzione dei grandi). Ma io non feci una piega.

Intanto, il cavaliere parlava alla gente: “… ma per questo preciso motivo. Gli altri cittadini di Tortona si stanno dirigendo verso Milano in seguito all’ingiusta e barbarica distruzione delle loro case. La nostra città li accoglierà con amor fraterno, e ospitalità, e li aiuterà a ricostruire la loro città non appena sarà possibile. Ordunque io sono venuto qui, ambasciatore di Milano, per dirvi questo: non è più tempo di guerra fratricida tra i nostri comuni! Il Barbarossa è più potente di ogni singola città, e ci potrà distruggere una ad una se vorrà. Soltanto l’unione fra noi potrà porci nelle condizioni di far valere la nostra libertà di vivere, lavorare e commerciare secondo i nostri costumi lombardi.”

“Perdonami, nobile signore,” disse mio papà, e secondo me si sentiva ridicolo a parlare così, “credo che il luogo adatto a questi discorsi è l’assemblea cittadina, dove tra l’altro ci attendono. Se mi seguirai, avrà inizio con il nostro arrivo.”

“Io ti seguirò.” Disse il cavaliere. Con mio padre in testa, uno dopo l’altro come una processione, i cavalieri e i loro paggetti se ne andarono verso il Broletto, dove si tenevano le assemblee. Dietro di loro il bisbiglio tra la gente divenne un ruggito.

“Affonda-la-barca,” dissi svelto a Gherardo, “se vinco io, tu chiedi scusa a mia sorella. O sei vigliacco?”

“Va bene,” disse lui, subito. Sapeva di avere il tiro più lungo del mio, ma io sapevo di avere il tiro più preciso. Chi avrebbe vinto?

Giusto, giusto, devo prima spiegarvi che cosa sia affonda-la-barca, anche se sono sicuro che i ragazzi lo fanno anche nel vostro tempo lontano. È un gioco divertentissimo, e facile come tirare un sasso. Beh, facile come tirare un legno e poi tirare tanti sassi. Ecco, così si gioca: tirate un legno qualsiasi nel fiume, e mentre la corrente lo porta via, voi tirate sassi per colpirlo. Chi lo colpisce più volte vince. Certo, vi conviene tirare il legno più possibile a largo e a monte, in modo che ci metta più tempo per passarvi davanti, e avete più possibilità di colpirlo.

Presto eravamo sotto la Porta Calcinara, dove il fiume ha lasciato alla base delle mura una bella e larga spiaggia di ghiaia, dove i barcaioli caricano e scaricano la calce e la sabbia per i cantieri. Erano abituati a condividere la spiaggia con ragazzi che giocavano ad affonda-la-barca, e anche se ogni tanto davamo fastidio, non ci mandavano mai via.

Nella squadra di Gisi c’eravamo-

Ah, un’altra cosa: so che state pensando, amici lettori, che ce l’eravamo di nuovo svignata da scuola e dal cantiere. No, no, questa volta avevamo il permesso. Era la pausa dell’ora di pranzo, e Matteo, sapendo già la storia di come Gherardo aveva offeso Gisi, ci aveva dato permesso, a patti che tornassimo al cantiere puntualmente per lavorare nel pomeriggio.

Dunque, come dicevo, nella squadra di Gisi c’eravamo io e Pietro, e nella squadra di Gherardo c’era lui stesso e il suo grande amico Astolfo.  Fu quest’ultimo a scegliere un legno, a spostarsi una cinquantina di passi a monte di noi, e tirarlo nel fiume. Poi lui e Pietro guardavano, arbitri, mentre io e Gherardo tiravamo.

Gherardo comincio a tirare a raffica non appena il legno si avvicinò abbastanza per le sue braccia lunghe e forti, quando io non avevo ancora speranza di raggiungerlo. Non importa: in primo luogo perché, avendo la mira pessima, non lo colpì neanche una sola volta fin quando non fu vicino abbastanza anche per me, e in secondo luogo perché io sfruttai quel tempo per scegliere i sassi più adatti alla mia mano e alla mia forza. In particolare, e me lo ricordo oggi come fosse ieri, ci fu un sasso dal peso e dalla forma perfetta, e di un colore porpora intenso, e inusuale per il nostro fiume. Mantenni il sangue freddo quel giorno: mentre Gherardo tirava come un matto impazzito, senza neanche guardare la ghiaia quando si abbassava per prenderne manciate a casaccio, io, svelto ma calmo, feci un piccolo mucchio di sassi più a monte, da dove avrei cominciato a tirare, e un piccolo mucchio di sassi più a valle, dove avrei finito di tirare. Ecco, ero pronto: amici lettori, sareste fieri di me! (Se solo io fossi così ben organizzato e veloce pure in cantiere, anche papà sarebbe fiero di me…)

Il legno arrivò nel raggio del mio tiro! Prendendo posto al primo mucchio, incominciai a tirare con la mia mano buona, la sinistra, con la mano destra estesa dritta per tenermi in equilibrio e per prendere meglio la mira. Uno, due, tre… un colpo!

Gherardo bestemmiò, ancora lui non l’aveva colpito una sola volta. Non persi tempo ad esultare o fare balletti di vittoria, tirai ancora, e ancora… Quattro, cinque, sei, sette… Mentre approntavo l’ottavo sasso, si sentì un bel toc: anche Gherardo aveva fatto un colpo. Otto, nove… un altro colpo, ero di nuovo in vantaggio! Dieci, undici… un altro colpo! Ma il mucchio era finito. Sfrecciai lungo la riva verso il secondo mucchio… accidenti! Proprio allora la prua di una barca piena di calce si arenò sulla spiaggia, esattamente tra me e i miei sassi. Mentre aggiravo l’ostacolo sentii Gherardo, infuriato dal mio successo, grugnire lanciando un’intera manciata di sassi al legno, tutta in una volta e con tutta la sua forza. Maledizione, uno dei sassi colpì il legno, ma un altro urtò contro la poppa della barca appena arrivata.

“Ehilà, ragazzaccio, fai attenzione!”

Io ero già al mio secondo mucchio, ma ora toccò a Gherardo di aggirare la barca. Sgraziato com’era, investì il barcaiolo che saltava giù dalla prua con un sacco pesante in spalla.

“Oh, ancora tu, testa di piffero! Di chi sei, chi è tuo padre?”

E sapete cosa gli disse quel farabutto di una canaglia di Gherardo? “Papà si chiama Faramundo, il capomastro…”

Ma che mascalzone!

Certo, il barcaiolo andò via borbottando, “Ehi già, me l’han detto quel povero uomo ha un figlio piantagrane…”

Ma che m’importa? Io ero in vantaggio di un colpo, e stavo già tirando nuovamente, alla grande, calmo, equilibrato… Dodici, tredici, quattordici… Gherardo mi raggiunse, e subito ebbe fortuna con un forte tiro: toc, e il legno si abbassò per un attimo nell’acqua. Pari…

Quindici, sedici… un colpo! Di nuovo in vantaggio!

Gherardo, frustrato e preso dal panico di perdere, riprese a lanciare intere manciate di sassi per volta. A me pareva senza capo né coda questa strategia, ma sapete cosa? A furia di lanciare e lanciare, fece un altro colpo, ed eravamo di nuovo in parità. Mi abbassai per raccogliere l’ultimo sasso della pila, l’ultima speranza. Si, avete già capito, il sasso porpora. Per lanciare era il migliore di tutti per peso e forma, ma non bastava: io avrei dovuto fare il tiro della mia vita, e il legno si stava allontanando, era quasi fuori tirata…

Amici lettori, ce la misi tutta: tutta la mia forza, tutta la mia concentrazione. Lanciai! Ma con sì tanto slancio che persi l’equilibrio, e tentando di riprendermi inciampai in una pietra di quelle grosse, e caddi per terra senza nemmeno capire se il mio colpo fosse andato a buon fine. Lo seppi presto però, perché quando Gherardo si inchinò per darmi una mano ad alzarmi, la sua faccia era nera, poi divenne rossa, poi porpora, poi di nuovo nera. Avevo vinto!

“Bravissimo, bravissimo, sei stato fantastico!” Urlava Pietro, abbracciandomi. Astolfo diede una pacca sulla spalla a suo amico.

“Beh, andrà meglio la prossima volta,” diceva. “Niente male questo ragazzino, eh?” Mi fece un cenno di rispetto. “Dai, Gherardo, torniamo in cantiere, ché pomeriggio viene la Gisi e le devi chiedere scusa, mi sa…”

E se ne andarono, con Gherardo che sbuffava e scoppiettava che sembrava il rumore di acqua buttata su un falò.

“Grande!” disse Pietro, con un sorriso enorme. Così, a braccetto, ridendo e chiacchierando, rivivendo ogni momento della gara trionfale, tornammo alla Basilica.

Quis – Capitolo 5

Chi viene accontentato non è mai contento

Illustrazioni di Francesca Duo

E fu proprio in quell’istante che sentimmo il craaaa, craaaa del corvo sopra di noi, e vedemmo quelle ali nerissime battere, e quando abbassammo lo sguardo, Quis aveva fatto la sua magia ancora una volta, e ci trovammo di nuovo in riva al fiume con i due pescatori, e sempre per fortuna o magia, a distanza dai nostri padri. Ci nascondemmo, e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. Picaldo stava mettendosi le mani alla bocca a mo’ di tromba, e fece più forte che poté il richiamo che gli aveva insegnato lo storione fatato:

Cuuuuuuuuuuuuuuuuuuì!

Presto, vedemmo emergere dall’acqua la testa appuntita e dorata con i baffi arcobaleno e gli occhi color ambra…

“Salve, fratelli pescatori. Non mi sorprende affatto vedervi qui ancora. In cosa vi posso servire?”

Picaldo spiegò: “Con la moneta d’oro che abbiamo trovato l’ultima volta, abbiamo cominciato a costruire una nuova casa, in pietra, e mia moglie si è comprata vestiti più belli. Ma ancora la nuova casa non è finita, e già ha detto che non basta. Ora vuole vivere in un grande palazzo di città, come una nobildonna!”

“Spero che non le sarà concesso,” disse Pacoldo. “Se non l’hai già capito, fratello, lei non sarà mai soddisfatta, e ti manderà sempre al fiume a pescare, comunque; anche se vivrà davvero come una nobildonna… Ti immagini, vivere in un palazzo, in città; lei vestita di seta e tutta profumata, e tu che parti la mattina con la rete per andare al fiume, e torni che puzzi di pesce? Sei mio fratello, e ti aiuterò sempre, ma lascia che te lo dica: prima o poi le dovrai portare a casa un bel ‘no’ al posto del pesce”.

“Un bel ‘no’ eh?” disse Picaldo, scocciato. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”

“Non ho mai visto il mare. Ma so che c’è gente che l’attraversa”.

“Taci, fratello, e lascia parlare lo storione fatato”.

Ma con suo sgomento, il grande pesce ripeté quanto aveva detto la prima volta:

“Se è questo che vuoi, io ti manderò storioni di fiume da pescare, e nelle loro pance troverete un nuovo tesoro. Ma dal tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie.”

Picaldo guardò male entrambi, pesce e fratello.

“Sì, grazie, è questo che voglio.”

Di lì a poco, i fratelli si caricarono in spalla il lungo bastone con gli storioni bianchi appesi, e quando tornarono a casa si vedeva accanto alla vecchia capanna una nuova casa costruita a metà, molto più grande, e con i muri di pietra. Un lavoratore stava spargendo malta, mentre un altro si serviva del peso a piombo per fissare un legno ben dritto. Sarebbe diventata una bella casa, molto più spazioso della stanza dove vivevo io con mamma, papà e la mia sorellina Gisella. Vedemmo i nostri papà, che la guardavano attentamente, scambiarsi sottovoce qualche commento, e mio papà con le mani descrivere un angolo e un muro; da buoni capomastri, avevano le idee chiare su come costruire le case.

E sulla porta, la signora aspettava…

Che bel vestito costoso,
E che cantiere favoloso!
Ma il tuo sguardo è nervoso,
Avido, senza riposo…

Infatti… La donna aveva un vestito nuovo, i capelli lavati e conciati, e scarpe nuove, e non sembrava per niente contenta. Non guardò nemmeno il marito che arrivava, stanco e con i panni zuppi di sudore, guardava solo ai pesci, e aveva già il coltello in mano.

“Presto, posateli sul tavolo da lavoro”.

I due fratelli si fecero da parte mentre lei incominciò a pulire i pesci. Ne sventrò una, ma la pancia era vuota. Ora, ben determinata, ne prese a caso un altro… Pancia vuota anche qui. Rabbiosa, ancora a caso. Pancia vuota… Infine, nella pancia del quarto pesce, trovò i due tesori degli storioni, le uova e…

“Oh cielo! Tesoro! Vero tesoro questa volta! Cinque monete d’oro, e quanti rubini e zaffiri, e perfino un diamante! Non ho mai visto così tanta ricchezza!”

Vi dirò, non era cosa bella vederla esultare così. Pensai a mia mamma, e non potevano essere più diversi il carbone e il miele. Per fortuna non dovemmo assistere a lungo alla sua avara gioia: tra un craaaa craaaaa e un cuuuuuuuuuuuuuuuuì, eravamo ancora una volta in riva al Ticino, dove i fratelli pescatori parlavano con lo storione fatato… per l’ultima volta.

“In cosa vi posso aiutare, fratelli pescatori?” diceva il pesce.

“Mia moglie ora vive in un grande palazzo” rispose Picaldo, e non ne sembrava affatto contento… “Proprio nel centro di Pavia. Ha tanti servi, tanti vestiti bellissimi, e mangia sempre il meglio della stagione. Eppure…”.

“Non le basta mai” finì per lui Pacoldo.

“Non mi sorprende, caro pescatore” fece lo storione.

Ma, era soltanto una mia impressione, o i pesci sono in grado di sorridere sotto i baffi… intendo, sotto i barbigli?

“Non volete sapere che cosa mi ha chiesto adesso?” disse Picaldo.

“Francamente,” disse il fratello “non m’interessa più. Non voglio sapere”.

Questa volta lo storione rise davvero, una risata calda e sonora.

“Vieni vicino, uomo dalla moglie incontentabile, vieni vicino e sussurrami quest’ultimo desiderio, e non faremo arrabbiare tuo fratello”.

Il pescatore, imbarazzato e un po’ goffo, fece come chiesto e scese dentro l’acqua fino alle ginocchia, e si piegò per sussurrare qualcosa al pesce.

“Aaaah!” esclamò lo storione. “Quale desiderio illuminante. Allora ho una buona notizia per voi. Oggi non vi dovrete affaticare per niente. Per realizzare questo suo desiderio non serve affatto alcun tesoro; e non servono pesci! Questo desiderio è del tutto fuori dalla mia portata. Servirà ben altra magia, temo”.

“Ma quale magia? Come posso fare?” Picaldo era disperato.

“Mmmmmm” il pesce meditava “io una volta ho avvertito una magia forte, ma non saprei da dove venisse.”

“Quando? Quale magia?”

“La prima volta che ci incontrammo, quando presi in bocca la vostra esca. Sapevo benissimo di sbagliare, ma per qualche motivo, non seppi resistere”.

Picaldo stette un attimo a bocca aperta, come un pesce.

“Fratello!” Pacoldo chiamò dalla riva. “Poteva essere soltanto la magia della fattucchiera Edburga, ti ricordi che tua moglie era stata da lei?”

“Andiamo!” Picaldo uscì dall’acqua di corsa, e stava scomparendo nel bosco quando il fratello lo richiamò.

“Eh, testa di rapa, non saluti prima di andare via?”

Picaldo si fermò, imbarazzato, e fece un inchino rispettoso al pesce.

“Grazie, storione fatato. Chiedo scusa se ti abbiamo disturbato tanto”.

“Il piacere è tutto mio” Rispose il pesce con eleganza. Ora anche Pacoldo lo salutò.

“Che tu possa vivere altri quattrocento anni. Almeno!”

“Grazie! Che la tua rete si riempia sempre di alborelle gustose”.

E con questo, lo storione fatato scomparve nel fiume, per sempre.

La fattucchiera Edburga stava preparando qualcosa dentro un calderone – sicuramente un filtro magico, ché si sentiva un odore tanto pungente quanto strano.

“Edburga” chiamò Picaldo “scusa se ti disturbiamo, ma siamo veramente disperati…”

“Lui è disperato”. Corresse il fratello. “Io sono esasperato”.

La vecchia maga, benda sugli occhi, si fece vedere sull’uscio e…

“Ah, siete voi. Ben tornati, era da tempo che non vi vedevo. In che cosa vi posso assistere, buoni uomini?”

“Mia moglie qualche tempo fa era venuta da te, e ti ha chiesto di aiutarci a trovare il tesoro del fiume. Io le avevo detto che il tesoro sono i pesci che peschiamo, ma lei voleva quello del re Ariperto. Poi abbiamo pescato lo storione fatato, e ti dico, è stata una fatica incredibile, ma lui in cambio della vita ci ha fatto pescare dei normali storioni che avevano ingoiato il tesoro del re, monete d’oro, pietre preziose… Ora mia moglie vive in un grande palazzo, con tanti servi e tanti bei vestiti e tutto quello che vuole…”

“E non è mai soddisfatta”. Finì per lui la fattucchiera con un sospiro. “Beh, non so se ti posso aiutare. Non riesco ad immaginare un solo suo desiderio che la renderebbe felice”.

“Ecco…” Picaldo era nervoso. “Di fatto ha espresso ancora un desiderio. Io le ho detto che è ridicolo, ma questa sua bella vita le è andata alla testa, e non ascolta più ragione…”

“Non l’ascoltava manco prima, a dire il vero” mormorò Pacoldo.

“Dimmi, dimmi,” disse la fattucchiera “sono curiosa”.

“Io no” fece Pacoldo “non voglio proprio sapere. Sono nauseato dall’intera faccenda”.

“Posso sussurrartelo nell’orecchio, Edburga?” chiese Picaldo.

“Vieni, vieni”.

Tutto impacciato per l’imbarazzo, Picaldo le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. La faccia della fattucchiera dapprima si fece scura e arrabbiata, poi si illuminò, e ridacchiò divertita.

“Che donna sorprendente! È riuscita a trovare l’unico desiderio che forse, forse, una volta realizzato la renderebbe felice. Certo, ci vorrà tempo. Ma tu, marito sciocco,” divenne d’un tratto seria e severa “dovrai smetterla di cercare di accontentarla di ora in poi. Chi viene accontentato non è mai contento, ricordatelo. Abbiamo un accordo”.

Picaldo annuì, solenne come un bambino sgridato (almeno, come un bambino sgridato dovrebbe essere, perché io non lo sono mai…)

“Bene” disse la fattucchiera, “allora, tornate al vostro bel palazzo signorile in città, ché il desiderio sarà esaudito”.

Quando i due fratelli se ne andarono, Quis aspettò un poco prima di seguirli, per tenerli a discreta distanza. Intanto la vecchietta si girò, e occhi bendati o no, sembrava che guardasse proprio lì dove stava Quis dietro un tronco d’albero.

“Vecchio amico, ben trovato” disse la fattucchiera.

Quis sorrise come se la conoscesse, e seguì i pescatori.

Presto i due fratelli arrivarono alla capanna. Accanto, la nuova casa di pietra era stata lasciata con i muri a metà.

 Andarono avanti, per tutta la lunga strada che passava in riva al Ticino, sotto San Salvatore e fino alle mura della città. Alla piccola Pusterla di Sant’Agnese entrarono e, passando per le viuzze più strette e deserte (secondo me non volevano farsi vedere con i vestiti vecchi e bagnati da pescatori) arrivarono infine a un palazzo meraviglioso, con i muri tutti rivestiti di stucco affrescato, i portoni decorati e dei servi armati che stavano di guardia.

Picaldo e Pacoldo si avvicinarono a una piccola porta di servizio, quasi nascosta sul retro dell’edificio. La, mi aspettavo di vedere la moglie ad aspettarli con ansia… macché! Aveva mandato un servo, vestito meglio lui che non i pescatori, ordinatissimo e precisissimo.

“La signora ordina che il pesce sia portato direttamente in cucina” disse loro, e con una mano si tappò il naso.

“Oggi non abbiamo un solo pesce” gli disse Pacoldo.

Il servo sembrava inorridito, ma proprio in quel momento scoppiò una confusione dietro l’angolo del palazzo, dove c’era la porta principale. Vedemmo soldati con spade e lance riempire la via. Quis e i due papà andarono a vedere, ma Pietro ed io avevamo paura, e rimanemmo nascosti dietro una fontanella. Ma sentivamo tutto.

“Questo palazzo è sotto sequestro, nel nome del re” disse un soldato.

“Ma come, sotto sequestro? Cosa sta a dire?” Era la moglie di Picaldo.

“È stato comprato con monete e gioielli appartenenti di diritto al tesoro reale. Sono stati esaminati, e non vi è ombra di dubbio. Tu, o donna presuntuosa, avresti dovuto dichiararli subito al Palazzo Regio. Invece li hai trafugati e utilizzati loscamente, per profitto personale. Se tu avessi dichiarato il tesoro ritrovato alle autorità, è probabile che ti avrebbero lasciato una moneta d’oro come ringraziamento. Ora come ora, sei tu che devi ringraziare il re e il Signore che ti sequestriamo solamente questo palazzo. Avresti potuto finire in cella, o peggio”.

“Ma… ma… non potete… com’è possibile?”

Presto la vedemmo apparire da dietro l’angolo, in mezzo a una scorta di soldati che la tenevano rudemente per le braccia rudemente, e sorridevano come se avessero preso un bambino con le mani dentro il sacco. E Quis non mancò di fare la sua morale..

Ma quale disastro le ambizioni!
Esce di scena, scortesemente scortata,

Sua superbia sgradevole sgretolata,
Per tornare alla più umile delle situazioni.

E sopra di noi sentimmo craaaaa, craaaaa. Il corvo ci aveva raggiunto…

Eravamo di nuovo al vecchio noce, accanto alla capanna dei pescatori, i nostri genitori e Quis dietro il muro, vicino alla finestra. I fratelli pescatori arrivarono, e la donna venne loro incontro alla porta. Ora non c’erano storioni, e al posto del bastone in spalla portavano una grossa cesta, piena di piccoli pesci, argentati dalla luce matutina.

“Alborelle” disse la moglie con disgusto, sbattendo le mani contro la sua veste di povera lana. “Beh, meglio di niente! Pulitene un po’ per il pranzo prima di andare al mercato”.

“No, cara” disse il marito, fermo. “Noi siamo stanchi, vogliamo un attimo di riposo. Li pulirai tu. E poi ne sceglierai i migliori, e li porterai dalla fattucchiera Edburga come regalo. Senza chiederle niente. Capito?”

Per un momento la moglie sembrò incredula, stava lì a bocca aperta, gli occhi spalancati, come se nessuno le avesse mai parlato così. Poi, vedendo l’espressione convinta del marito, scrollò le spalle e annuì, e si mise al lavoro.

Picaldo e Pacoldo andarono a riposarsi all’ombra della quercia dietro la capanna.

Un silenzio, poi Picaldo, scuotendo la testa con meraviglia: “Pensa un po’, fratello mio, tutto questo perché un giorno ti cascò dal cielo un lombrico tra le mani”.

“Già! Ma non credo capitò a caso. Ci sarà stato lo zampino della fattucchiera Edburga anche in quello”.

“Dici? Forse hai ragione”.

Ricadde il silenzio.

“Picaldo,” disse il fratello dopo un po’, “non ti ho più chiesto. Qual era il terzo desiderio di tua moglie?”

Il fratello rise.

“Sicuro che vuoi sapere questa volta?”

“Sicuro!”

“Ghertruda ha detto così: voglio vivere come fossi la regina Teodolinda! Anzi, no, voglio… voglio vivere come fossi l’imperatrice Teodora… No! Voglio vivere come fossi Dio stesso!” E Picaldo rise di nuovo. “Assurdo, ovvio. Chi è come dio?”

Pacoldo non rispose. Guardava la loro capanna.

E sentimmo per l’ultima volta il verso del corvo, e questa volta dietro le nostre spalle. Girandoci, lo vedemmo descrivere grandi cerchi nell’aria, e spargere una nebbia fitta, come nella viuzza di Pavia quell’altro corvo. Capii subito che dentro quella nebbia avremmo trovato la via per casa. Ma come entrare senza farci vedere dai papà? Dovevamo aspettare che entrassero prima loro, e poi entrare noi, e poi… come funzionava? Uno cercava la via nella nebbia? E poi? Ci rendemmo conto che non sapevamo davvero come fare. Solo non dovevamo perdere di vista i nostri papà!

Poi il mio cuore si gelò in un istante. Il corvo aveva lasciato di fare la nebbia, ed era venuto a posarsi sopra un ramo del noce, proprio sopra le nostre teste! E faceva craaa craaaa… ci guardava… Ci avrebbe fatto scoprire!

“Cosa vede là il tuo corvo, Quis?” Sentii chiedere mio papà. Ahi! Dovetti pensare veloce. Dalla tasca tirai fuori una noce, e la gettai per terra. Il corvo, magico o no, non seppe resistere alla tentazione, e ci si lanciò sopra…

“Aaah, ha trovato da mangiare”. Disse il papà di Pietro.

Il corvo posò la noce tra due radici dell’albero, e con un preciso colpo di becco ne spaccò il guscio. Assaggiò il gheriglio, ma lo sputò con un’espressione amara. Quis guardò il nostro nascondiglio, proprio come se ci vedesse attraverso l’albero, e commentò.

Si vede quella noce ha un pessimo gusto,
C’è stato un passaggio storto, se non ho torto,
E chi l’ha portata qui non ha fatto il giusto.

Pietro mi guardò impaurito. Sapevo benissimo cosa stava pensando. Avevo rubato quella noce dal povero, generoso fruttivendolo Anselmo… Come avrei potuto sapere che le creature magiche sono disgustate dal cibo rubato? Per fortuna, i nostri genitori stavano già entrando nella nebbia.

“Grazie, come sempre Quis” diceva papà “ancora due volte, e poi avremo finito la tua basilica. Speriamo di farcela in tempo”.

Non ne dubito, finirete quasi subito.

“Non oso pensare cosa succederebbe se non riuscissimo”. disse Matteo, con aria grave.

Abbiate fede, il lavoro ben procede.

Mio padre annuì. Poi, con un piccolo inchino, entrò a passo sicuro nella nebbia, con Matteo al suo fianco.

Saremmo corsi dentro anche noi, ma Quis, con il suo viso angelico e sorridente, teneva lo sguardo di nuovo fisso sul nostro nascondiglio.

Cari ragazzi, perché restate là?
Non aspetto qui per sgridarvi,
Quello tocca ai vostri papà,
Voglio solo vedervi e salutarvi.

Mentre parlava, il corvo spargi-nebbia si posò sulla sua spalla. A questo punto, non c’era altro da fare. Uscimmo da dietro il noce. Pietro era ben mortificato, io invece facevo finta di essere dispiaciuto. Inutile mentire: mi ero divertito un sacco!

Ma su, ma basta facce contrite,
Volevate stare coi papà, lo so bene,
Ma ora, attenti, la via non smarrite,
Andate, e niente paura per le pene!

E con la testa indicò la nebbia.

Pietro ed io ci scambiammo uno sguardo, e ci mettemmo a correre. Ma quando sentii il gelo e l’umido della nebbia in faccia, mi girai, e guardai Quis.

“Ma… chi sei tu?”

Ah! La domanda posta

È la sua stessa risposta.

Ovviamente, rimasi lì un attimo, confuso. Poi Pietro mi prese per il braccio.

“Forza, andiamo!”

Ed entrammo nella nebbia.

“Che cosa troveremo?” mi sussurrò Pietro.

“Non lo so…” dissi io “è la prima volta anche per me, sai. Proviamo ad andare avanti”.

A passo lento avanzammo nel bianco denso… per quanto tempo? Non vi saprei dire. Esattamente come quando ci eravamo trovati nella nebbia all’inizio dell’avventura, dentro quello strano luogo che mio padre aveva chiamato ‘il Ghastengarda’, e persi l’orientamento, nello spazio e nel tempo. Infine, Pietro disse esultante:

“Ciottoli! I ciottoli della strada!”

Sotto i piedi c’erano i sassi tondi delle strade di Pavia. Ma eravamo ancora immersi nella nebbia più densa di sempre, e non si vedeva nulla.

“Ora che facciamo?” chiese Pietro.

“Non lo so… Camminiamo,” dissi, “sperando che sia la direzione giusta”.

Uscimmo dalla nebbia dentro la stessa viuzza della mattina. In fondo all’angolo vedevamo la gente passare sulla via principale, ed erano persone che conoscevamo, vestite in modo normale. Che meraviglia! Che sollievo trovarci di nuovo a casa!

Ma c’era qualcosa che non tornava. La luce… era molto diversa… era già sera, quasi l’ora del coprifuoco. Ma quanto tempo eravamo rimasti dentro il mondo del racconto? Non ci fu tempo neanche per pensarci, perché quelle persone in fondo alla via stavano correndo, e stavano urlando:

“Soldati! Soldati alle porte! Soldati!”

Notes to Lopichis’ Spell

Lopichis’ Spell

The Context

This spell is based on a short episode in Paul the Deacon’s Historia Langobardorum, at the end of Book 4, Chapter 27. The main narrative at this point of the History tells of the sack of Forum Iulii (now Cividale del Friuli, at the foot of the Alps in north-eastern Italy) by the Avars (sometime in the early 600s, either 602, or 611, or somewhere in between, depending on which historian you read). It is a key moment in the main narrative of Langbard history because the future King Grimoald performs his first acts of heroism. Paul the Deacon’s own ancestor, Lopichis, was made prisoner during the sack and taken to the Avars’ lands in Pannonia, the old Roman Province corresponding, more or less, to Hungary today. Sometime later he managed to flee his captors and return to Italy, with supernatural aid. Paul inserts Lopichis’ story into the main narrative almost apologetically, and these two short pages are particularly dense in those little clues – such as the supernatural aid mentioned above – that show us (in my view) Paul is really abridging these stories, and removing or downplaying non-Christian elements that could jeopardize his conscience as a Benedictine Monk. How these can be interpreted is anybody’s guess – in this spell I have had my personal shot at it (notes on my specific interpretations below), but I do not presume to really know what such details meant to Paul or his family members. To my mind it was essential to ‘fill out’ these elements in order to create a complete and cohesive oral tale: the goal of this whole project.

The framing narrative – Arichis at Charlemagne’s Court

I could not assume the identity of Paul the Deacon as storyteller in my project, because he would have the same limitations in an oral setting as he has in a written context: not wanting to fully represent the pagan elements in his stories. But Paul had a brother, Arichis, whom he dearly loved (‘Arichis’ appears to be the Langbard equivalent of our ‘Henry’, and survived into medieval Italian as ‘Arrigo’ – now it has been replaced with ‘Enrico’). During Paul’s own lifetime, the Langbard kingdom was invaded by Charlemagne and his Franks in 774. Arichis took part in a rebellion against their new overlords, led by Rotgaud, the duke of Forum Iulii, which culminated in defeat at the Battle of Brenta in 776[1], when Arichis was taken prisoner and removed in bondage to the Frankish lands.

Thus, in a way suggested to me by the story of Marco Polo telling the story of his travels in prison in Genoa, Arichis is singing and speaking the spells of his people to listeners at the halls of Charlemagne where he is held in bondage. I imagine him held there in honour as a noble prisoner, and not relegated to some dungeon, and his listeners are curious courtiers, visitors, court functionaries, and so forth. The Frankish king and first Holy Roman Emperor, Charlemagne, is called Karol in the spell itself, which is what he probably called himself, and at this time (approximately 783 CE) he had not yet received the epithet ‘the Great’ and had not yet been crowned emperor.

Some years later, Paul the Deacon became one of the foremost scholars at Charlemagne’s court in Aquisgrana (now Aachen), and found time among his court duties to plead for his brother’s release in a moving poem composed in Latin. For the purposes of my narration, I have supposed that Paul also composed a variant of the poem as a song in the Frankish tongue, or at least, a Germanic dialect intelligible to them, in order to spread the sentiment of pity for his detained brother as widely as possible. You can find Paul’s poem in the original Latin below. My translation is a rather compressed form, as the latter part of the poem seemed to me to be partly redundant to the needs of a storyteller. Regarding the music: the starting point for the melody was the opening phrase of Vaughan Williams’ I have trod the upward and the downward slope, from his Songs of Travel song cycle on poems by Robert Louis Stevenson. I later developed the melody in a manner reminiscent of plainsong-inspired secular song. Why? Well, Paul the Deacon himself, as a monk, would have been most familiar with the genre that we call today ‘Gregorian Chant’, and I imagine this would have influenced his tastes as a composer of songs, too. Also, the song’s subject is sober and plaintive, with a suitable appeal to divine providence at the close, which also makes me think he would craft the music to be at least a little ‘holy’ sounding.

How did the Langbards and Franks (and Saxons and Bavarians, for that matter) speak to each other?

Of course, that two brothers from Friuli, in Italy, at one end of Charlemagne’s empire could make themselves understood at Aachen, at the other end of that empire, is far from obvious to us today. If you grow up in Cividale del Friuli, as Paul and Arichis’ home is now known, you may learn German, but you are just as likely to only speak Italian, and have no way of speaking with people in Aachen. You may have studied the common lingua franca – English – and be able to use that instead. What about 1,300 years ago?

Paul gives us a hint in the final chapter of Book I of his Historia:

But the name of Alboin was spread far and wide, so illustrious, that even up to this time his noble bearing and glory, the good fortune of his wars and his courage are celebrated, not only among the Bavarians and Saxons, but also among other men of the same tongue in their songs.[2]

In other words, both at the time of Alboin (this passage describes the 560s) and at the time of Paul’s writing (800 circa) the Langbards, Bavarians and Saxons, and others still, considered themselves to speak a single tongue, and shared a corpus of heroic songs. I’m no linguist, of course, but it seems Paul is saying that, to some degree at least, the divergence of many regional Germanic languages had not yet progressed so far as to make them mutually unintelligible.

Lopichis’ forebear Leupchis: a flashback to the invasion of Italy

Paul the Deacon justly begins his family tale with a flashback to the first of his ancestors to settle in the family home in the Duchy of Forum Iulii, a certain Leupchis. He refers to Leupchis and his family being among those fara (large kinship group? clan?) that settled Friuli with its first Langbard duke, Gisulf, at the time of Alboin’s invasion of Italy (568 CE). For this reason, I have fleshed out this flashback with an episode from earlier in Paul’s Historia, in Book II Chapter IX, describing how Alboin entrusted Friuli to Gisulf, his nephew and most trusted man, and Gisulf accepted on condition he could hand-pick the men who would remain with him. Thus, it is as though Paul is telling us that his ancestor Leupchis was a particularly worthy man.

Langbard Paganism?

Many of the Langbard Spells will be dealing with pagan elements and, in the earliest ones in chronological order, outright Germanic paganism. Unfortunately, I have very little to go by in trying to evoke a fleshed-out version of these pagan elements in my Spells. And yet, I believe it is necessary to do so in order to recreate at least the mood and overall effect of Langbard oral history, as it might have been. We really only have one overtly pagan story (Gambara’s Spell) and a large number of veiled hints in Paul the Deacon’s book. I have attempted to fuse these hints with Lombard, and Italian folklore in general, and with scholars’ ideas (still more confused than the original sources) of what early Germanic paganism might have been like, often based on archaeology and/or the Scandinavian sources like the Eddas. I make no pretence at reconstructing the real myths and beliefs of the early Langbards: that would be impossible, and futile. Nor am I interested in reconstructed Germanic Paganism as a religion. What I am attempting to do is recreate a belief framework that is at least plausible, rather than leave a gaping hole in the stories where superstitions, beliefs, myths, legends and religious ideas would once have been. I am not recreating an ancient belief system: for storytelling purposes I am creating a false one, based on faint hints left over by a real one.[3]

Lopichis’ birth: Norns, White Ladies, and Goldhorn

At the birth of Lopichis I have described a sort of ritual in which ‘soul-water’ is used to bathe the newborn baby’s feet, and in this moment a Norn spirit visits him, called Wulderada. What I mean by soul-water is later explained clearly in Gambara’s Spell. The Norns are minor female deities, best known from later Norse literature as the equivalent of the Three Fates of Greek mythology, although there are many more than three attested. What I am really referring to in my story, is an earlier manifestation of minor female deities in Germanic culture, the Matres and matrones (mothers and matrons), known by this Latin expression because they are only attested in archaeological remains. I am following the idea put forward by some scholars that the Norns are a later, literary manifestation of the same tradition. The concept is that a female spirit visits newborn babies, casting their fate from birth. I have imagined a Norn spirit called Wulderada, the hypothetical sister of the surely attested Wuldered, the Bowman. He is my version of Ullr, (rendered as Wuldor in English), whose name means ‘glory’, and who seems over time to have become a sort of winter deity in Scandinavia, wearing skis, for example. Interestingly, in the Poetic Edda he is reported living in a yew grove (appropriate for a bowman) in a way also reminiscent of the Greenman traditions. Later in Paul’s history, and in my Langbard Spells, we will meet a Bavarian queen called Walderada (also Valdrada), daughter of a Langbard king and the mother of the much more famous Theodolinda. I have supposed that her name is the Langbard form of Wuldered’s hypothetical sister. Wulderada in my spell is called the ‘mother of all help’ because Paul the Deacon says that Lopichis chose to escape captivity at the inspiration of the ‘Author of Mercy’ – clearly a reference to the Christian god or perhaps the Virgin Mary, but it made me think of the hypothetical Norn called Eir, and I chose to run her together with Wulderada in my story.

Regarding minor female deities like the Norns, a similar concept is found in folklore from the Alps above Paul’s home of Cividale del Friuli. Here, among the same mountains the Langbards passed through in order to reach Italy, we find the wonderful Slavic tale of Goldhorn[4], a pure white chamois buck with golden horns who guards a flock of pure white chamois does, which may only be milked by the White Ladies, beautiful white-haired and pagan mountain maids who help women birth babies and foretell the newborn’s future. Arichis speculates that the White Ladies are akin to the Norns (as speculated by modern scholars including Monika Kropej). In one variant of the story of Goldhorn, a young hunter whose fate is to try and win the hand of his love by hunting the magical chamois was visited by a White Lady at birth. In Lopichis’ Spell I have made the old Slavic woman referred to by Paul the Deacon, who nurses Lopichis back to health in the mountains, a White Lady. I am dealing with the story of Goldhorn in a fuller way in my children’s novel Quis, also published on this blog.

A love story, and an escape aided by two pagan deities

Paul does not tell us what Lopichis did in his life of bondage in Avar Pannonia. I have imagined that Lopichis is sold into bondage with a family of boatmen, whose work is to ferry people across a long lake, that they don’t wish to walk around. I know that the portion of Hungary/Croatia settled first by the Langbards and then by the Avars is a land of water, crossed by many rivers and punctuated by many lakes. I have not really chosen any particular lake for this story, the lake it refers to may even be a simple broadening out of a river that has since disappeared. Why did I imagine boatmen on a lake? Let’s see if I can map out the mental connection.

In Paul’s story of Lopichis, our young hero carries a bow and a quiver of arrows after escaping bondage in Pannonia. As you will see, this plays a particularly important role at the end of the tale. My thought was: how did he come to have this bow if he was an escaped prisoner? Knowing that the arrow was a symbol of freedom among the Langbards (more on this in Gambara’s Spell), I decided that he had not stolen, but won the bow and arrow as a token of freedom for some deed done. Thus Wulderada, the Norn who visits Lopichis at birth, foresees such trouble in his future that she calls upon her brother, Wuldered the Bowman to bless him, too. With his help, Lopichis will escape bondage in Pannonia. I was intrigued by the theory that Ullr/Wulder is a possible mythological character blended with the (historical?) figure of William Tell, that charismatic superhero of medieval folklore[5]. In the best-known version of the story, William Tell escapes bondage by being the only boatman capable of piloting his captor across a lake in a storm. Being a romantic at heart, I turned this into a love story reminiscent of Hero and Leander of Greek legend. Lopichis’ reward for taking his master across the lake in a storm is an arrow to symbolise his freedom and… a bow to go with it.

Why should the arrow symbolise his freedom? Well, as Paul the Deacon himself tells us at the beginning of Chapter 13 of Book 1:

            In order that they might increase the number of their warriors, confer liberty upon many whom they deliver from the yoke of bondage, a that the freedom of these may be regarded as established, they confirm it in their accustomed way by an arrow, uttering certain words of their country in confirmation of the fact.

This custom is also attested in the Edict of Rothari, of which later spells will speak. In short, it was the first formal writing-down of Langbard customs, ordered by King Rothari, with the help of the Eldermen of his people. It is explained that this ritual took place at a crossroads.

224 – On manumission

…The lord shall first hand the servant over to the hand of another freeman and confirm it by formal action. And the second man shall hand the servant over to a third in the same manner, ad the third shall hand him over to a fourth. And this fourth man shall lead him to a place where four roads meet and give him an arrow and whip, and say: “from these four roads you are free to choose where you wish to go”.[6]

Ah, if only lawmakers today were as poetic as Rothari’s Eldermen gathered in Pavia in the year 643! I like to imagine that the exact words uttered were in fact a short alliterative spell, and I will try to find an excuse to insert it into a future spell.

A half-remembered family song

A completely new element I have added to the story is the ‘Avar Boatman’s Song’, with made-up nonsense words. It comes out of the reflection that real families, like mine and yours, dear reader, do have these family legends passed down from generation to generation, and not only: we even have family songs. These may be little variants on well-known songs, variants arising, for example, from a child not being able to pronounce some of the words properly, or muddling up the meaning of a verse. In the case of my own family, we have a little song that probably comes from a Vaudeville show my great- (or great-great-?) grandmother saw, and remembered, and sang it to her children, and it has come down to us.

Tea now, for me now, me like-ee cup of tea!
Johnny Bully drink-ee beer,
Frenchie drink-ee wine so dear,
Chinaman no, he will ne’er do so,
Chinaman drink lots of lovely tea!

I wanted to enrich the sense of tradition in Paul and Arichis’ family with a half-remembered song Lopichis brought back from his time among the Avars, and settled on this melody, which I originally wrote years ago for theorbo while studying at the Conservatorium of Milan. I think it has a sea-chanty-esque feel…

The wolf and Tiuz, the Wolf-bitten

Easily the most-discussed element in Lopichis’ story as written by Paul the Deacon is the wolf that comes to his aid as he crosses the Alps in search of his home in Italy. It is a sublime moment of storytelling that unexpectedly rises into the near-mythical register. The reason why this is discussed a great deal is a little complicated, so I’ll try to break it down. The ancestral name of the Langbards upon leaving their homeland at the beginning of their migration-age saga was ‘Winniles’ (more on this in Gambara’s Spell). Some scholars have explained this name as meaning ‘war-dogs’, or ‘wild-dogs’ or ‘fighting-dogs’ or ‘glorious-dogs’. I’m no linguist, and I frankly wouldn’t know. What is clear to me is that the earliest tales of the Langbards feature a few episodes that quite rightly lead to speculation that the dog was in some way the totemic animal of the early Winniles. I will write more about this in the notes to Gambara’s Spell, which deals with the most important and most widely discussed episode among these. For now, suffice to say that I have supposed that the warrior-culture of the Langbards was, in its origins, associated with the god Tiuz (Tiwaz, Tiw, etc), later replaced as primary focus of worship by Odin (Wotan, Woden, and for the Langbards ‘Godan’). I have adopted the (much later attested) association of Tiuz with the wolf and the image of him as one-handed, with one of his hands bitten off by a wolf. Am I explicitly equating dog and wolf in Langbard mythology? Not quite. Perhaps there is some distinction, for example, wolf in war and dog in peace… but more on this in the notes to Gambara’s Spell, where the most telling episodes occur.[7]

The rose-bush, the Ash Tree, and Godan’s wisdom

There is no doubt in my mind that trees, and plants in general, played an important part in the belief system of the Langbards. Unfortunately, Paul himself, as usual, only drops obscure hints in this regard, and the most explicit of all references he makes to ‘tree magic’ is right here, in this tale about his family origins. When Lopichis finally returns to his family home in Forum Iulii, he finds it has become overgrown with brambles, and an ash tree has grown up through the roof. Anyone who has ever had any interest in Germanic mythology will immediately perk up their ears at the species of tree: Yggdrasill, the world tree… the wood used to make spears, the primary weapon of warriors and associated with Woden/Godan… Irminsul, the revered tree of the Saxons destroyed by Charlemagne… There can be no doubting its symbolism. It is, I think, no coincidence that this is the second moment in the family-history tale in which Paul’s narration rises to the mythic register, and it is exquisite.

            After some days he entered Italy and came to the house in which he had been born, which was so deserted that not only did it have no roof but it was full of brambles and thorns. And when he had cut them down he found within the walls a large ash-tree, and hung his quiver upon it. He was afterwards provided with gifts by his relatives and friends, and rebuilt his house and took a wife.

I don’t know about you, but that makes shivers run up my spine. “…and hung his quiver upon it.” In a single gesture, the adventure in the wild, with the bow and the wolf, is brought to a most significant ending, the weapon of his survival hung upon the most sacred tree in the world. Wow. And coming as it does after cutting through brambles and thorns… in the best tradition of Sleeping Beauty (is this the oldest Germanic version of the motif?)

I have elaborated a meaning for this extraordinary tale, that is suitable to our narrators, Paul and his brother Arichis: the wolf adventure elevated them to the rank of Hariman (warrior, chosen by Tiuz/Tiwaz), and the ash-tree marked them as Eldermen (keepers of the oral tradition, ‘long beards’ chosen by Godan/Woden). That is my interpretation, and I think it’s a damned good one.

For the curious, I wish to add two references to the plants above you may not be familiar with, being exceedingly obscure. I’m particularly proud of discovering the first, linked with tree-magic. In the 1570s, the great Carlo Borromeo, cardinal and later saint, partially in an effort to spare Milan the rigours of the Inquisition, clamped down on pagan rituals (so that the Inquisition would not have to do it for him, and in much less pleasant ways), including the planting of trees at crossroads at the calends of May.[8] To be sure, which kind of trees are not specified, but the place they are planted is, and it is the same significant place where the manumission of slaves and prisoners took place, the crossroads. To my mind, this place represented ‘the wide world’, and embraced all possibilities, in the Langbard imagination. Thus, the tree planted there may well have been, at least originally, an ash tree, the world-tree.

What about the rose bush? Paul the Deacon refers to brambles and thorns, which is not so specific. I have made it a rose bush on the strength of a very obscure text dealing with Langbard history, known as the Codex Gothanus, a 9th-century text written at Fulda, in modern day East Germany.[9] In it, the seeress Gambara (see Gambara’s Spell) proclaims that thorns will become roses, and with this vision in mind leads her people out of their ancient homeland of Scandan. Since Paul mentions thorns, I have decided they are roses, which completes the tie-in with Sleeping Beauty quite nicely (though I am aware that the rose-bush may be a late addition to the Sleeping Beauty story).

VERSUS PAULI AD REGEM PRECANDO.[10]
Verba tui famuli, rex summe, adtende serenus,
Respice et ad fletum cum pietate meum.
Sum miser, ut mereor, quantum vix ullus in orbe est;
Semper inest luctus tristis et hora mihi.
Septimus annus adest, ex quo nova causa dolores
Multiplices generat et mea corda quatit.
Captivus vestris extunc germanus in oris
Est meus, afflicto pectore, nudus, egens.
Illius in patria coniunx miseranda per omnes
Mendicat plateas ore tremente cibos.
Quattuor hac turpi natos sustentat ab arte,
Quos vix pannuciis praevalet illa tegi.
Est mihi, quae primis Christo sacrata sub annis
Excubat, egregia simplicitate soror:
Haec sub sorte pari luctum sine fine retentans
Privata est oculis iam prope flendo suis.
Quantulacumque fuit, direpta est nostra supellex,
Nec est, heu, miseris qui ferat ullus opem.
Coniunx est fratris rebus exclusa paternis,
Iamque sumus servis rusticitate pares.
Nobilitas periit miseris, accessit aegestas:
Debuimus, fateor, asperiora pati.
Sed miserere, potens rector, miserere, precamur,
Et tandem finem his pie pone malis.
Captivum patriae redde et civilibus arvis,
Cum modicis rebus culmina redde simul;
Mens nostra ut Christo laudes in secla frequentet,
Reddere qui solus praemia digna potest.


[1] Paolo Diacono, Profilo bio-bibliografico, Appunti delle lezioni del corso di Letteratura Latina Medievale (Modulo 2), Università degli Studi di Palermo – Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Triennale in Beni Culturali, Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Antichità, Anno accademico 2012-2013, (prof. Armando Bisanti)

[2] Alboin vero ita praeclarum longe lateque nomen percrebuit, ut hactenus etiam tam apud Baioariorum gentem quamque et Saxonum, sed et alios eiusdem linguae homines eius liberalitas et gloria bellorumque felicitas et virtus in eorum carminibus celebretur.

Paul the Deacon, Historia Langobardorum, Book I, Chapter XXVII. English translation by William Dudley Foulke (Ed. Edward Peters, University of Pennsylvania Press, 2003

[3] For an interesting and exhaustive discussion of Langbard belief systems and the difficulties in reconstructing them, see Gasparri, Stefano, La cultura tradizionale dei longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Fondazione CISAM, Spoleto 1983.

[4]

 KROPEJ, Monika. The Goldenhorn in Slovenian folk belief tradition. Cosmos, ISSN 0269-8773, 2011, 27, str. 31-60.

[5] Rochus von Liliencron, Historische Volkslieder der Deutschen, vol. 2 (1866), no. 147, cited by Rochholz (1877), p. 187; c.f. Bergier, p. 70–71.

[6] Translated by Katherine Fischer Drew, The Lombard Laws, The University of Pennsylvania Press, 1973.

[7] The best articles to read concerning the nexus Langbards/Winniles/wolf/dog are: Kemp Malone, “Agelmund and Lamicho” In his Studies in Heroic Legend and in Current Speech. Ed. by Stefán Einarsson and Norman Eliason. Copenhagen: Rosenkilde and Bagger. pp. 86-107. Orig. publ. 1926.; and Joseph Harris, “Myth and Literary History, two Germanic examples” in Oral Tradition, 19/1 (2004): 3-19. The former is the original conceptual work on the subject, dense and difficult, the second gives an easier to read summary of the conclusions of the former. Malone himself builds on Rudolf Much, “Der Germanische Osten in der Heldensage.” Zeitschrift für deutsches Altertum und deutsche Literatur, 57 (1920), 145-176.

[8] Stefano d’Amico, Spanish Milan: A City within the Empire, 1535-1706, 2012, Palgrave Macmillan, New York. See Chapter 4, The Second Rome.

[9] I have used the translation in appendix in William Dudley Foulke, History of the Lombards, (Ed. Edward Peters, University of Pennsylvania Press, 2003

[10] Archivio della Latinità Italiana del Medioevo, Carmina, resource/3472

Lopichis’ Spell