Quis – Capitolo 8

Ritorno nel Ghastengarda

Illustrazioni di Francesca Duo

“Ah, che nostalgia!” disse papà, stranamente allegro, quando partimmo la mattina seguente. “Mi ricorda le mie prime avventure con Quis, al fianco di mio padre, quando avevo la tua età…”.

Passammo di nuovo davanti alla bancarella di frutta secca del generoso Anselmo, che ci salutò caloroso, ma purtroppo papà non si fermò. Presto arrivammo alla stessa viuzza dell’altra volta. Questa volta scoprii un nuovo dettaglio: fu proprio papà a richiamare il corvo spargi-nebbia, con un piccolo rito strano. Prese uno scalpello e con grande cura lo mise orizzontale in equilibrio perfetto su un dito esteso della mano sinistra. Poi, con altrettanta cura, prese il martello e diede quattro colpi leggerissimi alla lama dello scalpello, con un ritmo particolare: ta ta TA ta.

“Ecco,” disse a me e Pietro, “serve farlo tre volte per chiamare Becherta”.

“Chi?”

“Il corvo”.

“Ah”.

“Fai tu il prossimo, Pietro?”

Mio cugino fece cenno di sì. Matteo lo aiutò a mettere lo scalpello in equilibrio sul dito e gli diede il martello.

“Tieni. Lo faccio con te” gli disse. Pietro tenne il martello e Matteo tenne la mano di Pietro dentro la sua mano molto più grande. Insieme, fecero ta ta TA ta.

“Bene,” disse papà, “ora tocca a Faro”.

“Posso farlo da solo, papà? Ce la faccio…” implorai.

“Se non ti viene bene…” papà era incerto, poi mi guardò negli occhi “va bene lo stesso. Provaci”.

“Grazie papà!”

Effettivamente ci misi un sacco di tempo a mettere lo scalpello in equilibrio e poi quando allungai la mano per il martello cadde, e dovetti ricominciare. Povero papà, era impazientissimo, si trattenne e non disse niente, lasciando mi fare. Dopo un po’ lo scalpello era messo bene.

“Bene, ora devi fare i colpi più leggero che puoi, altrimenti fai cadere di nuovo lo scalpello”.

“Va bene, papà”.

Concentratissimo, feci ta ta TA ta.

“Bravissimo!” dissero papà e Matteo insieme.

“Vedi? Te l’ho detto che ce l’avrei fatta…” e gli porsi gli attrezzi.

 “Ssst. Non lo senti?”

Restammo tutti in silenzio, e udii un rumore… un battito di ali. Come la prima volta, il corvo nero – Becherta – scese nella viuzza, e si posò su una trave per un attimo.

“Incredibile!” dissi, “ma papà, è così facile? Lo potrebbe fare chiunque. Non sarebbe poi un segreto”.

“Eh, no, Faro, innanzitutto non finisce qui. Ci sono ancora due prove da affrontare prima di entrare nel Ghastengarda. E poi, Becherta non viene per chiunque. Solo un capomastro che fa il ritmo con gli stessi attrezzi che userà per scolpire il racconto può chiamare il corvo del mondo dei racconti”.

Becherta lo guardò con un occhio nero, e mio papà fece un leggerissimo inchino.

“Papà, anche gli altri capomastri sanno del Ghastengarda?”

“Non tutti. Siamo in tre famiglie, ma facciamo i modelli per tutti. Altrimenti, come si potrebbe costruire tutta una basilica ricoperta di figure?”

Salutato mio padre, Becherta dispiegò nuovamente le ali e se ne andò su e giù spargendo nebbia, riempiendo pian piano tutto lo spazio di un grigiore fitto e misterioso. Poi, il corvo se ne volò dentro la nebbia, scomparendo.

Papà guardò severo me e Pietro.

“Ragazzi, c’è una promessa che mi dovete fare prima di entrare nella nebbia”.

Lo guardammo con serietà solenne.

“Dentro il mondo del racconto, dovete solo e soltanto guardare. Non dovete toccare nulla, non dovete fare nulla. Solo guardare. D’accordo?”

Facemmo entrambi un cenno di sì con la testa.

“Allora, seguiamo Becherta!” disse papà.

Come la prima volta, dentro la nebbia ci trovammo in una via diversa, strana, con muri liscissimi e coperti da simboli strani dipinti con colori vivaci. Camminammo un poco senza parlare. Guardavo i simboli e mi chiedevo cosa potessero significare. Papà si fermò davanti a una parete larga, con tanti disegni strani.

“Ecco” disse, “la prima prova. Dobbiamo capire qual è il simbolo giusto. Spiegò a me e Pietro. “Le ultime tre pietre per la facciata rappresenteranno le virtù della Fede, della Speranza e della Carità. L’altro giorno abbiamo visto il racconto della Fede, i pesci. Ci serve ora il racconto della Speranza. Secondo voi, quale immagine sarà? Posandoci sopra la mano, questi disegni aprono portali ai racconti, ma ce ne sono tanti. C’è un vero labirinto di racconti dietro questa parete. Non possiamo sbagliare…”

Matteo venne avanti.

“La spada di certo no, direi” disse, indicando un disegno senza toccare la parete. “Significa tutto tranne la speranza, nella mia esperienza. Ragazzi, voi che dite?”

Guardai tutti i disegni, ma non trovai la Speranza. Era più facile dire quello che non si doveva toccare.

“Nemmeno le monete d’oro, vero papà?”

“Mmmm…direi di no, Faro. Il denaro non è speranza, benché a volte gli sciocchi lo scambiano per essa. Certo, oggi il rebus è difficile. Certamente la speranza non sarà questo leone addormentato…”

“E nemmeno il drago rampante…” aggiunse Matteo.

“Non so, neanche questo pavone che beve da una coppa non mi sembra la Speranza…” feci io.

Fu Pietro che, senza dire una parola, indicò il disegno più piccolo di tutti.

“Cos’è, Pietro?” Fece Matteo.

“Non è un seme, papà? Può essere?”

Lo guardammo tutti. Era un seme.

“Si, si, sono d’accordo con te Pietro” disse papà. “È vero che è una cosa piccola, ma può diventare qualcosa di più grande. Secondo me, questo è il disegno che fa per noi. Matteo?”

“Si, d’accordo. Bravo Pietro.”

Papà mise una mano sulla spalla del piccolo cugino.

“Allora, ci posi la mano tu?”

Pietro mi guardò.

“Fallo tu, Pietro” dissi.

“Sicuro?”

“Certo.”

Posò la mano sopra il disegno e… la parete tutto attorno scomparì, al suo posto un’apertura completamente buia. Ora Pietro guardò mio papà un po’ spaventato.

“Tranquillo,” gli disse papà, “non ti farò entrare per primo. Vado io avanti, tuo padre per ultimo, va bene? Così voi ragazzi siete in mezzo, e non perdiamo nessuno.”

Dentro il buio per qualche tempo ancora non vedemmo niente. Andammo avanti a passo lento, con papà che ci incoraggiava.

“Forza, sempre avanti piano, vediamo quale scherzo ci fa Quis oggi. C’è ancora una prova.”

Presto però quel buio pesto cominciò a schiarirsi e andavamo verso una luce proprio come quella della viuzza di prima. Anzi, emergemmo proprio nella viuzza di prima, sempre piena di nebbia fitta.

“Non è che abbiamo sbagliato nel buio, e siamo tornati indietro?” chiese Matteo dietro di noi.

Papà non sembrava per niente sicuro.

“Possibile?”

Craaaaa, craaaaa.

Il corvo stava davanti a noi, in aria, in mezzo al grigio nulla… ma non batteva più le ali. Come faceva restare in aria? Papà ci fece avvicinare. Piano piano vedemmo che il corvo era posato sopra qualcosa… ma che cos’era non si vedeva per la nebbia. Piano piano, con passo felpato, io e Pietro ci avvicinammo. Ora il corvo si vedeva muovere… con un salto e due battiti di ali si spostò più in alto… ripeté il gesto una volta, poi un’altra… si stava arrampicando… in alto… verso una macchia di nebbia luminosa molto in alto. Non poteva essere altro che il sole… Becherta andava sempre più in alto, posandosi dopo ogni salto su… su che cosa?

Ci avvicinammo, fino a capire che era un… albero! Un albero lì, nella viuzza! Ma non un alberello sottile, come si piantano a maggio ai crocevia con tanto di musica e balli. Questo era un tasso… come dire, vasto. Ed era vecchio, anzi, era proprio antico. Spuntava dalla terra con un tronco larghissimo, non tondo e liscio ma tutto a nodi e a costole, e anche spazi vuoti, come se fossero più tronchi diventati uno. Si alzava verso il cielo con rami curvi, intrecciati, ognuno spesso quanto un uomo cresciuto.

Aspetta… ma… la viuzza… non era stretta? Come poteva starci dentro un albero così enorme?

Ecco, quasi non c’eravamo accorti, ma in quella nebbia magica i muri dei palazzi non erano scomparsi soltanto dalla vista: erano proprio scomparsi del tutto. Voglio dire, completamente! Non c’erano più. Neanche un mattone. I palazzi erano scomparsi. La città non c’era più. In tutta quella nebbia c’eravamo solo noi, l’albero e Becherta.

Papà sospirò profondamente. Sapevo a cosa stava pensando: il corvo era tanto, ma tanto in alto.

“Niente,” disse lui, “mi sa che dobbiamo seguirlo… fin lassù…”

Per primo andava arrampicandosi mio papà, gli occhi chiusi stretti, sudore freddo sulla fronte e la faccia sbiancata per le vertigini. Poi seguivamo noi ragazzi, e poi Matteo seguiva più in basso, guardando su per vedere dove andava mio papà, e dicendogli come mettere mani e piedi.

“Forza, Faramundo,” diceva, “un po’ a destra… stendi il braccio di più… si, va bene, prendi quel ramo. Ora alza il piede sinistro…” e avanti così.

Che bel disegno che saremmo stati! Tutti ad arrampicarsi verso il sole, seguendo un uomo con gli occhi chiusi, sull’albero più grande del mondo.

A proposito, vi ricordate che ogni ramo dell’albero era spesso come il torso d’un uomo cresciuto? Ecco, per una strana magia quando toccava a noi più piccoli salire per gli stessi rami, erano grossi soltanto quanto i nostri corpi. E come se non bastasse, i rami che prima sembravano tanto lontani l’uno dall’altro, ora erano abbastanza vicini perché un ragazzo potesse raggiungere sempre il prossimo appiglio per arrampicarsi. Visto? Il Ghastengarda è così.

Quando papà raggiunse il ramo, altissimamente in alto, dove Becherta si era fermato, dalla nebbia attorno si sentì quella voce chiara e squillante che oramai conoscevamo.

La nebbia avvolge le verdi foglie
I rami, il tronco, la terra stessa
Densa e bianca, soffice accoglie,
Di un sole nascosto luce riflessa.
Figli di scultori,
E padri lor tutori,
Allungate la mano

Afferrate quel bagliore lontano!

“Quis!” disse papà. “Vuole che noi afferriamo… ho capito bene, ragazzi, vuole che afferriamo il sole?”

“Non è possibile!” disse Pietro. Fui fiero di lui, qualche tempo prima sarebbe rimasto zitto per paura di dire la cosa sbagliata. Si stava sciogliendo un po’, nella nostra compagnia.

“Afferrarlo? Non si vede nemmeno!” dissi io per sostenere Pietro. “Ci credo solo se lo vedo.”

Per la grande sorpresa di noi ragazzi, mio padre e Matteo risposero con le stesse parole allo stesso tempo:

“Se credi soltanto a quello che vedi, vedrai soltanto quello in cui credi.”

Furono sorpresi anche loro. Papà addirittura aprì gli occhi e guardo in giù verso il cugino, poi li chiuse di nuovo in fretta, barcollando sul ramo.

“Me lo diceva sempre il nonno,” disse papà, intendendo suo nonno, mio bisnonno.

“Non l’ho mai conosciuto,” Matteo rise, “lo diceva sempre mio papà.”

Mio padre sorrise, con aria nostalgica. “Lo zio Ricciardo… Va bene,” disse papà, “è sempre così: quando Quis mi chiede l’impossibile, chiudo gli occhi e penso al vecchio nonno, e ci provo.”

Allungò la mano destra più in alto possibile, verso il cuore luminoso della macchia dorata di nebbia sopra di noi.

“Sento qualcosa…”

Lasciò la presa sull’albero con l’altra mano, e si sporse completamente dal ramo. Con un grugnito per lo sforzo, si tirò su di peso e… scomparve nella nebbia. Per fortuna non caddi giù per la sorpresa, com’era successo la mia prima volta nel Ghastengarda.

“Forza, Faro e Pietro,” disse Matteo dal suo ramo più in basso, “anche voi adesso.”

Ci arrampicammo fin sul ramo dove Becherta stava, posato e tranquillo a guardarci, e anche noi allungammo la mano verso il sole nascosto. Sentii qualcosa di duro, rigido e fermo, dal tocco simile ai rami dello stesso albero. L’afferrai anche con l’altra mano, e mi tirai su…

…e mi ritrovai appeso a un ramo di albero. Un altro albero di tasso, più piccolo, più normale, e non più nella nebbia, ma al sole. O meglio, la luce del sole che attraversa le foglie di un bosco, tutta screziata e verdastra. Perché questo albero non era solitario, ma parte di una grande foresta. Mi sistemai comodo sul ramo, e mi guardai attorno. Papà stava più fermo possibile, occhi sempre chiusi, su un altro ramo vicino. Pietro era al mio fianco sullo stesso ramo. Sentimmo un fruscio di foglie sotto: era apparso pure Matteo.

“Siamo tutti qui?” fece papà.

“Tutti” disse Matteo.

“Benissimo, questo è il mondo del racconto. Ma dov’è Quis? Guardate in giro, voi che potete.”

Subito, giunse la voce di Quis da sotto.

Ecco, quaggiù mi trovate
Se lo sguardo abbassate.

E infatti il ragazzo dal viso angelico stava seduto su una radice sporgente dal terreno?? del nostro albero.

“Scendiamo da te, buon Quis?” chiese papà.

Venite, arriva una mia conoscente,
Che pronuncia la sorte di ogni nascente.
Il tempo preme, conosceremo insieme
L’eroe e il seme del racconto e della speme.

“Va bene, Quis” disse papà. “Soltanto che, io ci metterò un po’ di tempo, sai com’è. Ragazzi, mi aiutate voi a scendere?”

Con tanto di “un po’ più a destra, papà” e “un po’ più giù,” e “abbassa la gamba destra” e “no, no, un po’ su a sinistra” riuscimmo pian piano ad aiutarlo a scendere dall’albero. Toccando il suolo, mi accorsi per la prima volta che la terra sotto l’albero non era piana, ma in pendenza… eravamo in montagna! E ciò significava che non eravamo certo vicino a Pavia, circondata com’è da una vasta pianura. Ma che meraviglia! Fino a quel momento avevo dato per scontato che la magia del Ghastengarda era comunque confinata alla mia città…

Quis ci osservava sorridente e forse un poco impaziente.

Nell’attesa distesa della vostra discesa,
è salita spedita la persona avvertita.

E di fatto una giovane donna stava salendo tra gli alberi e piccoli cespugli, un copricapo di stoffa bianca in testa. Sul sentiero appena sotto di noi, si fermò, guardò Quis, a cui fece/che le fece un piccolo cenno rispettoso con la testa, come per dargli il benvenuto. Capii che i due si conoscevano già. Poi, senza dire parola, la giovane donna proseguì sul sentiero, e Quis ci fece cenno di seguirla. Sempre un po’ a distanza e senza parlare, camminammo nelle orme della donna fino a quando il bosco si aprì in una piccola radura, rivelando un panorama che mi tolse il fiato. Sotto di noi si vedevano chiaramente una serie di grandi massi grigi, ciascuno grande come una capanna, e sotto ancora il fianco verde e spiovente della montagna che si stendeva fino al fondo nascosto di una profonda valle. Ma la cosa più sbalorditiva era vedere un’altra montagna direttamente davanti a noi: svettava maestosa al sole, tutta scintillante di neve e ghiaccio, una cosa mai vista per noi ragazzi delle città di pianura. Da Pavia, nelle giornate più limpide, si vedono i picchi delle Alpi in lontananza, ma fino ad allora mi ero soltanto immaginato cosa si potesse provare a essere in mezzo a simili giganti rocciosi. Pietro era rimasto di stucco come me, e perfino Matteo. E papà? Chissà quante cose splendide aveva visto dentro il Ghastengarda… eppure rimase a bocca aperta davanti a tale splendore. Quis era deliziato dalla nostra reazione.

Che gioia fare vedere a nuovi amici
Un mondo di meraviglie incantatrici!

La giovane donna stava andando… dove? Non l’avevo notato a prima vista, ma c’era un piccolo villaggio nascosto fra i massi grigi sotto la radura. Fumo saliva dai tetti di paglia di una manciata di casette costruite in pietra grezza con tanta cura da essere perfettamente tondi (i tetti?). Infatti, si confondevano con i massi, e sembravano propaggini della roccia viva della montagna stessa. Bambini vestiti di lino grezzo giocavano per terra con dei cani, e capretti salterellavano attorno a una pila di fieno. Una signora corse incontro alla giovane donna.

“Dama Bianca, ringrazio il cielo che sei qui. Presto, presto…”

“Tua sorella partorisce” disse la giovane. La signora sgranò gli occhi.

“Ma come fai a saper…? Oh. Ah, si. Certo.”

“Non stare lì sbalordita. Portami da lei.”

“Si, si, presto, di qua.”

Entrarono in una casa al confine tra il villaggio e il bosco. Una piccola folla si era creata attorno, tra bambini i paesani, che guardavano curiosi la Dama Bianca. Prima di entrare in casa, si tolse il copricapo. I suoi capelli erano bianchi. Non il bianco di un anziano… è difficile spiegare, erano di un bianco folto e rigoglioso, quasi lucevano. Ci fu un sussulto di stupore tra tutti.

La Dama Bianca era entrata da poco tempo quando uscì un uomo, sicuramente il padre del nascituro perché cominciò a dare ordini ai bambini attorno alla porta, dicendo: “La Dama porterà alla luce vostro fratello, non serve stare qui incantati. Tu puoi spaccare la legna, tu puoi fare il fuoco, tu puoi prendere acqua dal ruscello… tu puoi fare erba per i conigli, tu puoi prendere le uova… e tu, piccolo, puoi venire con me.”

I fratellini erano ben sei, tutti dai capelli rossicci e riccioluti, e tutti maschi! Mentre si davano da fare, ogni tanto si fermarono e guardarono verso casa, gli occhi grandi e tondi, quando si sentì la loro mamma gridare per il dolore.

“Papà,” sussurrai, “anche la mamma griderà così quando nascerà il fratellino?”

“Il fratellino o la sorellina…” mi corresse con un sorriso, “certo,” mi mise un braccio attorno alle spalle, “ma tranquillo, è normale. Se questa signora ha già sei figli, vedrai che non ci vorrà molto tempo.”

Detto fatto. Presto, le grida tacquero, e dopo un altro po’ la Dama Bianca emerse dalla porta della casa, asciugandosi le mani sul grembiule. Si sistemò i capelli, e rimise il copricapo. La folla di paesani si era riformata, ma questa volta a una discreta distanza: guardarono la Dama con profondo rispetto. Il padre si avvicinò, il figlioletto più piccolo a suo fianco con un cestino pieno di tortine in mano.

“Ma grazie, piccolo,” disse la Dama Bianca, abbassandosi con un sorriso. Non mi ero accorto prima, era davvero tanto bella. Strana, con i capelli bianchi e occhi color ghiaccio, ma bella. “Tu hai un nuovo fratello. Non sei più il bambino della famiglia, adesso sei uno dei grandi.”

Il piccolo fece una risatina felice, e le porse il cestino. Lei lo prese, e gli dette un bacino sulla guancia. Alzandosi, la Dama Bianca parlò con il padre.

“Anche tu hai sei fratelli maggiori, tutti maschi, non è vero?”

Il padre annuì, solenne.

“Allora,” disse lei, “non dubito più di quel che ho visto. Un giorno, tuo figlio nato oggi conoscerà la montagna meglio di chiunque altro, meglio ancora dei nostri camosci bianchi. Sarà un cacciatore famoso, un arciere senza pari. Sarà colui che colpirà con il suo arco il possente camoscio bianco, Corna d’Oro… e porterà nella Valle del Soča il suo tesoro.”

Il padre aveva incominciato a sorridere per la contentezza, sentendosi raccontare il prodigioso talento futuro del neonato. Ma queste ultime parole gli congelarono il sorriso sulle labbra, e tra la gente del villaggio ci fu dapprima un silenzio stupefatto, e poi un sussurro, un mormorio, “Corna d’Oro! Il tesoro di Corna d’Oro! Nessuno ha mai osato… Nessuno ha mai sperato…”

Quis – Capitolo 7

Il profeta

Illustrazioni di Francesca Duo

Arrivati alla basilica, avevamo un solo pensiero: il vuoto dentro le nostre pance. Tirai la tunica di Matteo.

“Cugino Matteo, la mamma ha dato il pranzo a te, vero?”

“Cosa? Oh, ah… sì. Un attimo, l’ho lasciato al nuovo concio”.

“Dai, veniamo con te. Ho tanta voglia di vederlo”.

“Anch’io” disse Pietro.

“Va bene, venite”.

Dopo un po’ di pane e castagne, tutto il mondo sembrava più bello, e con Pietro guardammo bene il blocco di pietra. Certo, il lavoro era ancora all’inizio, ma già si vedeva a grandi linee la scena che papà e Matteo andavano scolpendo: i fratelli pescatori con i quattro storioni appesi a un lungo bastone portato in spalla.

“Il pesce” diceva Matteo con aria da catechista, “è un antichissimo simbolo della fede cristiana, sin dai tempi dei martiri. Come ben saprai, il nostro Signore disse ai suoi discepoli di seguirlo, promettendo di farli diventare pescatori di uomini”. Secondo voi, cosa voleva dire con questa frase?”

Povero Matteo, ancora non mi conosceva bene.

“Da quelle parti c’erano uomini che vivevano nel mare come pesci?” chiesi con finta meraviglia.

Al posto di Matteo, papà avrebbe sospirato rassegnato, ma suo cugino mi guardò sconcertato.

“No… non è proprio quello…”

“O forse c’erano degli uomini che mangiavano vermi, come i pesci” aggiunsi io. Poi guardando il concio: “peccato non c’è il verme”.

“Come?” Matteo sbatté le palpebre, confuso.

“Il verme fatto dalla strega con il capello della donna”.

“Oh!” batté le palpebre e scosse la testa, probabilmente per togliere dalla mente l’immagine di uomini che vivono nel mare e mangiano vermi. “Vero, mi ero dimenticato. Ma… conoscevi già la storia allora?”

“Cosa?”

“Non l’ho detto ieri sera, mi è sfuggito. Te l’aveva già raccontato qualche altra volta tuo papà?”

“Oh, ah…” maledizione, non fui veloce abbastanza a riprendermi dalla sorpresa, e Pietro, quel dolce, mite, onesto ragazzo, ebbe il tempo di reagire. Sbiancò in faccia e quella sua mano sinistra si mise a tremare. Suo padre, riconoscendo questi segni, capì che qualcosa non andava, e si fece tutto severo. Beh, rispetto a mio papà o mia mamma, non era poi tanto severo, ma per intimidire Pietro bastò.

“Che cosa è successo, Pietro? Io ti conosco, mi stai nascondendo qualcosa”.

E Pietro, incapace di mentire com’era, confessò tutto.

“Eravamo con voi tutto il giorno ieri… vi abbiamo seguito di nascosto… Siamo entrati anche noi dentro… dentro quella nebbia strana… dove c’era il corvo, e poi l’altro corvo, e la barca nel buio… come si chiamava, il Ghastengarda…”

Io intanto nascosi la faccia fra le mani.

Matteo avrebbe dovuto punirci, o quantomeno farci una bella sgridata, ma tutto sommato non poteva fare più di tanto, lì per lì: non sapendo quante persone al cantiere erano a conoscenza del segreto del Ghastengarda, non poteva certo urlarci dietro. Non ci diede nemmeno delle sonore bastonate, pensando che qualcuno gli avrebbe chiesto perché (e nel caso di Pietro aveva ragione, ma nel mio caso nessuno lo avrebbe notato, abituati com’erano a vedermi prendere le bastonate). Così, ci riprese severamente ma sottovoce, e ci rimandò dal maestro per finire la scuola. Da parte mia, riuscivo a concentrarmi, ma Pietro accanto a me era agitatissimo.

“Pietro, che cos’hai?” Gli sussurrai quando il maestro era distratto.

“Ho paura di quel che dirà tuo padre. Lui mi spaventa”.

“Ma no, dai, fa scena di essere severo, ma sotto sotto è buono”. Lo rassicurai, ma non fece grande effetto. La sua mano continuava a tremare di tanto in tanto, e le sue lettere incise nella sabbia erano tutte storte.

Quando papà tornò, accompagnava sempre l’ambasciatore dei milanesi e i suoi cavalieri. Il nobile milanese, Ugo de’ Visconti, gli stava dicendo:

“…davvero, tu e tutta la tua famiglia, insisto. Mi è evidente che, per quanto non sia ancora convinto del messaggio che io desidero diffondere venendo qui, ti comporti con grande integrità, insistendo con i tuoi concittadini affinché mi diano ascolto rispettoso, nonostante la tragica inimicizia trascorsa in passato tra le nostre due città”.

Mah! Voglio dire, non sapeva parlare semplice questo milanese?

“Ti ringrazio” fece papà imbarazzato “ma noi siamo gente semplice…”

“Insisto, davvero. Dopo essere stato immerso una giornata intera nella complessità dell’assemblea, mastro Faramundo, la compagnia della gente semplice mi aiuterà a tenere a bada i pensieri cupi”.

Papà sospirò, ma dalla sua espressione capii che, qualunque cosa gli stava offrendo il nobile, sotto sotto voleva tanto accettare.

“E va bene, verremo”.

“Ne sono davvero rallegrato. Manderò il mio paggio per tutte le compere del caso. Sarà una serata modesta, ma festosa”.

Quando i cavalieri se n’erano rientrati nella casa canonica, il viso di papà s’illuminò con un ampio sorriso, e mi diede una pacca sulla spalla.

“La mamma stasera mangia carne, Faro, mangia carne! Ringraziamo il cielo, saranno settimane ormai. Povera donna, che lavora tutto il giorno, incinta…”

“Ah… non ho capito papà”.

“La nostra famiglia è invitata a mangiare con l’ambasciatore e i suoi cavalieri nella casa canonica stasera. Si vede che piaccio a questo Ugo de’ Visconti”. Guardò Matteo un po’ incerto. “Non ho cercato mai di piacergli, ho solo fatto il mio dovere.”

“Per questo gli piaci” disse Matteo “durante l’assedio di Tortona si è mostrato un uomo retto, onesto, anche generoso. E per mostrare queste qualità, di questi tempi difficili, serve prima ancora essere coraggioso. È forse l’unico milanese di cui mi fiderei”.

“Ne sono tanto felice”. L’umore di papà era veramente ottimo. Peccato che si doveva rovinare subito.

“Cugino,” esordì Matteo “purtroppo ti devo dire una cosa un po’ meno felice. Questi nostri figli hanno combinato una birbonata ieri, e l’ho scoperto per caso stamattina”.

Papà divenne subito iroso e rosso in faccia, e guardava me. Voglio dire, perché? Matteo aveva detto questi nostri figli e non questo tuo figlio. Eppure, lui guardò solo me. Che ingiustizia!

“Ci hanno seguiti” diceva Matteo, “dentro il Ghastengarda. Pare che abbiano visto tutto. Quis, i pescatori, la fattucchiera, lo storione stregato, tutto”.

L’ira di papà raddoppiò e da rosso la sua faccia divenne porpora. Eravamo pur sempre nel bel mezzo del cantiere, e non poteva gridare molto forte, ma compensò alla grande con le minacce sibilate.

“E pensare che tua madre vuole convincermi di portarti con me nei viaggi… Ti farà tanto male il sedere che non ti potrai sedere più per un mese! E poi ti…”

…quando Pietro, pallido e rigido tranne la solita mano sinistra tremolante, lo interruppe:

“Signor Faramundo, per favore, è stata la mia idea”.

Silenzio.

Tutt’e tre lo guardammo stupefatti. Poi, ricordando la mattina precedente, dissi:

“Beh, effettivamente lui…”

“Zitto tu!” papà teneva gli occhi su Pietro, e chiese con voce più mite: “Che cosa intendi, piccolo cugino?”

“Io ho detto a Faro più volte, voglio andare con mio papà, voglio andare con mio papà… non volevo stare senza lui, sapete, mi sento tanto solo qui, non conosco nessuno, e… e poi… è mio papà e voglio stare con lui…”

Cavoli! Pensai. Che ragazzo garbato che è mio cuginetto. Da parte sua, papà era rimasto senza parole, anzi, si era un po’ commosso, stava cercando di nascondere gli occhi umidi sbattendo le palpebre come se un moscerino gli fosse andato nell’occhio. Ebbi allora il tempo di chiedermi: Ammetto che è stata però la mia idea di seguirli, o sto zitto? Ero in conflitto con me stesso. Dai, Faro, non dire niente, Pietro ti sta coprendo benissimo. Tanto, a lui non succederà niente. Non lo puniranno mai. Stai zitto e tutto va benone…

Nonostante quella voce cinica dentro me, con grande meraviglia mi sentì dire: “Papà, quello che dice Pietro è vero. Ma sono stato io a dire di seguirvi di nascosto”.

Ma sante nespole! Ma quale cattiva influenza era questo cugino su di me? Forse per la prima volta in vita mia avevo ammesso una mia colpa senza necessità. Brutta, bruttissima piega questa.

Gli occhi di papà, intanto, si erano asciugati in fretta e la rabbia tornata, anche se meglio controllata di prima.

“Adesso ti dico cosa succede, Faroaldo. Tra un giorno o due io e il papà di Pietro dobbiamo tornare nel Ghastengarda. Abbiamo pochissimo tempo per completare la facciata, e dopo questo rimangono altre due sculture. Ciò significa altri due viaggi con Quis. Ora, ti dico una cosa: il nonno mi portò con lui nel Ghastengarda per la prima volta quando avevo più o meno la tua età. Ma io ero un ragazzo serio, non un piantagrane nato come te. Perciò la prossima volta Pietro verrà con noi, e tu rimarrai qui. Per punizione”.

Per fortuna c’è la mamma. Non perché sia meno severa di papà. Vi dico la verità, quando si arrabbia lei mi fa ancora più paura di papà, anche senza alzare la voce. E filo dritto come non mai. Ma la mamma è più saggia. Durante la cena quella sera, nella casa canonica assieme a Ugo de’ Visconti e i suoi cavalieri, io facevo finta di ascoltare uno dei paggetti milanesi, Tebaldo, che parlava con un gruppetto dei suoi simili, ma in realtà stavo origliando quello che dicevano i miei genitori. Non era facile affatto, in mezzo a tutti i rumori della festa: le chiacchierate e le risate, la musica del liuto di un altro paggio, e i passi di chi ballava. Non ero mai stato a una festa, ed ero affascinato dall’atmosfera colorata, gaia, e dalla ricchezza della compagnia. Ma ero ancora più interessato a capire cosa dicessero i miei.

“…è per il suo bene”. Era papà. “Prima o poi deve imparare a controllarsi”. Era stranissimo vederlo con un calice in mano e non una scodella di creta. “Il bambino è troppo irresponsabile. Lascia stare il Ghastengarda, hai saputo cosa mi ha combinato ieri al fiume? Non vedi come Pietro si comporta in modo diverso?”

“Faro non è più un bambino”. La mamma ribatté. “E come potrà mai a diventare più responsabile se non gli diamo responsabilità? Dovresti portartelo. È ora che impari. Tanto, i due ragazzi sono già entrati una volta, il segreto lo conoscono. E non è giusto punire solo Faro e non Pietro, erano insieme”.

Papà fece una faccia scura, ma non seppe rispondere. Dopo un po’ disse: “Il Ghastengarda può essere pericoloso”.

“Esatto. Meglio che entrino sotto i tuoi occhi, e non di nascosto. Gli poteva succedere qualunque cosa”.

Papà sospirò, esasperato. Vide quanto era inutile andare avanti così, e si arrese.

“Va bene, va bene. Lo porterò con me. Ora, prendi ancora un po’ di coniglio, mangia la carne finché siamo qui…”

Da parte mia, non so come ho fatto a non urlare per la gioia. Sarei tornato nel Ghastengarda! Favoloso! Papà aggiunse: “A Gisi non diciamo nulla però. Con la testa che ha, vorrà venire pure lei”.

“No no,” disse la mamma, “la Gisi sta a casa con me. Ho bisogno”.

Guardai mia sorella che giocava con la nipote del canonico. Per fortuna aveva trovato una compagna della sua età, altrimenti si sarebbe appiccicata a me quella sera. Tutta fiera e compiaciuta, raccontava all’amica come si era presentata in cantiere al pomeriggio per affrontare Gherardo davanti a tutti i ragazzi, e lui, a denti stretti e assai a malincuore, le aveva chiesto scusa per averla chiamata papera e per aver minacciato di tirarle il collo. Certo, lei non disse che era accaduto tutto grazie a me, ma dalla mia peste di una sorellina non mi aspettavo altro.

Sentì una mano sulla spalla.

“Ehi, tu, ragazzo!” Era Tebaldo, il paggio milanese che facevo finta di ascoltare.

“Scusami?” dissi, “Non ho sentito bene”.

“Una cotta di maglia, dico, l’hai mai vista?” Stava raccontando come i paggi e gli scudieri preparano i loro cavalieri per la battaglia.

“Um, una cotta di maglia? No, no, mai”.

“È pesantissima, ma io riesco ad alzarla. Per chiuderla devo fare tanti nodi dietro la schiena e alle spalle, con lacci di cuoio. Poi viene la sopravveste, poi le cinture per le armi…”

“Sono qua, le armi?” Ero curioso. “Non ho mai visto da vicino la spada di un cavaliere, o lo scudo…”

“Maledizione, no. La sera che siamo entrati in Pavia le abbiamo dovuto deporre alla porta, altrimenti non ci facevano entrare. Non volevamo. Ragazzo, non sai quanto costano, quanto una casa! Ma non c’era altro modo, e il signor Ugo ha insistito che rispettassimo tutti la legge della città. Allora, abbiamo lasciato tutto ai guardiani delle porte”. Con una faccia brutta agitò un pugno. “Dico io, se quei mascalzoni ci rubano qualcosa…”

“Ehilà, Tebaldo,” arrivò il paggio che fino allora aveva suonato il liuto per chi voleva ballare,” tocca a te, ho le dita tutte dolenti”.

“Ma non ho finito di mangiare”.

“E io non ho iniziato… a mangiare. Ti pare giusto? Tocca a te suonare ora”.

“Va bene, va bene, dammi qua il liuto”.

Tebaldo prese lo strumento e si sedette sullo sgabello lasciato libero dal compagno. Sin dalla prima carezza delle sue dita sulle corde dello strumento si capiva che sapeva il fatto suo.

L’altro paggio soffiò leggero sulle dita arrossite e scosse la testa. “Tebaldo! Tanto è fine la sua musica, quanto è rozza la persona”. Poi mi si presentò. “Io sono Arvino, al servizio del signor Ugo de’ Visconti. Tu sei Faroaldo, non è vero?” Conosceva il mio nome! “Tu sei il figlio del capo dei capomastri”.

“Oh, beh, non proprio. Voglio dire, sono suo figlio sì, ma lui non è il capo. È solo il rappresentante in comune. Rappresentante del paratico, intendo. Tra un anno non lo sarà più”. Lo guardai più attento. “Come fai a sapere il mio nome?”

“Il mio signore parla tanto di voi. È stato tuo padre a convincere l’assemblea ad accoglierci qui in città, anche se siamo nemici milanesi.” Arvino era alto, aveva forse due anni più di me, e ai miei occhi un aspetto già un po’ da signore.

“Oh, non saprei,” feci spallucce, “può darsi”.

Passava un servitore con un vassoio colmo di dolcetti al miele. Ne presi due, poi non ero sicuro che bastavano, e ne presi un altro.

“È difficile il vostro mestiere?” Chiese Arvino, interessato. “Hai portato lo scalpello per caso?”

“Mmmm…” Avevo la bocca piena. “Mi spiace… mmmm…. abbiamo lasciato tutti gli attrezzi… a casa”.

“Peccato, volevo vederlo. Ma sei già in grado di fare… non lo so, un capitello…?”

“Chi, io da solo? No, no, no… Ancora noi levighiamo. Voglio dire, lisciamo le cose che hanno fatto i nostri padri. Ma prima di arrivare a modellare la pietra, si comincia dalla cera, dai modellini che usiamo fare prima di realizzare i conci veri. Io sarei capace di fare un modellino, ma papà non mi lascia fare. Dice che sono troppo piccolo e irresponsabile.”

“Davvero? A me non sembra”. Arvino era molto gentile.

“Beh, forse stavo facendo progressi, e poi è arrivato mio cugino da Tortona, così serio e responsabile, mi mette un po’ in ombra, se sai cosa intendo”. Feci un cenno a Pietro, che stava seduto accanto a Matteo, che parlava con Ugo de’ Visconti.

“Già, il ragazzo che c’era a Tortona. Siete cugini?”

“Esatto. Non che non gli voglio bene,” lo assicurai subito, “gliene voglio un sacco. Solo che… papà vorrebbe che io fossi più come lui”. Arvino annui, e mi diede una pacca sulla spalla. Non sapeva cos’altro dire. “Ah… È difficile il mestiere di… paggio?”

Arvino rise.

“Se chiedi al buon Tebaldo ti dirà che è la cosa più faticosa del mondo. “Io…” pensò un attimo “io invece so di essere fortunato. Sono figlio di un nobile minore… molto minore. Non potevo sperare di servire un cavaliere importante come il signor Ugo, ma lui ha scelto me tra tanti ragazzi di famiglie ben più importanti. Come Tebaldo, è un Della Torre sai. All’inizio, gli altri ragazzi me lo facevano pesare, e quando facevamo pratica con le spade di legno, mi sgambettavano per farmi cadere, e mi sferravano colpi anche quando ero per terra”. Lo ascoltavo curiosissimo. Chi l’avrebbe mai pensato?

“E tu?” chiesi.

Arvino sorrise.

“È io imparai in fretta a non cadere, e a sferrare colpi ancora più forti, anche da terra”.

Mi tornò in mente la scena di quella mattina, dopo essere inciampato sulla spiaggia, e Gherardo che, senza pensarci due volte, mi porse una mano d’aiuto per alzarmi. Scossi la testa.

“Che signorini gentili, i tuoi compagni! Tra noi gente comune non si picchia un ragazzo per terra, piuttosto lo aiuti ad alzarsi”.

Arvino annui. “Sai, più che altro deriva dall’invidia. Il signor Ugo è gentile e generoso, e non mi ignora mai. Fa che ogni suo gesto sia un insegnamento. Altri cavalieri non sono così attenti ai loro paggi, io sono fortunato”.

Sentendo questo, guardai il signor Ugo ben bene per la prima volta. Era giovane, forse non aveva che venticinque anni, e bello, anche se non di volto. La sua bellezza era nel modo di parlare, di porsi, di ascoltare gli altri come allora stava ascoltando Matteo, un mero capomastro.

“Sì,” dissi “lui piace a tutti”.

“Ah! Non a tutti” Arvino abbassò la voce “A Milano molti ce l’hanno con lui. Lo chiamano ‘il profeta’, anche alcuni della sua stessa famiglia, ma non è un complimento. Vedi, il signor Ugo parla tanto del futuro. Vuole convincere la città ad allearsi con altre città per far fronte al tiranno. Dice che solo così potremo vincere. Purtroppo, molti dicono che delle altre città non ci si potrà mai fidare”.

“Chi è il tiranno?” chiesi. Com’ero innocente! Di Guelfi e Ghibellini e delle loro guerre non sapevo ancora nulla.

“Il tiranno è il Barbarossa”.

“Vuoi dire l’imperatore? Ma è molto amato qui a Pavia!”

“Perché sperate di ottenere dei privilegi”.

“Cosa vuol dire?”

“Come posso spiegare… un trattamento speciale… favori… ma se ogni città fa così, dice il signor Ugo, nessuna si farà mai valere, saremo tutti dei leccapiedi e basta”. S’era appassionato al discorso.

“Boh. Mi spiace, ma io di queste cose non ne capisco. So solo che dobbiamo avere tutto pronto per l’incoronazione”.

“Certo,” la sua voce si fece ironica, “quando la sacra Corona Ferrea della regina Teodolinda verrà portata qui da Monza, i vescovi la porranno in testa al grande Federico, e tutti s’inginocchieranno davanti a lui e i loro cuori si colmeranno di felicità per il ritorno dell’imperatore in terra lombarda” disse, sul viso un brutto cipiglio, aggiungendo amaro: “che bella scena!”.

“Non lo è?” dissi, confuso. “Io aspetto quella scena da tutta la mia vita. Anche papà. E’ per questo che lavoriamo, che costruiamo la basilica… Il nonno aveva visto l’ultima incoronazione, prima del terremoto. Tutti sanno che se non finiremo la basilica, l’imperatore si farà incoronare in qualche altra città, forse a Milano, e per Pavia tutto sarà perso…”

“Faroaldo figlio di Faramundo” Arvino parlò ardentemente “le città lombarde sono come tanti ragazzi al gioco, e il Barbarossa è il bullo. Qualcuno cerca il suo favore, aiutandolo a picchiare i ragazzi che sono a terra. È quello che è successo a Tortona. C’erano tanti pavesi lì ad aiutare il Barbarossa a distruggere la città, lo sai? Come hai detto tu, poco fa… quando uno cade per terra bisogna aiutarlo ad alzarsi. Ecco, le nostre città devono imparare a fare così. Insieme. Questa è la fratellanza di cui parla il mio signore Ugo”.

Sentii un calore dentro di me. Arvino ci credeva così tanto, era impossibile non condividere il suo ardore. Ma… il nonno? Il papà? Il lavoro di generazioni? che confusione! Non sapevo proprio come rispondere.

In quel momento, sentii qualcosa cambiare nell’aria. Vicino al camino, Tebaldo smise di suonare. I rumori della festa andavano scomparendo, i bicchieri non tintinnavano, i ballerini si fermarono, le conversazioni si interruppero. Ugo de’ Visconti si era alzato in piedi, mio papà imbarazzato al suo fianco.

“Onorati ospiti di Pavia,” disse “fratelli cavalieri di Milano, d’accordo con il nostro galante campione in comune, il rappresentante dei capomastri Faramundo,” e mio papà si fece ancora più imbarazzato, “domani chiederò all’assemblea comunale di Milano di poter estendere il nostro soggiorno in città fino al giorno attesissimo dell’incoronazione di Federico di Svevia, quando potremo fare omaggio all’imperatore da parte dei miei concittadini”.

Alzò il calice, e mio papà fece altrettanto.

Ci fu una sorta di applauso esitante.

“Nobili compatrioti, onorati ospiti pavesi, come ben sapete,” proseguì Ugo de’ Visconti, “la nostra città di Milano non riconosce alla casata Ghibellina di Svevia, né al suo erede Federico di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, il diritto alla corona imperiale. Noi di Milano stiamo con Sua Santità il Papa nel riconoscere il diritto alla casata Guelfa di Bavaria. Tuttavia, non offenderemmo la dignità dei nostri cari ospiti pavesi, rifiutando l’invito esteso oggi dall’assemblea cittadina di rimanere in città e presenziare alla cerimonia d’incoronazione che si terrà a breve. Per questo motivo, rimarremo qui fino al giorno in cui la Corona Ferrea cingerà il capo del Barbarossa nella Basilica di San Michele. Ma sia chiaro, lo facciamo per rispetto non del tiranno d’oltralpe, ma dei nostri fratelli lombardi, cittadini di Pavia. Che tutti vedano in questa nostra cortesia la strada maestra che si apre davanti a noi, l’unica strada che può salvarci dal giogo straniero! La cortesia tra città, non le offese. L’alleanza fraterna, non le guerre fratricide”.

Alzò il calice, e tutti lo imitarono, ma vidi che non tutti i cavalieri erano contenti. Sentivo borbottare qua è la… impantanati qui altre due settimane… e poi non ne posso più di questa città provinciale… e anche fratelli di chi? Non certo miei… Tra quelli rimasti con i nasi arricciati, c’era il signore di Tebaldo. Mi chiedevo se anche lui, di nascosto, chiamasse Ugo de’ Visconti ‘il profeta’?

Alla fine della festa, il Signor Ugo venne alla porta della casa canonica per augurarci la buonanotte. Per prima, si sedette sui talloni per salutare Gisi.

“Grazie della compagnia, Gisi, ci ha fatto molto piacere conoscerti” disse, e le baciò solenne la mano. Poi si girò verso me e Pietro.

“E grazie di essere venuti, piccoli capomastri. Mi raccomando, i vostri papà hanno tanto bisogno di voi, adesso, per finire in tempo. Non distraetevi con birbonate, e datevi da fare. Me lo promettete?”

Annuimmo. Aveva un tale carisma che non ebbi nemmeno un solo pensiero ironico.

Alzandosi, strinse la mano a Matteo.

“Buon Matteo, grazie, e lasciami dire questo: un giorno rinnoveremo la nostra amicizia nella tua Tortona”.

“Lo spero di cuore” rispose Matteo, “e grazie a te.”

Ora Ugo fece un piccolo inchino davanti a mia madre.

“Grazie di averci regalato questa serata insieme, signora Imilia. Spero che la cena sia piaciuta anche al piccolo che porti in grembo, e che entrambi ne siate rafforzati. Credo bene non si farà attendere a lungo, il bebè, n’è vero?”

“Credo anche io” la mamma sorrise. “Grazie della serata così piacevole, signor Ugo”.

Mio padre annuì.

“Piacevolissima” disse “siamo in tuo debito”.

Ugo scosse la testa.

“Sono io in debito con voi invece”.

“E come sarebbe?” chiese mio padre, perplesso.

“Sedersi a tavola con un nemico che vuol diventare amico… è un gesto di grande coraggio. Un gesto necessario. Spero che altre città non debbano subire la stessa sorte di Tortona prima di capirlo”. Sospirò, ma poi subito si tirò su. “Basta politica e diplomazia, ora. Il coprifuoco è passato da tanto”. Infatti, la città attorno era buia e silenziosa. Non ero abituato ad essere ancora in giro a quell’ora. “Tutti a dormire. Ci vedremo domani mattina per andare in assemblea insieme”.

“Domani non posso accompagnarvi,” disse mio padre “devo compiere un importante viaggio di lavoro.” Mi guardò. Era di buonissimo umore… c’era forse speranza…? E, quasi incredulo, sentii papà aggiungere: “assieme a mio figlio”. Il cuore dentro di me sussultò per la gioia! Sarei ritornato nel Ghastengarda! “E con mio cugino Matteo, e suo figlio Pietro, chiaramente” concluse.

“Sei sicuro di voler portare anche i ragazzi per questo tuo viaggio?” Ugo si preoccupò “Di questi tempi la campagna non è sicura”.

“Li terrò d’occhio tutto il tempo. E con noi ci sarà un vecchio amico, che sa prevenire ogni pericolo. Mi spiace soltanto non potervi accompagnare in assemblea”.

“Tranquillo, caro Faramundo, conosciamo oramai la via, e tutta l’assemblea sa che il paratico dei capomastri sostiene la nostra richiesta di trattare con il comune di Pavia. Fate buon viaggio”.

“Grazie, e buone… discussioni a voi”.

“Ah,” Ugo rise “penso che tu voglia dire ‘buone polemiche interminabili’, vero? Sei felicissimo di evitare l’assemblea di domani!”

“Lo ammetto, sì” disse papà, un sorriso obliquo in volto. “Molto meglio il viaggio. Buonanotte!”

E tornammo tutti alla nostra piccola, calda casetta.

Quis – Capitolo 6

Affonda-la-barca!

Illustrazioni di Francesca Duo

“Soldati alle porte…” Pietro sbiancò e si irrigidì tutto, dalla testa ai piedi, tranne la mano sinistra, che gli tremava. Ma quanta paura gli faceva la parola ‘soldati’? Che impressione! A vederlo, avevo quasi paura anche io. Feci finta di niente, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Dai, andiamo a casa nostra. La mamma avrà saputo tutta la storia dai suoi clienti, e ci dirà lei cosa succede, va bene?”

Uscendo dalla viuzza, esitai, e guardai un attimo in dietro. Ogni mattone, ogni sasso era al suo posto. Ogni traccia di Quis, del racconto, e del Ghastengarda era… non svanita nel nulla, ma nella normalità. La viuzza sarebbe apparsa meno vuota se ancora fosse stata piena di nebbia; almeno la fantasia l’avrebbe potuta riempire.

“Da che parte giriamo?” Chiese Pietro, ansioso.

“Qua, a destra, vieni.”

Tutta la gente che passava per strada parlava dei soldati alle porte: …milanesi, armati e a cavallo… diceva questo, ambasciatori, sotto l’insegna della pace… diceva quello, mentre un altro ancora diceva: Il signor Ugo de’ Visconti di Milano…

Pietro fece un sussulto.

“Ugo de’ Visconti. Era a Tortona. Dentro la città, con i cavalieri milanesi. Ci aiutava. Cercava di spingere via gli assediatori.”

“Cosa ci fanno alle porte di Pavia?” mi chiesi.

Eravamo arrivati al grande portone del palazzo dei Biscossi, dove c’è casa mia. Ecco in un angolo del cortile i nostri padri, intenti a parlare col maggiordomo dei Biscossi, che gli stava dicendo:

“…era Bergaldo dei tintori. Chiedeva di te, Faramundo, per l’assemblea stasera.”

“Cugino, sei il rappresentante?” Era Matteo. Feci segno a Pietro di stare zitto e seguirmi. Passando piano dal lato opposto del cortile, lo condussi verso la porta di casa senza farci notare.

“Si,” diceva mio padre, “quest’anno mi tocca. Doveva capitare proprio a me un anno così complesso…”

Eravamo arrivati. Diedi una sbirciatina dentro. La mamma non c’era, e mia sorellina Gisi stava vicino al camino, intenta a sbucciare castagne. Entrammo facendo finta di niente.

“E voi dov’eravate, fannulloni che non siete altro?” Subito Gisi era in piede di guerra. “Venite a sbucciare anche voi, ho già fatto più di metà da sola.”

“Va bene, va bene, hai ragione.”

“Oh, certo, ragione, si si, la ragione si da ai fessi! Eccomi qua, fessa, sempre sola, come prima in cantiere quando dovevi esserci tu per difendermi.”

Era proprio scura in faccia, incavolata nera. Cos’era successo?

“Cosa vuol dire, difenderti?”

“Quel babbeo di Gherardo ha raccontato a tutti quello che è successo quando io e mamma siamo andate a casa loro per prendere le misure…”

“Ossignore! Cos’hai combinato, Gisi?”

Gherardo aveva forse tre anni più di me, ed era figlio di un altro capomastro di quelli importanti, che lavorava da sempre con papà. Ma il figlio non era un bel tipo. Quando non c’erano grandi in giro, veniva spesso a tormentarmi, a prendermi in giro e cercare di intimidirmi. Non ho mai capito perché, non gli avevo mai dato motivo: si era messo in testa che doveva prendersela con me, e basta.

“E cos’è successo, Gisi?” Chiese Pietro.

“Io prendevo le misure di Gherardo e suo fratello, e la mamma scriveva i numeri. Solo che continuavo a scambiare la vita per il petto, il braccio per la vita… la terza volta mi metto a ridere, no? E lui fa, ‘sembri una papera’. Io già me la sono presa un po’, ma poi quando gli faccio il collo, per nessun motivo si mette a urlare ‘ahi, ahi, e io alle papere le tiro il collo e le spenno!’ Sembrava un pazzo.”

Pietro era indignato.

“Povera Gisi! Ma come si permette? Chi è questo zoticone?”

“Aspetta Pietro,” dissi io. Conoscevo Gisi. “Qualcosa non mi torna. Mentre gli facevi il collo, hai detto? Non è che tu gli hai stretto un po’ il filo, giusto giusto un po’, già che c’eri?”

“Che cosa?” Fu l’innocenza fatta persona. “No, assolutamente.”

“Bah!” Dissi io. “E oggi lui l’ha raccontato a tutto il cantiere, questa storia? E vogliamo scommettere che tutti mi dicono che tu l’hai strozzato?”

“Certo che lo dicono, ma solo perché lui è un bugiardo!”

Pietro, sempre galantuomo, la rassicurò.

“Io ti credo, Gisi.”

Lei gli fece un sorrisino dolce e grato.

“E quindi,” disse lei, col tono di chi afferma l’ovvio, “domani tu lo picchierai.”

Sentimmo una voce alla porta dietro.

“E come, qui si parla di picchiare?” Era Matteo, rientrato finalmente. Mio padre non era con lui: sicuramente era andato dritto all’assemblea. Matteo andò subito ad abbracciare Pietro, che sembrò quasi sorpreso. Certo, noi avevamo passato tutta la giornata coi nostri papà, ma loro non l’avevano passata con noi! Gli era mancato suo figlio.

“No, no,” dissi svelto, “mia sorella parla sempre così, ma è uno scherzo. Sarebbe una pazzia davvero. Il ragazzo di cui parla è il doppio di me!”

“Devi difendere il mio onore!” Strillò Gisi.

“Ah bon, a posto, posso stare tranquillo, non ne hai proprio d’onore.”

E quella furbetta fece gli occhi dolci a Pietro e lui, che ancora non la conosceva bene, si sciolse come la neve.

“Ma dai, Faro, dobbiamo fare qualcosa per difenderla. È tua sorella.”

“Mmmmm,” disse Matteo con l’accenno d’un sorriso, e poi continuò con tono formale: “vedo che qui l’assemblea dei piccoli è in seduta di guerra. Non desidero disturbare i procedimenti, volevo solo dirvi che vostro padre è andato all’assemblea dei grandi, e forse tornerà tardi.” E con questo andò a pulire e sistemare i suoi attrezzi di lavoro.

“Dai, Faro…” ripeté Pietro.

“Va bene.” Feci grande scena di un sospiro lungo e desolato, ma in realtà non ero tanto dispiaciuto: mi era venuta un’idea. “Gisi, ti difenderò. Ma niente picchiare, ché Gherardo è veramente il doppio di me. Lo sfiderò a una partita di affonda-la-barca. Se vinco io, lui ti chiede scusa. Soddisfatta?”

Gisi fece un sorriso così angelico che per un attimo sembrava Quis.

“Allora vieni in cantiere di nuovo domani pomeriggio, e vedrai se ti chiede scusa.”

“Affare fatto!”

“Ma dimmi,” le chiesi, “carissima dolcissima sorellina mia, che ci sei andata a fare in cantiere? Tirare un sasso al vespaio?”

“Cercavo te, per dirti di venire a casa a darmi una mano con le castagne, visto che ero rimasta sola. E tu dov’eri?”

“Oh, sai,” presi una castagna calda con aria disinvolta, e lanciai un’occhiata a Matteo, ma sembrava non avesse notato, “con questa storia dei cavalieri alle porte siamo andati a vedere, ma c’era troppa gente, non si capiva niente.”

“Cavalieri alle porte?” esclamò.

“Beh, ovvio,” feci, “milanesi.”

“Oh! … È Guerra ancora?”

Amici lettori, questa è una cosa che sicuramente non sapete: Milano è nemica acerrima di Pavia. Da quando eravamo in fasce c’era sempre qualche scaramuccia tra milanesi e pavesi da qualche parte nelle campagne tra le nostre due città. Ma il nemico non si era mai spinto fin sotto le nostre mura. Sapere che una compagnia di cavalieri milanesi era alle porte faceva spavento. Era l’inizio di un assedio? Ma Pavia stava col grande Barbarossa, come osavano sfidare lui?

“Si, Gisi,” disse Matteo, alzando la testa dagli attrezzi, “sono milanesi, ma tranquilla, sono pochissimi, forse una decina, con i loro paggetti. Il capo di tutti è il buon Ugo de’ Visconti. Lo conosco. Io dico che non vengono a fare la guerra.”

“Papà è andato in assemblea per questo?” chiese Gisi.

“Brava, Gisi” Matteo annuì, “devono decidere se dare ospitalità a questi cavalieri stanotte, o sbarrargli la porta.”

“Ma è già sera,” dissi io, “non arriveranno mai a Milano oggi se non li fanno entrare.”

“Appunto. Sarebbe un grave insulto non offrirgli ospitalità. Eppure, per i pavesi sono nemici.”

Fece spallucce.

“Cosa si deve fare? Secondo me l’assemblea ci metterà un bel po’. Papà tornerà dopo cena. Ma mi ha dato un compito importante. Durante la cena vi devo raccontare una bella storia nuova.” E con questo, finì di sistemare l’ultimo attrezzo e si mise accanto a noi a sbucciare castagne. Chiese a me e Pietro la domanda che avremmo voluto evitare: “Com’è andata la giornata in cantiere?”

Pietro si pietrificò. Capì subito che non era uno che sapeva mentire. Per fortuna, io sono sempre pronto a farlo! E per qualche motivo, sono quasi più convincente quando dico le bugie che non la verità. Chissà perché?

“Mah, la scuola una noia come sempre. Certo, Pietro si diverte perché è la prima volta, ma io non ne posso più. Voglio dire, non possono inventare qualche nuova lettera? Quelle vecchie le ho fatte mille volte.” Matteo sorrise. Stavo andando alla grande. “Poi il pomeriggio ci siamo fermati poco. Quando abbiamo sentito questa storia dei cavalieri ce la siamo svignati per andare a vedere cosa succedeva.”

“Dovevate restare a lavorare…” Matteo ci ammonì, ma non era proprio severissimo. Certo, con un figlio come Pietro non era abituato a dover fare le ramanzine, forse gli serviva pratica.

Curioso, Matteo chiese: “A quale porta sono i cavalieri?”

“Oh, San Giovanni,” inventai spigliato. Ma dietro le mie spalle, la mamma era arrivata alla porta.

“Ma quale Porta San Giovanni?” disse lei bruscamente. “I milanesi sono alla porta del ponte.”

“Ah, ecco perché non abbiamo visto niente.” Dissi, ma la mia risata era finta. La mamma mi faceva più paura di dieci papà, e con lei mi sentivo trasparente come l’acqua. Era andata da qualche famiglia a cui aveva portato i vestiti riparati, perché portava la sua borsa da cucito. Che aria stanca che aveva, povera! con il grosso pancione che portava in giro a ogni passo non c’era da meravigliarsi. Balzai in piedi, le presi la borsa e la aiutai a sedersi sulla cassa.

“Ruffiano! Non mi aiuti mai. Guarda che ti ho sentito prima, hai portato tuo cugino via dal cantiere per farti compagnia mentre te la spassavi in giro con la scusa dei soldati alla porta. Adesso per punizione la cena la servi tu a tutti, e i dopo sistemi pure le stoviglie.”

“Ma quello è lavoro da femmine! È Gisi che…”

“Zitto! Il lavoro da maschi l’hai svignato oggi pomeriggio, ora ti tocca quello da femmine.”

Quando la mamma aveva quel tono lì, uno stava zitto e faceva quel che lei voleva, e basta. Mascalzone lo ero, ma non stupido. Mi misi al lavoro con le scodelle e il paiolo di grano cotto.

Durante la cena, come aveva promesso, Matteo ci raccontò una storia. Secondo me non dovrete mica spremervi le meningi per indovinare quale. Da tutta la mia vita papà era partito ogni tanto la mattina per un viaggio speciale, per tornare la sera con una nuova, bellissima fiaba, che poi scolpiva anche su una nuova pietra per la basilica. Finalmente io sapevo da dove venivano questi racconti, e queste sculture. Il Ghastengarda.

Matteo, come suo figlio, era così mite, così pacato e affabile, che la sua versione di cantastorie mi soprese. Ci andava dentro, si divertiva a raccontare del re che annegava con l’oro nel fiume, dei pescatori trascinati su e giù dal grande storione che sapeva anche parlare, della fattucchiera con il suo mantello di piume…

Peccato che io ero così stanco. E che dovevo servire la cena, e sistemare i piatti e pulire il paiolo. Mentre Pietro ascoltava suo padre incantato e felicissimo, io quasi dormivo in piedi, le cose mi cadevano dalle mani, non trovavo più i cucchiai, facevo fatica a tagliare il pane… Insomma, non ascoltai bene ogni parola, senza sapere che questa cosa poteva ritorcersi contro di me il giorno dopo. Non appena finita la cena e sistemato tutto al focolaio, me ne andai a dormire.

“Papà non viene?” Gisi stava chiedendo alla mamma.

“Penso che farà tardi all’assemblea. Vai a dormire con tuo fratello se hai sonno.”

Forse venne, ma non saprei, ero già nel mondo dei sogni.

Mi svegliai molto lentamente la mattina dopo, e durante quella piacevole dormiveglia nel caldo morbido e soffice del letto, quando tutto fuori dal letto sembra un po’ un sogno, vidi mio padre seduto per terra davanti al focolare, per lasciare spazio sulla cassa per la mamma. Povero papà, non solo era tornato tardi, si era pure alzato presto! Matteo si scaldava accanto al fuoco, intento a guardare qualcosa nelle mani di papà: un blocco squadrato di cera. Papà lo stava intagliando accuratamente col suo coltellino. Era sicuramente il modellino per un nuovo concio, e sapevo già quale storia raccontava… Sicuramente c’erano due pescatori, e il loro pescato!

“Faramundo,” diceva mia madre, “se non gli dai qualche responsabilità in più non cambierà mai.”

“Ma non ne merita. Combina sempre guai.”

“Al meno un modellino… alla sua età tu eri già in grado.”

“Come può fare i modellini se non viene nel Ghastengarda?”

“Appunto, è proprio quello che dico.”

D’un tratto ero completamente sveglio. Ma, stanno parlando di me? Ho capito bene, la mamma mi vuole mandare nel Ghastengarda? Il prossimo a parlare fu Matteo.

“Io non esiterei a portare Pietro, non credo sia pericoloso per lui se rimane sempre con noi.”

“Ah, certo,” rispose mio padre, “non esiterei neanch’io a portare Pietro. E fatto di altra stoffa. La stoffa di Faro è ancora grezza.”

“La stoffa,” disse la mamma, “rimane sempre grezza se non passa per le gualchiere. Va lavorata, affinata, altrimenti non cambia. Con i bambini è la stessa cosa, e non sono le bastonate a farlo, sono le piccole responsabilità. Pietro è un ragazzo serio, è vero… ma certo che lo è! Pensa a quello che ha vissuto in questi mesi, povero…”

Mio padre sospirò.

“So che tu hai ragione, Imilia. Eppure…” Per un lungo momento guardò, pensieroso, il modellino di cera, girandolo nelle mani per vedere ogni lato. “Il tempo di finire la Basilica. Poi, lo sai, c’è la chiesa di San Giovanni in Borgo, avrà ogni opportunità. Dammi due settimane, fino a quando non arrivi il Barbarossa. La situazione è troppo delicata ora, con questi cavalieri milanesi in città, e avrò meno tempo che mai…”

Matteo chiese: “I cavalieri sono dunque entrati ieri notte?”

“Alla fine, sì. Don Giorgio li ha convinti a deporre le armi alla porta. E quali armi! Non credo ci sia un solo cavaliere in tutta Pavia che possa vantarsi di armi simili.” Matteo annuiva, con l’aria di chi ha già visto quel che gli viene descritto. “Poi, li abbiamo scortati alla canonica, e saranno lì a dormire ancora, beati. Quanto hanno insistito per entrare in città! I frati di San Salvatore li volevano accogliere fuori le mura…”

“Chi? Cosa?” disse Gisi. Si era svegliata accanto a me e – maledizione! – con un calcio tolse le coperte da entrambi. Quella aveva il dono di svegliarsi subito energica. Anche Pietro si svegliò a questo punto, ma dalla sua faccia rintontita capii che faceva tanta fatica quanto me ad alzarsi la mattina.

“Niente Gisi, roba da grandi,” disse papà. “Parlavo dei cavalieri milanesi di ieri e dell’assemblea.” Poi alla mamma e Matteo: “Ambasciatore. Quell’Ugo de’ Visconti dice di essere un ambasciatore. Mah! Vedremo oggi.” Posò il modellino. “Ragazzi,” si alzò in piedi e sbatté le mani forte, “forza, colazione, svelti. Ci dobbiamo sbrigare, devo portare gli ospiti milanesi in assemblea all’ora terza, ma prima devo assolutamente mettere in cantiere il nuovo concio.”

“Va bene,” disse la mamma, alzandosi a fatica. “Chi vuole ricotta col siero?”

“Io!” quasi urlai.

“Non avevo dubbi,” disse lei, sorridendo.

“Una sola scodella, Faro,” disse papà, “non abbiamo tempo per altro. E oggi in cantiere mi raccomando. La mamma mi ha detto come hai portato Pietro a gironzolare ieri pomeriggio. Oggi, quando vado via io, fai quel che ti dice il cugino Matteo. Intesi?”

“Intesi papà.” Dissi, ma la mia attenzione era tutta per la ricotta. Papà mi guardò severo.

E continuò a guardarmi severo tutta la mattina. Assieme a Matteo e i lavoranti, fece trascinare fuori un nuovo concio di pietra e si misero al lavoro. Misuravano i lati del modellino di cera, e poi misuravano i lati del concio… e alzò lo sguardo per fissarmi. Tracciavano segni e forme con carbone sulla pietra… e alzò lo sguardo per fissarmi. Facevano volare via le prime scaglie con martello e scalpello… e alzò lo sguardo per fissarmi.

Ve lo giuro, io stavo lì nella sabbia con gli altri ragazzi, Pietro accanto a me, e cercavo di concentrarmi sulla lezione del maestro Paolo. È colpa mia se papà mi distraeva sempre? Intanto, i ragazzi seduti a fare scuola si sussurravano che i cavalieri milanesi avevano passato la notte nella casa canonica accanto alla basilica.

 Verso metà mattinata vedemmo che fu proprio così: i milanesi uscirono dalla canonica, passando proprio in mezzo al cantiere. Ah, che subbuglio! Il maestro agitava il bastone per ordine, e il malcapitato più vicino a lui si beccò pure un colpo, ma non c’era niente da fare, tutti noi ragazzi saltammo su, e seguimmo i cavalieri con i loro paggetti, restando a bocca aperta solo a vedere i loro vestiti ricchi e coloratissimi. Ma non eravamo solo noi. La gente della città apparve come dal nulla, e d’un tratto lo spazio attorno alla basilica brulicava di persone, che chiacchieravano, esclamavano, ammiravano… Il mio povero padre, che non voleva fare altro che scolpire il nuovo concio, dovette lasciare il lavoro e farsi largo in mezzo alla folla.

“Permesso! Fatemi passare! Sono il rappresentante del comune, sono io che devo accompagnare l’ambasciatore milanese all’assemblea, fatemi passare!”

Infine, raggiunse i cavalieri. Uno di loro lo salutò con rispetto. Era il più importante di tutti, giudicando dai vestiti, che letteralmente brillavano al sole per i ricami in filo d’oro e d’argento.

“Mastro Faramundo, ben trovato.” Disse, e sapeva farsi sentire senza urlare. D’un tratto ci fu silenzio in piazza. “Avevamo sentito quale meraviglia il paratico dei capomastri di Pavia stesse creando qui, in onore dell’Arcangelo Michele, ma vedere la vostra opera di persona è un’emozione non da poco. Complimenti a te e a tutti i capomastri e i vostri lavoranti.”

“Da parte del paratico, ringrazio.” Papà fece un goffo inchino. Non era per niente abituato a discorsi eleganti, tanto meno davanti a una folla.

Pietro al mio fianco si irrigidì con un sussulto. Vidi perché: il cavaliere aveva visto suo padre, e lo stava salutando.

“Buon capomastro, ti riconosco, ti ho visto tra la gente di Tortona durante l’assedio appena concluso, non è vero?”

Matteo, imbarazzato e nervoso, annuì, guardandosi attorno. Tutti lo guardavano. Mi sembrava di sentire i pensieri della gente: Tortona? Alleata di Milano! Città nemica!

Proprio in quel momento sentii una mano pesante posarsi sulla mia spalla, e stringere forte fino a farmi male. Capii subito che era Gherardo, e non gli diedi la soddisfazione di vedermi trasalire. Non guardai nemmeno in dietro.

“Mio cugino è nato e cresciuto a Tortona,” diceva papà ad alta voce, guardando bene la gente intorno, “ma è pavese quanto me, figlio del fratello di mio padre.”

Ci fu un gran bisbiglio tra la gente a queste parole, ma tutti continuavano a guardare sia Matteo che Pietro con sospetto. Dietro di me, con quella sua voce bassa e rocca, Gherardo mormorò: “Allora avete il nemico in casa?”

“Zitto, buffone.” Risposi.

Pietro si girò per vedere con chi parlassi, e indietreggiò un passo con sgomento a vedere quella sorta di scimmione di un ragazzo, che era più grande di noi di pochi anni ma aveva già peluria in viso e braccia spesse come rami d’un grosso albero, per non parlare della voce che sembrava un tamburo fatto col tronco dello stesso.

Sorrisi calmo a Pietro, e gli misi un braccio attorno alle spalle.

“Questo è il babbeo che diceva la Gisi.” Spiegai.

“Gisi è una bugiarda canaglia!” Disse Gherardo, dandomi un colpo secco alla schiena con una mano, mentre mi teneva fermo con l’altra (altrimenti mi avrebbe buttato per terra, attirando l’attenzione dei grandi). Ma io non feci una piega.

Intanto, il cavaliere parlava alla gente: “… ma per questo preciso motivo. Gli altri cittadini di Tortona si stanno dirigendo verso Milano in seguito all’ingiusta e barbarica distruzione delle loro case. La nostra città li accoglierà con amor fraterno, e ospitalità, e li aiuterà a ricostruire la loro città non appena sarà possibile. Ordunque io sono venuto qui, ambasciatore di Milano, per dirvi questo: non è più tempo di guerra fratricida tra i nostri comuni! Il Barbarossa è più potente di ogni singola città, e ci potrà distruggere una ad una se vorrà. Soltanto l’unione fra noi potrà porci nelle condizioni di far valere la nostra libertà di vivere, lavorare e commerciare secondo i nostri costumi lombardi.”

“Perdonami, nobile signore,” disse mio papà, e secondo me si sentiva ridicolo a parlare così, “credo che il luogo adatto a questi discorsi è l’assemblea cittadina, dove tra l’altro ci attendono. Se mi seguirai, avrà inizio con il nostro arrivo.”

“Io ti seguirò.” Disse il cavaliere. Con mio padre in testa, uno dopo l’altro come una processione, i cavalieri e i loro paggetti se ne andarono verso il Broletto, dove si tenevano le assemblee. Dietro di loro il bisbiglio tra la gente divenne un ruggito.

“Affonda-la-barca,” dissi svelto a Gherardo, “se vinco io, tu chiedi scusa a mia sorella. O sei vigliacco?”

“Va bene,” disse lui, subito. Sapeva di avere il tiro più lungo del mio, ma io sapevo di avere il tiro più preciso. Chi avrebbe vinto?

Giusto, giusto, devo prima spiegarvi che cosa sia affonda-la-barca, anche se sono sicuro che i ragazzi lo fanno anche nel vostro tempo lontano. È un gioco divertentissimo, e facile come tirare un sasso. Beh, facile come tirare un legno e poi tirare tanti sassi. Ecco, così si gioca: tirate un legno qualsiasi nel fiume, e mentre la corrente lo porta via, voi tirate sassi per colpirlo. Chi lo colpisce più volte vince. Certo, vi conviene tirare il legno più possibile a largo e a monte, in modo che ci metta più tempo per passarvi davanti, e avete più possibilità di colpirlo.

Presto eravamo sotto la Porta Calcinara, dove il fiume ha lasciato alla base delle mura una bella e larga spiaggia di ghiaia, dove i barcaioli caricano e scaricano la calce e la sabbia per i cantieri. Erano abituati a condividere la spiaggia con ragazzi che giocavano ad affonda-la-barca, e anche se ogni tanto davamo fastidio, non ci mandavano mai via.

Nella squadra di Gisi c’eravamo-

Ah, un’altra cosa: so che state pensando, amici lettori, che ce l’eravamo di nuovo svignata da scuola e dal cantiere. No, no, questa volta avevamo il permesso. Era la pausa dell’ora di pranzo, e Matteo, sapendo già la storia di come Gherardo aveva offeso Gisi, ci aveva dato permesso, a patti che tornassimo al cantiere puntualmente per lavorare nel pomeriggio.

Dunque, come dicevo, nella squadra di Gisi c’eravamo io e Pietro, e nella squadra di Gherardo c’era lui stesso e il suo grande amico Astolfo.  Fu quest’ultimo a scegliere un legno, a spostarsi una cinquantina di passi a monte di noi, e tirarlo nel fiume. Poi lui e Pietro guardavano, arbitri, mentre io e Gherardo tiravamo.

Gherardo comincio a tirare a raffica non appena il legno si avvicinò abbastanza per le sue braccia lunghe e forti, quando io non avevo ancora speranza di raggiungerlo. Non importa: in primo luogo perché, avendo la mira pessima, non lo colpì neanche una sola volta fin quando non fu vicino abbastanza anche per me, e in secondo luogo perché io sfruttai quel tempo per scegliere i sassi più adatti alla mia mano e alla mia forza. In particolare, e me lo ricordo oggi come fosse ieri, ci fu un sasso dal peso e dalla forma perfetta, e di un colore porpora intenso, e inusuale per il nostro fiume. Mantenni il sangue freddo quel giorno: mentre Gherardo tirava come un matto impazzito, senza neanche guardare la ghiaia quando si abbassava per prenderne manciate a casaccio, io, svelto ma calmo, feci un piccolo mucchio di sassi più a monte, da dove avrei cominciato a tirare, e un piccolo mucchio di sassi più a valle, dove avrei finito di tirare. Ecco, ero pronto: amici lettori, sareste fieri di me! (Se solo io fossi così ben organizzato e veloce pure in cantiere, anche papà sarebbe fiero di me…)

Il legno arrivò nel raggio del mio tiro! Prendendo posto al primo mucchio, incominciai a tirare con la mia mano buona, la sinistra, con la mano destra estesa dritta per tenermi in equilibrio e per prendere meglio la mira. Uno, due, tre… un colpo!

Gherardo bestemmiò, ancora lui non l’aveva colpito una sola volta. Non persi tempo ad esultare o fare balletti di vittoria, tirai ancora, e ancora… Quattro, cinque, sei, sette… Mentre approntavo l’ottavo sasso, si sentì un bel toc: anche Gherardo aveva fatto un colpo. Otto, nove… un altro colpo, ero di nuovo in vantaggio! Dieci, undici… un altro colpo! Ma il mucchio era finito. Sfrecciai lungo la riva verso il secondo mucchio… accidenti! Proprio allora la prua di una barca piena di calce si arenò sulla spiaggia, esattamente tra me e i miei sassi. Mentre aggiravo l’ostacolo sentii Gherardo, infuriato dal mio successo, grugnire lanciando un’intera manciata di sassi al legno, tutta in una volta e con tutta la sua forza. Maledizione, uno dei sassi colpì il legno, ma un altro urtò contro la poppa della barca appena arrivata.

“Ehilà, ragazzaccio, fai attenzione!”

Io ero già al mio secondo mucchio, ma ora toccò a Gherardo di aggirare la barca. Sgraziato com’era, investì il barcaiolo che saltava giù dalla prua con un sacco pesante in spalla.

“Oh, ancora tu, testa di piffero! Di chi sei, chi è tuo padre?”

E sapete cosa gli disse quel farabutto di una canaglia di Gherardo? “Papà si chiama Faramundo, il capomastro…”

Ma che mascalzone!

Certo, il barcaiolo andò via borbottando, “Ehi già, me l’han detto quel povero uomo ha un figlio piantagrane…”

Ma che m’importa? Io ero in vantaggio di un colpo, e stavo già tirando nuovamente, alla grande, calmo, equilibrato… Dodici, tredici, quattordici… Gherardo mi raggiunse, e subito ebbe fortuna con un forte tiro: toc, e il legno si abbassò per un attimo nell’acqua. Pari…

Quindici, sedici… un colpo! Di nuovo in vantaggio!

Gherardo, frustrato e preso dal panico di perdere, riprese a lanciare intere manciate di sassi per volta. A me pareva senza capo né coda questa strategia, ma sapete cosa? A furia di lanciare e lanciare, fece un altro colpo, ed eravamo di nuovo in parità. Mi abbassai per raccogliere l’ultimo sasso della pila, l’ultima speranza. Si, avete già capito, il sasso porpora. Per lanciare era il migliore di tutti per peso e forma, ma non bastava: io avrei dovuto fare il tiro della mia vita, e il legno si stava allontanando, era quasi fuori tirata…

Amici lettori, ce la misi tutta: tutta la mia forza, tutta la mia concentrazione. Lanciai! Ma con sì tanto slancio che persi l’equilibrio, e tentando di riprendermi inciampai in una pietra di quelle grosse, e caddi per terra senza nemmeno capire se il mio colpo fosse andato a buon fine. Lo seppi presto però, perché quando Gherardo si inchinò per darmi una mano ad alzarmi, la sua faccia era nera, poi divenne rossa, poi porpora, poi di nuovo nera. Avevo vinto!

“Bravissimo, bravissimo, sei stato fantastico!” Urlava Pietro, abbracciandomi. Astolfo diede una pacca sulla spalla a suo amico.

“Beh, andrà meglio la prossima volta,” diceva. “Niente male questo ragazzino, eh?” Mi fece un cenno di rispetto. “Dai, Gherardo, torniamo in cantiere, ché pomeriggio viene la Gisi e le devi chiedere scusa, mi sa…”

E se ne andarono, con Gherardo che sbuffava e scoppiettava che sembrava il rumore di acqua buttata su un falò.

“Grande!” disse Pietro, con un sorriso enorme. Così, a braccetto, ridendo e chiacchierando, rivivendo ogni momento della gara trionfale, tornammo alla Basilica.

Quis – Capitolo 5

Chi viene accontentato non è mai contento

Illustrazioni di Francesca Duo

E fu proprio in quell’istante che sentimmo il craaaa, craaaa del corvo sopra di noi, e vedemmo quelle ali nerissime battere, e quando abbassammo lo sguardo, Quis aveva fatto la sua magia ancora una volta, e ci trovammo di nuovo in riva al fiume con i due pescatori, e sempre per fortuna o magia, a distanza dai nostri padri. Ci nascondemmo, e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. Picaldo stava mettendosi le mani alla bocca a mo’ di tromba, e fece più forte che poté il richiamo che gli aveva insegnato lo storione fatato:

Cuuuuuuuuuuuuuuuuuuì!

Presto, vedemmo emergere dall’acqua la testa appuntita e dorata con i baffi arcobaleno e gli occhi color ambra…

“Salve, fratelli pescatori. Non mi sorprende affatto vedervi qui ancora. In cosa vi posso servire?”

Picaldo spiegò: “Con la moneta d’oro che abbiamo trovato l’ultima volta, abbiamo cominciato a costruire una nuova casa, in pietra, e mia moglie si è comprata vestiti più belli. Ma ancora la nuova casa non è finita, e già ha detto che non basta. Ora vuole vivere in un grande palazzo di città, come una nobildonna!”

“Spero che non le sarà concesso,” disse Pacoldo. “Se non l’hai già capito, fratello, lei non sarà mai soddisfatta, e ti manderà sempre al fiume a pescare, comunque; anche se vivrà davvero come una nobildonna… Ti immagini, vivere in un palazzo, in città; lei vestita di seta e tutta profumata, e tu che parti la mattina con la rete per andare al fiume, e torni che puzzi di pesce? Sei mio fratello, e ti aiuterò sempre, ma lascia che te lo dica: prima o poi le dovrai portare a casa un bel ‘no’ al posto del pesce”.

“Un bel ‘no’ eh?” disse Picaldo, scocciato. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”

“Non ho mai visto il mare. Ma so che c’è gente che l’attraversa”.

“Taci, fratello, e lascia parlare lo storione fatato”.

Ma con suo sgomento, il grande pesce ripeté quanto aveva detto la prima volta:

“Se è questo che vuoi, io ti manderò storioni di fiume da pescare, e nelle loro pance troverete un nuovo tesoro. Ma dal tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie.”

Picaldo guardò male entrambi, pesce e fratello.

“Sì, grazie, è questo che voglio.”

Di lì a poco, i fratelli si caricarono in spalla il lungo bastone con gli storioni bianchi appesi, e quando tornarono a casa si vedeva accanto alla vecchia capanna una nuova casa costruita a metà, molto più grande, e con i muri di pietra. Un lavoratore stava spargendo malta, mentre un altro si serviva del peso a piombo per fissare un legno ben dritto. Sarebbe diventata una bella casa, molto più spazioso della stanza dove vivevo io con mamma, papà e la mia sorellina Gisella. Vedemmo i nostri papà, che la guardavano attentamente, scambiarsi sottovoce qualche commento, e mio papà con le mani descrivere un angolo e un muro; da buoni capomastri, avevano le idee chiare su come costruire le case.

E sulla porta, la signora aspettava…

Che bel vestito costoso,
E che cantiere favoloso!
Ma il tuo sguardo è nervoso,
Avido, senza riposo…

Infatti… La donna aveva un vestito nuovo, i capelli lavati e conciati, e scarpe nuove, e non sembrava per niente contenta. Non guardò nemmeno il marito che arrivava, stanco e con i panni zuppi di sudore, guardava solo ai pesci, e aveva già il coltello in mano.

“Presto, posateli sul tavolo da lavoro”.

I due fratelli si fecero da parte mentre lei incominciò a pulire i pesci. Ne sventrò una, ma la pancia era vuota. Ora, ben determinata, ne prese a caso un altro… Pancia vuota anche qui. Rabbiosa, ancora a caso. Pancia vuota… Infine, nella pancia del quarto pesce, trovò i due tesori degli storioni, le uova e…

“Oh cielo! Tesoro! Vero tesoro questa volta! Cinque monete d’oro, e quanti rubini e zaffiri, e perfino un diamante! Non ho mai visto così tanta ricchezza!”

Vi dirò, non era cosa bella vederla esultare così. Pensai a mia mamma, e non potevano essere più diversi il carbone e il miele. Per fortuna non dovemmo assistere a lungo alla sua avara gioia: tra un craaaa craaaaa e un cuuuuuuuuuuuuuuuuì, eravamo ancora una volta in riva al Ticino, dove i fratelli pescatori parlavano con lo storione fatato… per l’ultima volta.

“In cosa vi posso aiutare, fratelli pescatori?” diceva il pesce.

“Mia moglie ora vive in un grande palazzo” rispose Picaldo, e non ne sembrava affatto contento… “Proprio nel centro di Pavia. Ha tanti servi, tanti vestiti bellissimi, e mangia sempre il meglio della stagione. Eppure…”.

“Non le basta mai” finì per lui Pacoldo.

“Non mi sorprende, caro pescatore” fece lo storione.

Ma, era soltanto una mia impressione, o i pesci sono in grado di sorridere sotto i baffi… intendo, sotto i barbigli?

“Non volete sapere che cosa mi ha chiesto adesso?” disse Picaldo.

“Francamente,” disse il fratello “non m’interessa più. Non voglio sapere”.

Questa volta lo storione rise davvero, una risata calda e sonora.

“Vieni vicino, uomo dalla moglie incontentabile, vieni vicino e sussurrami quest’ultimo desiderio, e non faremo arrabbiare tuo fratello”.

Il pescatore, imbarazzato e un po’ goffo, fece come chiesto e scese dentro l’acqua fino alle ginocchia, e si piegò per sussurrare qualcosa al pesce.

“Aaaah!” esclamò lo storione. “Quale desiderio illuminante. Allora ho una buona notizia per voi. Oggi non vi dovrete affaticare per niente. Per realizzare questo suo desiderio non serve affatto alcun tesoro; e non servono pesci! Questo desiderio è del tutto fuori dalla mia portata. Servirà ben altra magia, temo”.

“Ma quale magia? Come posso fare?” Picaldo era disperato.

“Mmmmmm” il pesce meditava “io una volta ho avvertito una magia forte, ma non saprei da dove venisse.”

“Quando? Quale magia?”

“La prima volta che ci incontrammo, quando presi in bocca la vostra esca. Sapevo benissimo di sbagliare, ma per qualche motivo, non seppi resistere”.

Picaldo stette un attimo a bocca aperta, come un pesce.

“Fratello!” Pacoldo chiamò dalla riva. “Poteva essere soltanto la magia della fattucchiera Edburga, ti ricordi che tua moglie era stata da lei?”

“Andiamo!” Picaldo uscì dall’acqua di corsa, e stava scomparendo nel bosco quando il fratello lo richiamò.

“Eh, testa di rapa, non saluti prima di andare via?”

Picaldo si fermò, imbarazzato, e fece un inchino rispettoso al pesce.

“Grazie, storione fatato. Chiedo scusa se ti abbiamo disturbato tanto”.

“Il piacere è tutto mio” Rispose il pesce con eleganza. Ora anche Pacoldo lo salutò.

“Che tu possa vivere altri quattrocento anni. Almeno!”

“Grazie! Che la tua rete si riempia sempre di alborelle gustose”.

E con questo, lo storione fatato scomparve nel fiume, per sempre.

La fattucchiera Edburga stava preparando qualcosa dentro un calderone – sicuramente un filtro magico, ché si sentiva un odore tanto pungente quanto strano.

“Edburga” chiamò Picaldo “scusa se ti disturbiamo, ma siamo veramente disperati…”

“Lui è disperato”. Corresse il fratello. “Io sono esasperato”.

La vecchia maga, benda sugli occhi, si fece vedere sull’uscio e…

“Ah, siete voi. Ben tornati, era da tempo che non vi vedevo. In che cosa vi posso assistere, buoni uomini?”

“Mia moglie qualche tempo fa era venuta da te, e ti ha chiesto di aiutarci a trovare il tesoro del fiume. Io le avevo detto che il tesoro sono i pesci che peschiamo, ma lei voleva quello del re Ariperto. Poi abbiamo pescato lo storione fatato, e ti dico, è stata una fatica incredibile, ma lui in cambio della vita ci ha fatto pescare dei normali storioni che avevano ingoiato il tesoro del re, monete d’oro, pietre preziose… Ora mia moglie vive in un grande palazzo, con tanti servi e tanti bei vestiti e tutto quello che vuole…”

“E non è mai soddisfatta”. Finì per lui la fattucchiera con un sospiro. “Beh, non so se ti posso aiutare. Non riesco ad immaginare un solo suo desiderio che la renderebbe felice”.

“Ecco…” Picaldo era nervoso. “Di fatto ha espresso ancora un desiderio. Io le ho detto che è ridicolo, ma questa sua bella vita le è andata alla testa, e non ascolta più ragione…”

“Non l’ascoltava manco prima, a dire il vero” mormorò Pacoldo.

“Dimmi, dimmi,” disse la fattucchiera “sono curiosa”.

“Io no” fece Pacoldo “non voglio proprio sapere. Sono nauseato dall’intera faccenda”.

“Posso sussurrartelo nell’orecchio, Edburga?” chiese Picaldo.

“Vieni, vieni”.

Tutto impacciato per l’imbarazzo, Picaldo le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. La faccia della fattucchiera dapprima si fece scura e arrabbiata, poi si illuminò, e ridacchiò divertita.

“Che donna sorprendente! È riuscita a trovare l’unico desiderio che forse, forse, una volta realizzato la renderebbe felice. Certo, ci vorrà tempo. Ma tu, marito sciocco,” divenne d’un tratto seria e severa “dovrai smetterla di cercare di accontentarla di ora in poi. Chi viene accontentato non è mai contento, ricordatelo. Abbiamo un accordo”.

Picaldo annuì, solenne come un bambino sgridato (almeno, come un bambino sgridato dovrebbe essere, perché io non lo sono mai…)

“Bene” disse la fattucchiera, “allora, tornate al vostro bel palazzo signorile in città, ché il desiderio sarà esaudito”.

Quando i due fratelli se ne andarono, Quis aspettò un poco prima di seguirli, per tenerli a discreta distanza. Intanto la vecchietta si girò, e occhi bendati o no, sembrava che guardasse proprio lì dove stava Quis dietro un tronco d’albero.

“Vecchio amico, ben trovato” disse la fattucchiera.

Quis sorrise come se la conoscesse, e seguì i pescatori.

Presto i due fratelli arrivarono alla capanna. Accanto, la nuova casa di pietra era stata lasciata con i muri a metà.

 Andarono avanti, per tutta la lunga strada che passava in riva al Ticino, sotto San Salvatore e fino alle mura della città. Alla piccola Pusterla di Sant’Agnese entrarono e, passando per le viuzze più strette e deserte (secondo me non volevano farsi vedere con i vestiti vecchi e bagnati da pescatori) arrivarono infine a un palazzo meraviglioso, con i muri tutti rivestiti di stucco affrescato, i portoni decorati e dei servi armati che stavano di guardia.

Picaldo e Pacoldo si avvicinarono a una piccola porta di servizio, quasi nascosta sul retro dell’edificio. La, mi aspettavo di vedere la moglie ad aspettarli con ansia… macché! Aveva mandato un servo, vestito meglio lui che non i pescatori, ordinatissimo e precisissimo.

“La signora ordina che il pesce sia portato direttamente in cucina” disse loro, e con una mano si tappò il naso.

“Oggi non abbiamo un solo pesce” gli disse Pacoldo.

Il servo sembrava inorridito, ma proprio in quel momento scoppiò una confusione dietro l’angolo del palazzo, dove c’era la porta principale. Vedemmo soldati con spade e lance riempire la via. Quis e i due papà andarono a vedere, ma Pietro ed io avevamo paura, e rimanemmo nascosti dietro una fontanella. Ma sentivamo tutto.

“Questo palazzo è sotto sequestro, nel nome del re” disse un soldato.

“Ma come, sotto sequestro? Cosa sta a dire?” Era la moglie di Picaldo.

“È stato comprato con monete e gioielli appartenenti di diritto al tesoro reale. Sono stati esaminati, e non vi è ombra di dubbio. Tu, o donna presuntuosa, avresti dovuto dichiararli subito al Palazzo Regio. Invece li hai trafugati e utilizzati loscamente, per profitto personale. Se tu avessi dichiarato il tesoro ritrovato alle autorità, è probabile che ti avrebbero lasciato una moneta d’oro come ringraziamento. Ora come ora, sei tu che devi ringraziare il re e il Signore che ti sequestriamo solamente questo palazzo. Avresti potuto finire in cella, o peggio”.

“Ma… ma… non potete… com’è possibile?”

Presto la vedemmo apparire da dietro l’angolo, in mezzo a una scorta di soldati che la tenevano rudemente per le braccia rudemente, e sorridevano come se avessero preso un bambino con le mani dentro il sacco. E Quis non mancò di fare la sua morale..

Ma quale disastro le ambizioni!
Esce di scena, scortesemente scortata,

Sua superbia sgradevole sgretolata,
Per tornare alla più umile delle situazioni.

E sopra di noi sentimmo craaaaa, craaaaa. Il corvo ci aveva raggiunto…

Eravamo di nuovo al vecchio noce, accanto alla capanna dei pescatori, i nostri genitori e Quis dietro il muro, vicino alla finestra. I fratelli pescatori arrivarono, e la donna venne loro incontro alla porta. Ora non c’erano storioni, e al posto del bastone in spalla portavano una grossa cesta, piena di piccoli pesci, argentati dalla luce matutina.

“Alborelle” disse la moglie con disgusto, sbattendo le mani contro la sua veste di povera lana. “Beh, meglio di niente! Pulitene un po’ per il pranzo prima di andare al mercato”.

“No, cara” disse il marito, fermo. “Noi siamo stanchi, vogliamo un attimo di riposo. Li pulirai tu. E poi ne sceglierai i migliori, e li porterai dalla fattucchiera Edburga come regalo. Senza chiederle niente. Capito?”

Per un momento la moglie sembrò incredula, stava lì a bocca aperta, gli occhi spalancati, come se nessuno le avesse mai parlato così. Poi, vedendo l’espressione convinta del marito, scrollò le spalle e annuì, e si mise al lavoro.

Picaldo e Pacoldo andarono a riposarsi all’ombra della quercia dietro la capanna.

Un silenzio, poi Picaldo, scuotendo la testa con meraviglia: “Pensa un po’, fratello mio, tutto questo perché un giorno ti cascò dal cielo un lombrico tra le mani”.

“Già! Ma non credo capitò a caso. Ci sarà stato lo zampino della fattucchiera Edburga anche in quello”.

“Dici? Forse hai ragione”.

Ricadde il silenzio.

“Picaldo,” disse il fratello dopo un po’, “non ti ho più chiesto. Qual era il terzo desiderio di tua moglie?”

Il fratello rise.

“Sicuro che vuoi sapere questa volta?”

“Sicuro!”

“Ghertruda ha detto così: voglio vivere come fossi la regina Teodolinda! Anzi, no, voglio… voglio vivere come fossi l’imperatrice Teodora… No! Voglio vivere come fossi Dio stesso!” E Picaldo rise di nuovo. “Assurdo, ovvio. Chi è come dio?”

Pacoldo non rispose. Guardava la loro capanna.

E sentimmo per l’ultima volta il verso del corvo, e questa volta dietro le nostre spalle. Girandoci, lo vedemmo descrivere grandi cerchi nell’aria, e spargere una nebbia fitta, come nella viuzza di Pavia quell’altro corvo. Capii subito che dentro quella nebbia avremmo trovato la via per casa. Ma come entrare senza farci vedere dai papà? Dovevamo aspettare che entrassero prima loro, e poi entrare noi, e poi… come funzionava? Uno cercava la via nella nebbia? E poi? Ci rendemmo conto che non sapevamo davvero come fare. Solo non dovevamo perdere di vista i nostri papà!

Poi il mio cuore si gelò in un istante. Il corvo aveva lasciato di fare la nebbia, ed era venuto a posarsi sopra un ramo del noce, proprio sopra le nostre teste! E faceva craaa craaaa… ci guardava… Ci avrebbe fatto scoprire!

“Cosa vede là il tuo corvo, Quis?” Sentii chiedere mio papà. Ahi! Dovetti pensare veloce. Dalla tasca tirai fuori una noce, e la gettai per terra. Il corvo, magico o no, non seppe resistere alla tentazione, e ci si lanciò sopra…

“Aaah, ha trovato da mangiare”. Disse il papà di Pietro.

Il corvo posò la noce tra due radici dell’albero, e con un preciso colpo di becco ne spaccò il guscio. Assaggiò il gheriglio, ma lo sputò con un’espressione amara. Quis guardò il nostro nascondiglio, proprio come se ci vedesse attraverso l’albero, e commentò.

Si vede quella noce ha un pessimo gusto,
C’è stato un passaggio storto, se non ho torto,
E chi l’ha portata qui non ha fatto il giusto.

Pietro mi guardò impaurito. Sapevo benissimo cosa stava pensando. Avevo rubato quella noce dal povero, generoso fruttivendolo Anselmo… Come avrei potuto sapere che le creature magiche sono disgustate dal cibo rubato? Per fortuna, i nostri genitori stavano già entrando nella nebbia.

“Grazie, come sempre Quis” diceva papà “ancora due volte, e poi avremo finito la tua basilica. Speriamo di farcela in tempo”.

Non ne dubito, finirete quasi subito.

“Non oso pensare cosa succederebbe se non riuscissimo”. disse Matteo, con aria grave.

Abbiate fede, il lavoro ben procede.

Mio padre annuì. Poi, con un piccolo inchino, entrò a passo sicuro nella nebbia, con Matteo al suo fianco.

Saremmo corsi dentro anche noi, ma Quis, con il suo viso angelico e sorridente, teneva lo sguardo di nuovo fisso sul nostro nascondiglio.

Cari ragazzi, perché restate là?
Non aspetto qui per sgridarvi,
Quello tocca ai vostri papà,
Voglio solo vedervi e salutarvi.

Mentre parlava, il corvo spargi-nebbia si posò sulla sua spalla. A questo punto, non c’era altro da fare. Uscimmo da dietro il noce. Pietro era ben mortificato, io invece facevo finta di essere dispiaciuto. Inutile mentire: mi ero divertito un sacco!

Ma su, ma basta facce contrite,
Volevate stare coi papà, lo so bene,
Ma ora, attenti, la via non smarrite,
Andate, e niente paura per le pene!

E con la testa indicò la nebbia.

Pietro ed io ci scambiammo uno sguardo, e ci mettemmo a correre. Ma quando sentii il gelo e l’umido della nebbia in faccia, mi girai, e guardai Quis.

“Ma… chi sei tu?”

Ah! La domanda posta

È la sua stessa risposta.

Ovviamente, rimasi lì un attimo, confuso. Poi Pietro mi prese per il braccio.

“Forza, andiamo!”

Ed entrammo nella nebbia.

“Che cosa troveremo?” mi sussurrò Pietro.

“Non lo so…” dissi io “è la prima volta anche per me, sai. Proviamo ad andare avanti”.

A passo lento avanzammo nel bianco denso… per quanto tempo? Non vi saprei dire. Esattamente come quando ci eravamo trovati nella nebbia all’inizio dell’avventura, dentro quello strano luogo che mio padre aveva chiamato ‘il Ghastengarda’, e persi l’orientamento, nello spazio e nel tempo. Infine, Pietro disse esultante:

“Ciottoli! I ciottoli della strada!”

Sotto i piedi c’erano i sassi tondi delle strade di Pavia. Ma eravamo ancora immersi nella nebbia più densa di sempre, e non si vedeva nulla.

“Ora che facciamo?” chiese Pietro.

“Non lo so… Camminiamo,” dissi, “sperando che sia la direzione giusta”.

Uscimmo dalla nebbia dentro la stessa viuzza della mattina. In fondo all’angolo vedevamo la gente passare sulla via principale, ed erano persone che conoscevamo, vestite in modo normale. Che meraviglia! Che sollievo trovarci di nuovo a casa!

Ma c’era qualcosa che non tornava. La luce… era molto diversa… era già sera, quasi l’ora del coprifuoco. Ma quanto tempo eravamo rimasti dentro il mondo del racconto? Non ci fu tempo neanche per pensarci, perché quelle persone in fondo alla via stavano correndo, e stavano urlando:

“Soldati! Soldati alle porte! Soldati!”

Quis – Capitolo 4

Ma tu crederesti alle parole di un pesce?

Illustrazioni di Francesca Duo

Io vi chiedo: com’è possibile passare da un luogo e un tempo a un altro, per magia, per miracolo, non lo so, senza lampi, nessun tuono, nessuna luce strana o fumo colorato? Un momento sei qua, poi sei là, e non ti accorgi nemmeno! L’unica cosa sicura è che c’entrava il corvo di Quis, che tutte le volte si faceva vedere con tanto di craaaaa craaaa.

Ci aveva trasportato dalla casa della fattucchiera a una solitaria curva del fiume, dove i due fratelli pescatori cercavano gli storioni fatati. Per via della magia, o per pura fortuna, eravamo un po’ distanti dai nostri padri, e dietro le loro schiene, e così ci nascondemmo velocemente nella sabbia, dietro un ciuffo di giunchi. Che cosa stava accadendo sul fiume?

Il fratello minore, Pacoldo, stava in una piccola barchetta con una canna da pesca in una mano, e con l’altra usava una larga pagaia per tenere la barchetta dritta nella corrente. Posò la pagaia per un attimo, intanto che infilava un verme sull’amo, ma l’esca gli scivolò dalle dita e cadde in acqua.

“Mannaggia, che giornataccia! Altro che storioni fatati, tutto mi va storto!”

Proprio in quel momento il piccolo tordo che avevamo visto dalla fattucchiera volò basso sopra la testa di Pacoldo, e lasciò cadere qualcosa. Per sua grande sorpresa, si trovò tra le mani…

“Che meraviglia! Tu caschi proprio a fagiolo, vermone. Vediamo come te la cavi come esca”.  Infilò il lombrico sull’amo, e lanciò in un punto profondo del fiume. Quis intanto commentava.

Chi storioni stregati a pescare va,
O follia o fortuna farebbe,
Saltare in salvo sapere dovrà
E nuotare bene non nuocerebbe!

A riva, su una spiaggetta di sabbia bianca, il fratello più grande, Picaldo, era seduto accanto a un’altra barchetta simile a quella di Pacoldo.

“Gli storioni fatati…” diceva. “Soltanto una fiaba, secondo me. Tu hai mai sentito nostro padre dire di averne pescato uno? Il nonno? Il bisnonno?”

“Mai” rispose Pacoldo “ma è vero che i cantastorie ne raccontano…”.

“Cantastorie! Bah! Quante cose raccontano… contadine che sposano principi… folletti che trasformano il fieno in oro… Non siamo più bambini…”

Pacoldo lo tagliò corto con un urlo.

“Un pesce!” La sua canna era piegata, il filo teso che più teso non si poteva. “Ma è grosso!” La barchetta incominciò a muoversi contro corrente; tenendo la canna stretta tra le ginocchia, cercava di tenersi con la pagaia. “È grosso, e forte!”

La barchetta però veniva trascinata, e sempre più veloce, da qualcosa sotto l’acqua, qualcosa di una forza impressionante.

“Maaaaaai seeeentiiiiiiitoooooo…” Pacoldo scivolava, correva davanti a tutta velocità, “uuuuuun peeeeeesceeeee coooooosììììììììììììììììììììììììììì!!!!!

Quis si divertiva:

Il pesce l’ha preso e lo porta a spasso!

Picaldo si lanciò nella sua barchetta.  “Passami la canna quando puoi! In due lo facciamo stancare!”

“Nooooooon èèèèèèèèèèèè faaaaaaaaaaciiiiileeeeeeeeeee….” diceva il fratello.

Picaldo diede tre, quattro colpi fortissimi di pagaia, e la sua barchetta sopravanzò quella del fratello. Se il pesce non cambiava rotta, certo si sarebbero scontrati! All’ultimo, con un altro colpo di pagaia si spinse leggermente da un lato, e mentre passava Pacoldo gli prese la canna. Incredibile!

La barchetta del fratello andava così forte che salì sulla spiaggia e finì in mezzo ai cespugli, non lontano da dove Pietro ed io stavamo a guardare. Ci abbassammo per quanto potemmo nella sabbia, trattenendo il fiato. Ma non c’era bisogno, stava già tornando al fiume, barchetta e pagaia in braccio. Quis approvava:

Fremente, il fratello torna sfrecciante al fracasso!

Nel frattempo, anche Picaldo correva su e giù per il fiume tra urla e spruzzi d’acqua. Ora, non pensate che io stia scherzando, se volete potete chiedere anche a Pietro, che non mentirebbe mai. A un certo punto dall’acqua saltò su un pesce enorme, dal naso appuntito, più lungo dell’uomo più alto, e con una grande gobba sulla schiena. Completamente dorato, scintillava nel sole, e aveva lunghi baffi – barbigli, li chiamano i pescatori – color d’oro alla base e viola luccicante alle punte e, in mezzo, tutti i colori dell’arcobaleno. Saltò talmente in alto che Picaldo, che teneva la canna strettissima, fu tratto su dalla barca con una lunga e alta curva in aria… E quando il pesce ricadde in acqua, trascinò giù anche il pescatore, che finì nel fiume con la canna ancora in mano.

Per fortuna, Pacoldo era lì vicino, e riuscì a mettersi con la barchetta sulla stessa rotta di Picaldo.

“Forza! Passamela! Questo pesce ce lo portiamo a casa!”

E, miracolò! Riuscì a prendere la canna dal fratello, e così toccò di nuovo a lui correre su e giù, sul pelo dell’acqua, veloce come il vento…

Che intrepido trucco, che trovata, che trapasso!

Ma forse vi state chiedendo: questo pesce non si stancava mai? Dico la verità, non credo che un uomo solo, per quanto forte e determinato, avrebbe mai potuto catturare quel pesce, ma questi due fratelli riuscirono tre, quattro volte a passarsi la canna, e senza mai lasciarsela sfuggire di mano. Infine il pesce smise di tirare, e venne a galla vicino alla riva con la testa fuori dall’acqua. Vedevamo l’amo infilzato nella bocca, e i grandi occhi color ambra. E il pesce incominciò a parlare.

Ripeto: voi avrete capito ormai che a volte io dico cose… beh, diciamo così, non completamente vere. Ma Pietro è un pezzo di pane, non ce la fa proprio a dire le bugie, e lui vi dirà subito che tutto questo è successo davvero. Anzi, prima che questo racconto sia finito accadranno cose ben più strane, vedrete! Quindi, come dicevo, il pesce incominciò a parlare:

“A voi la vittoria, fratelli pescatori! Nuoto nel fiume da oltre quattro secoli, e mai avevo rischiato di essere pescato. Ma siete stati anche tenaci, coraggiosi, e abili, oltre che astuti. E così, la mia storia finisce qui, e ora. Spero che vi ripaghi il giusto chi mi acquisterà, e che il banchetto sia degno dell’ultimo degli storioni fatati.”

I due fratelli si guardarono a bocca aperta. Erano bagnati, stremati, distrutti dalla lunga lotta con il pesce. Pacoldo si riprese per primo dalla sorpresa.

“Mi piange il cuore se penso che questo storione sarà servito sul tavolo di qualche ricco stasera. Non è giusto. È un animale nobile, valoroso. Secondo me dobbiamo far finta di niente, e lasciarlo andare”.

Picaldo sospirò.

“Sono d’accordo con te. È il pesce più bello che abbia mai visto, lo risparmierei volentieri. Ma ora che ho sentito un pesce parlare, comincio a chiedermi se i racconti dei cantastorie non siano veramente veri. E se dentro la pancia ci siano le monete d’oro e le gemme del re che annegò nel fiume tanti anni fa? Potrei accontentare mia moglie per sempre con una sola moneta d’oro”.

“Ha!” il fratello ridacchiò. “Sei grande e forte, ma hai la testa di coccio. Accontentata per sempre con una sola moneta? Impossibile. Meglio le alborelle, caro mio, meglio le alborelle…”

Ma riprese a parlare lo storione fatato.

“Ascolta tuo fratello, pescatore. È saggio. E in ogni caso, io non ho nella pancia né l’oro né le gemme del re Ariperto. Conosco bene questo tesoro, e in verità giace nel letto del fiume. Ricordo bene quel giorno, cent’anni fa, quando il re annegò. In verità, una volta ho anche provato ad assaggiare una moneta, ma sembrava piombo, non oro. Una cosa rubata ha sempre un pessimo gusto, e il re Ariperto aveva accumulato la sua ricchezza a discapito della gente, con tasse ingiuste, sequestri, e tante altre prepotenze”.

“Ahimé!” lamentò Picaldo. “Vedo la felicità svanire. Mi serviva, quel tesoro. Ora che cosa dirò a mia moglie?”

Il pesce lo guardò con comprensione.

“Se per te è veramente importante portare a casa una parte di questo tesoro, e se mi libererai, io ti manderò dei pesci minori della mia stirpe, storioni bianchi di fiume, come quelli che pescate per le feste. Nelle loro pance troverete una moneta d’oro. Ma ti avverto: da un tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie”.

“Veramente faresti questa cosa per me? Come posso sapere che manterrai la parola?”

“Picaldo!” disse il fratello. “Non dire così. Io di questo pesce magico mi fido. Dopotutto, gli risparmiamo la vita”.

Picaldo era turbato, ma dopo un lungo momento disse:

“Allora ti libero”. Tolse l’amo dalla bocca del pesce. Ma lo storione non se ne andò subito.

“Sono sicuro che tornerete a cercarmi in futuro” disse loro. “Per risparmiare a voi, e a me, la fatica di altre giostre sul fiume come oggi, vi insegno un modo per chiamarmi. Basterà chiamare a grande voce cuuuuuuuuuuì! Vedrete che io verrò. Così gli uomini dei secoli dimenticati usavano richiamare la mia gente. Io sono l’ultimo rimasto, ma non ho dimenticato quel richiamo. Per ora, vi saluto”.

E con questo, lo storione fatato scomparve. Quis, al suo solito, commentò:

Parlare con pesci può parere pazzia,
Oppure parodia,
Ma piace a me come pura poesia!

Qualche tempo dopo, i due fratelli appesero quattro storioni – bianchi e lunghi meno della metà di quello fatato – a un bastone, si misero il legno sulle spalle, e a passo pesante tornarono alla capanna. C’era un largo tavolo da lavoro davanti alla porta, e vi posarono i pesci, e Picaldo prese un coltello per pulirli, ma in un batter d’occhio apparve la moglie, dicendo:

“A me il coltello, Picaldo, questi storioni li pulisco io!”

“Ma lo sai fare, moglie? Non hai mai voluto provare. Guarda che questi puzzano come tutti i pesci”.

“Zitto!” e gli prese il coltello “te l’ho visto fare mille volte, purtroppo. Ora fatti da parte, sarò veloce”.

A grande fatica, con vivo disgusto, incominciò a pulire i pesci…

Ma quale forza che trovi nell’ambizione!
Non avevi mai alzato un dito

Per aiutare il tuo marito
Ma l’incanto dell’oro è più forte d’una pozione.

Nel ventre del primo pesce non c’era niente, e lei stava buttando le budella per terra quando il marito disse:

“Ma no, cara, non si butta via. E come faranno la colla se tu butti via la vescica? Vale quanto tutta la carne”.

“E portala via, allora, non sopporto la puzza”.

E così passò al secondo pesce. Ma anche il ventre di questo storione non aveva altro tesoro che la vescica. E così andò anche con il terzo. La faccia della donna diventava sempre più cupa, e a questo punto sbatté il coltello sul tavolo.

“Inutile! Qui non c’è nessun tesoro. Finisci tu!”

E se ne tornò dentro casa.

E così era troppo faticoso
Finire un lavoro laborioso.
Infatti, mi sembrava miracoloso
Per il tuo carattere borioso!

Ora, con grande pazienza, Picaldo e Pacoldo sfilettarono i primi tre pesci, ricoprendoli di muschio e mettendoli con cura in cestini di erba bagnata per tenerveli al fresco. Solo ora, con la carne dei primi pesci al sicuro, passarono all’ultimo storione. E qui, aprendolo, trovarono due nuovi tesori.

“Uova!” disse Pacoldo, felicissimo. “Uova per il mercato, per il tavolo di un nobile…”

“Una moneta d’oro!” urlò invece Picaldo. “Qui, proprio qui nella pancia!”.

Avete capito? Non solo quei pesci avevano carne e uova abbastanza per una festa a palazzo con tanti nobili, musica, balli… ma nella pancia avevano trovato una moneta d’oro! La moglie poteva dunque sentirsi soddisfatta?

Quis – Capitolo 3

Il tesoro del fiume

Illustrazioni di Francesca Duo

La terra era bella morbida. Per fortuna, perché siamo caduti proprio sul sedere, ma senza farci male. Che cosa? Sulla terra? Non dovevamo cadere dentro l’acqua? Ebbene, amici miei, eravamo dentro un mondo fatto di racconto: il Ghastengarda, l’aveva chiamato papà. Al suo interno, ogni magia era possibile. E ora ci trovavamo sull’erba bagnata e fredda, anzi, quasi ghiacciata, e attorno a noi la nebbia andava scomparendo. Nel giro di pochi respiri, infatti, si era alleggerita così tanto che riuscivamo a vedere tutto attorno a noi. Eravamo sopra una piccola altura, in mezzo a dei cespugli invernali senza foglie, e per fortuna i papà erano una ventina di piedi distanti, più in basso. Ci nascondemmo dietro quei cespugli a guardare. I nostri papà stavano parlando con…

…un ragazzino bello come un angelo, allegro come il sole. Era come se il figlio più bello e bravo del nobile più ricco della città avesse fatto cento bagni profumati, e si fosse messo vestiti lavati mille volte, e… e che ne so, non riesco a descrivere quanto era… pulito. E voglio dire, simpatico. Non potevi che volergli bene sin dal primo sguardo. Avremmo poi scoperto che il suo nome – piuttosto strano – era Quis.

Ora parlava con loro. Matteo aveva una faccia meravigliata quanto le nostre, ma il mio papà sembrava completamente a suo agio – anzi, si stava un pochino divertendo per la sorpresa del cugino, secondo me. Il ragazzino angelico gli stava indicando qualcosa più lontano, in fondo in fondo, verso il fiume. Perché vedete, eravamo in alto sulle rive del Ticino, credo vicino a San Salvatore fuori le mura. A sinistra, in lontananza, riconobbi il ponte romano, e più vicino le baracche dei mattonieri e le barche dei pescatori.

…non ho mai visto un re sì avaro

Diceva il ragazzino.

Più del sangue, l’oro gli è caro.
Ha raccolto i beni della gente
Lasciandole poco o niente,
E ora che è fuggito dalla battaglia
Tutti vedono quanto è canaglia.
Ma a lui non importa, basta riempire
Le tasche di tesoro, e partire.

Ecco altre due cose incredibili di Quis: una è come parla. Sembra una filastrocca. Non so come fa, io ci ho provato e non riesco. Magari una prima rima mi viene in tempo, ma se poi vado avanti m’impappino e finisce lì. La seconda cosa è: quando sei dentro il Ghastengarda senti Quis dovunque sia, fa niente se sta a due piedi da te, o a mille. E mica grida, no no! Parla piano, e tu lo senti sempre.

Intanto, io e Pietro ci stavamo guardando e, vi ammetto, avevamo tanta paura. Ora eravamo stati trasportati da una strana magia fuori dalla città, e vi dirò di più, fuori dal tempo! Perché i mattonieri e i barcaioli laggiù sulle sponde del Ticino, erano tutti vestiti come la gente delle fiabe, come la gente nei dipinti più antichi nelle vecchie chiese della città, quelle crollate a metà nel grande terremoto d’anni fa. E la città, che un po’ vedevamo da lì, era diversa, più piccola, più legno e meno mattone, e non c’erano le torri. Lo dico ancora, avevamo paura.

Cosa fare? Uscire dai cespugli, farci vedere, e accettare una certa punizione, o restare lì nascosti aspettando di tornare nel nostro mondo e sperare ancora, in qualche modo, di farla franca? Voi che cosa avreste fatto?

Ecco che implora, blandisce, minaccia,
Ma il cuore dentro gli si ghiaccia.

Di nuovo Quis. Di chi stava parlando?

Ora vedemmo che i barcaioli parlavano con un signore alto e un po’ grasso, e mezzo calvo. Era vestito da povero, ma alle dita, che sembravano piccole salsicce, portava grossi anelli d’oro, con delle enormi gemme colorate, che certamente non riusciva più a togliersi. Sembrava muoversi con fatica, e sudava… eppure faceva veramente freddo.

“…ma dovete ubbidire, io sono il vostro re! Portatemi all’altra sponda, subito…”

“Ma vostra maestà…” diceva uno dei barcaioli, un giovane dall’aria timida. Un altro, più grande e più scaltro, lo interruppe rozzamente.

“Ma quale maestà, sciocco ragazzo? Io vedo solo un grasso arrogante in vecchi abiti strappati. Un re va in giro così?”

Quis era divertito:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Un re travestito mi sa di asinaggine.
Sempre andavi, sospettoso, girando
Vestito da povero, la gente spiando,
Ma tutti lo sapevano, ci voleva poco fiuto.
Ora che stai cercando soltanto un aiuto
Ci provi ancora con lo stesso inganno?
Ma certo che non ti salveranno!

Ora sentimmo altre voci ancora, che urlavano: “È lui! È lui! Ariperto l’avaro! Ariperto il codardo! Nel nome del Signore, catturatelo!”

E dalla radura sotto le mura della città, arrivavano soldati dall’armatura stranissima, con scudi tondi, proprio come nei più antichi affreschi. Brandivano lunghe lance, ed erano infuriati. L’uomo dagli anelli d’oro si fece bianco come la calce viva, e cominciò a correre verso il grande fiume. Beh, correre… Dondolava, faticando come un’anatra sulla terra… Avete presente? Con tanto di lamenti e piagnucolii entrò nell’acqua gelida, mettendosi a guaire come un cagnolino.

I soldati, arrabbiati, arrivarono sulla riva quando lui era già nell’acqua profonda, e stava cercando di nuotare. Si fermarono: ovviamente, non valeva la pena di seguirlo, il suo destino era segnato. Quis scosse tristemente il capo.

Ma quale forza che trovi nella disperazione!
Non avevi mai fatto una corsa sì spedita,
Ma è l’oro che hai rubato dalla tua nazione
Che vuoi salvare ora, oppure la tua vita?
Ah! Le tasche son pesanti, e l’acqua è profonda,
Sbracci e sgambetti, m’arriverai all’altra sponda?

E infatti, proprio in mezzo al fiume, vedemmo che la corrente stava trascinando via l’uomo, che non ce la faceva più a stare a galla. Incredibilmente, ormai non tentava nemmeno più di nuotare, e teneva le braccia alzate fuori dall’acqua, stringendo nelle mani monete d’oro, rubini e zaffiri. Ben presto affondò.

I soldati stettero a guardare ancora qualche tempo, ma l’uomo non emerse più dalle acque.

“Si è punito da solo” disse uno.

Proprio in quel momento, sentimmo il verso di un corvo, craaaa craaaa! Guardammo in su. Col pensiero tornai al corvo spargi-nebbia che avevamo visto nella viuzza di Pavia, ma poi vidi che questo corvo era più vecchio, con la testa quasi calva, e piume grigie sulle ali. Girava lento, proprio sopra le nostre teste, e gracchiò ancora…craaaa, craaaa! Quando abbassammo lo sguardo… non eravamo più presso il fiume.

“Il tesoro del fiume, il tesoro del fiume… Bah!”

Cosa? Di chi era questa voce? Dov’ero?  Cos’era successo? Ma quanto mi sentivo disorientato! Non eravamo più sull’altura sopra il fiume. Io e Pietro ora ci trovammo sotto un vecchio noce, ed era primavera, perché le foglie erano piccole piccole, e d’un verde chiaro, le primissime dell’anno. Ma come? Cos’era successo? Non eravamo entrati in nessuna nebbia magica questa volta… semplicemente eravamo lì.

“Tuo padre vi ha preso in giro, te e tuo fratello credulone quanto te!”

Era la voce di una donna e veniva da una povera, piccola capanna di legno, tutta squadrata e pendente da un lato; il tetto sembrava che potesse cadere da un momento all’altro, e una stretta finestrella si apriva nella parete più vicino a noi. Fuori la finestra stavano i nostri genitori e Quis, intenti ad ascoltare la donna.

“Ma quale tesoro del fiume? Come ha potuto mio padre lasciare che io ti sposassi? Come ha potuto? Mi ha abbandonata qui, a questa vita misera, in mezzo a pesci puzzolenti… Per sempre!”

“Mia cara, non dire queste cose” giunse la voce di un uomo. “Mio padre di fatto non ha mentito. Ogni giorno portiamo al mercato un pezzo del tesoro di cui parlava…”

“Tesoro? Tu chiami tesoro un cesto di… di… minuscole alborelle?”

“Prima di lasciare questo mondo, mio padre ha fatto promettere a me, e a mio fratello di lavorare sodo ogni giorno con le reti a cercare il tesoro del fiume. E così ogni giorno portiamo al mercato sempre più pescato. Presto avremo abbastanza denaro per cambiare il tetto, e forse costruire un’altra stanza…”.

“Sei tu che non hai compreso un fico secco, marito! Ti do ancora una possibilità. Ma questa volta non lascio la mia sorte nelle tue mani. Vado dalla fattucchiera Edburga, ci deve un favore. Tornerò tra poco”.

E sentimmo sbattere una porta – in verità era più il suono di una porta che si rompeva – e una donna alta, altezzosa, dai capelli biondi e gli occhi scuri, si allontanava dalla capanna a grandi passi rabbiosi. I nostri padri e Quis la seguirono a una distanza discreta, per non farsi notare. Quis commentava, ridendo:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Questa moglie ambiziosa mi sa di asinaggine.
Se dalla fattucchiera Edburga sta andando
Per chiedere un favore
In questo nero umore
La porterà soltanto allo sbando.

Ancora una volta Pietro ed io ci guardammo. Cosa fare? Seguirli?

“Andiamo” disse lui, “e facciamoci vedere da loro. Dai, Faro, ora basta. Arrendiamoci, i nostri papà ci daranno due sberle, e finirà lì. Non voglio smarrire la strada e rimanere per sempre in questo strano posto… tempo… mondo… non so bene che cosa”.

“No, dai, stiamo andando alla grande. Dobbiamo solo tenerli d’occhio. Prima o poi torneranno a casa, e quando succederà torneremo anche noi, senza farci vedere, come niente fosse”.

Pietro non era convinto, ma non gli diedi tempo per pensare.

“Forza Pietro, andiamo, se no li perdiamo di vista”.

Era vero, i due e Quis stavano per scomparire nel boschetto. Pietro mi lanciò uno sguardo incerto, ma si mise a camminare.

Quis aveva parlato di una fattucchiera Edburga. Chi era? Di lì a poco avremmo capito che si trattava di una donna estremamente anziana, che parlava strano e viveva in una casetta sotto un gigante, maestoso pioppo nero. Beh, casetta… dire così fa pensare a una casa fatta di legno, almeno. Ma al posto delle pareti e del tetto c’erano solo vecchissimi mantelli di lana appesi ai rami, uno accanto all’altro e cuciti insieme, e poi ricoperti di piume di uccelli d’ogni colore e forma. Una sorta di tenda piumata. Era la casa più strana che avessi mai visto. Ma senza dubbio era la casa giusta per una fattucchiera.

Edburga stava seduta per terra, e vestiva un vecchissimo mantello di lana ricoperto di piume. I suoi occhi erano bendati, e capii che era cieca. Aveva acceso un fuoco, e stava arrostendo qualcosa. Dal profumo sembrava pesce.

La moglie del pescatore le si avvicinò.

Giunti sul posto, Quis e i nostri genitori si mantennero nascosti, per non farsi accorgere e noi, doppiamente, ci nascondemmo alla moglie del pescatore e a loro.

“Edburga,” la moglie del pescatore non la salutò nemmeno, “quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

La fattucchiera sorrise sotto la benda.

“Buongiorno”.

“Dico io, quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

“Tutti i pescatori mi portano qualcosa di tanto in tanto. Tuo marito si chiama Picaldo, e suo fratello Pacoldo, vero? Ragazzi per bene”.

“Anche il padre di Picaldo lo faceva, vero?”

“Certamente, e anche suo nonno. Uomini saggi e generosi”.

“Allora tu ci devi… non so quante centinaia di pesci, da generazioni… Adesso basta. Dicono che sei una fattucchiera potente. Vediamo! Quando mi sono sposata, mio suocero ha promesso che Picaldo e Pacoldo avrebbero trovato un tesoro nel fiume. Invece ogni giorno portano a casa i pesci più piccoli che esso contiene, le alborelle, e niente tesoro. Io sono stufa. Fa che peschino d’ora in poi i grandi storioni fatati che hanno ingoiato il tesoro del Re Ariperto, come dicono i cantastorie!”

Dopo un lungo silenzio, la fattucchiera rispose:

“Sicura, mia cara? Le alborelle sono più gustose degli storioni, hai mai provato a farle in carpione?”

“Non mi prendere in giro! Voglio vivere come una donna normale, con una casa decente, e vestiti decenti. Fa come ti dico, e ti sarai sdebitata con noi di tutto il pesce che hai mangiato “.

“Allora, farò come chiedi. Ma dovrai darmi uno dei tuoi capelli”.

“Uno dei miei…? Ah, sì. Per la magia. Certo!” E con una smorfia di dolore, si strappò un lungo capello chiaro dalla testa. Lo porse alla fattucchiera, e vedemmo che le tremava un po’ la mano. Non era sicura di sé come sembrava.

La vecchietta ora fece qualcosa di veramente strano: tenne il capello tra due dita, ci soffiò sopra leggermente, per tutta la lunghezza e poi…  lo lasciò cadere. E qui successe una cosa che mi fece venire i brividi… il capello cominciò a muoversi come… come un verme, e infilarsi sotto la terra. Giù, giù, e giù, fino a scomparire del tutto. Poi, con espressione determinata, la fattucchiera scavò con le mani, e presto tirò fuori dal suolo un grasso lombrico, lungo esattamente quanto il capello.

La moglie guardò il tutto con una faccia tanto affascinata quanto disgustata. La fattucchiera, calma e decisa, sussurrò qualcosa al verme, che smise di agitarsi, e si calmò. Dopo qualche attimo un pennuto, credo che fosse un tordo, venne fuori da un cespuglio vicino, si posò sulla mano della fattucchiera, prese in becco il lombrico, e volò via.

“È questa la tua magia, fattucchiera?” chiese la moglie del pescatore. Era chiaramente impressionata, ma delusa.

“Questa è la mia magia” annuì Edburga.

“Bene, arrivederci”.

E con questo la donna si allontanò più in fretta possibile.

Craaaa, craaaaaa!

Sentimmo di nuovo il verso del corvo dall’alto. Guardammo su a quelle ali nere e grigie… Battemmo le palpebre, e tutto d’un tratto non eravamo più alla casa della fattucchiera Edburga.

Quis – Capitolo 2

Il Ghastengarda

Illustrazioni di Francesca Duo

Quella mattina mi svegliai prestissimo. Non riuscivo a dormire per l’emozione: avrei avuto finalmente un compagno della mia età al cantiere. Pietro si era riposato bene e si svegliò pieno di energia anche lui.

“Oggi andiamo in cantiere, vero?” chiese.

“Certo, a scuola prima di tutto” disse Matteo.

“Voi ragazzi sì,” fece mio papà, “noi grandi abbiamo un viaggetto da fare. Tu sai, Faro. Uno di quei viaggi speciali”.

A sentire questo, la mamma alzò lo sguardo dal paiolo dove scaldava la ricotta.

“State attenti, Faramundo,” disse seria, “e spiega bene a tuo cugino ogni cosa, mi raccomando”.

Io bruciavo di curiosità, ma non dissi niente. Avevo già tentato più volte di convincere papà a lasciarmi accompagnarlo durante quei viaggi speciali, come li chiamava lui, ma non c’era niente da fare. Io ero ancora troppo piccolo e papà non sentiva ragione…

Dopo colazione, mentre andavamo alla basilica, Pietro mi sussurrò:

“Che cos’è questo viaggio, Faro? Mio papà va via?”

“Solo fino al pomeriggio, stai tranquillo”. Povero, era agitato, aveva la faccia preoccupatissima.

“Ma Faro, voglio stare con lui”. Se ci pensate, aveva appena visto casa sua distrutta, era fuggito per cambiare città, non vedeva più la mamma e le sorelle da giorni.

“Ah… certo…” Mi sentivo in imbarazzo. Lui mi guardava con quegli occhioni grandi e sentivo che si sarebbe messo a piangere di lì a poco. “Ma non possiamo andare, mio papà non mi fa mai andare con lui, dice che sono troppo piccolo. Allora, lo sei anche tu”.

“Ma tua mamma gli diceva di stare attento. Vuol dire che è pericoloso!”

“Non lo so, non sono mai andato. Sai, questi viaggi sono un gran mistero. Il papà parte sempre la mattina e torna prima di sera, ma stanco morto e affamato, quasi come se fosse in viaggio da giorni. Dopo cena ci racconta sempre una nuova fiaba fantastica. Quella è la parte migliore. Poi in cantiere si mette a lavorare su un nuovo blocco di pietra, scolpendo la storia di quella fiaba”.

“Voglio andare con lui”. Pietro era deciso. Cosa potevo dirgli? Ora, voi direte che per me era la scusa buona per combinare la solita mia birbonata, e un po’ vi do ragione, ma vi giuro che era proprio commovente vedere quanto Pietro fosse preoccupato. Cosa dovevo fare?

“Senti Pietro, ho un’idea. Quando lasceranno il cantiere per il viaggio, perché non li seguiamo in segreto? Tanto, non è che vanno lontano, è roba di una mattina e un pomeriggio. Restano nei paraggi della città. Ce la fai a camminare ancora un giorno?”

“Sì, sì!” era contentissimo. “Facciamolo! Io non conosco queste zone, i nascondigli. Mi fai tu da guida, va bene?”

“Così è!”

Ma subito dopo Pietro si pentì.

“Non è che ci cacciamo nei guai, vero?”

“Ma no, dai, cosa vuoi che sia…” dissi con grande disinvoltura. “Se il maestro ci becca, son solo legnate. Ma quello è legno dolce, quel bastone, fidati, l’ho sentito sulla pelle tante di quelle volte… Se invece i nostri papà ci scoprono, qualche pedatina così, con affetto. La catastrofe è se la mamma lo viene a sapere…” Sgranai gli occhi tutto esagerato, come un attore di strada a carnevale. “Niente ricotta domattina!”

Pietro fece una risatina un po’ forzata. Capii che non era il tipo di ragazzo che fa certe birbonate, ma l’ansia di non separarsi dal padre era troppa.

“Va bene” disse. “Ci sto”.

Qualche tempo dopo, a scuola ci eravamo sistemati per terra in fondo, dietro al gruppo degli altri ragazzi, e io tenevo un occhio sul maestro Paolo e l’altro su mio padre, che parlava con i suoi lavoranti, spiegando che lui sarebbe andato via per tutto il dì, e che cosa dovessero fare durante la sua assenza. Il cugino Matteo ascoltava, e guardava i lavori non ancora finiti.

Ben presto i due si allontanarono. Mi sarei alzato subito, se non fosse che Matteo guardò più volte indietro, verso Pietro, e vidi che era dispiaciuto quanto suo figlio di separarsi da lui per un giorno. Solo quando avevano svoltato l’angolo, sussurrai a Pietro:

“Non appena si gira il maestro… Pronto… Ora!”

Tenendoci bassi, senza fare rumore, in un battibaleno ce l’eravamo svignata.

“Forza, più veloce” ripetevo a Pietro. E i nostri piedi facevano tap tappa tap, tap tappa tap sui ciottoli. “Corri, co…” mi interruppi a metà parola. Passavamo davanti alla bancarella di Anselmo. La mamma comprava sempre da lui frutta fresca d’estate e frutta secca d’inverno.

“Ciao, Faro” disse lui, sempre gentile e allegro. “Perché tanta fretta?”

“Oh, ah…” mi fermai un attimo. Anselmo era solito regalarmi qualche frutto quando passavo con la mamma. E se passavo con un amico? “Ho lasciato una cosa a casa che mi serve per la scuola” dissi, senza mai togliere gli occhi dai nostri padri che si allontanavano tra la gente in fondo alla via. “Ecco, questo è mio cugino Pietro, è arrivato in città da poco. E… anche lui si è dimenticato a casa una cosa.”

“Oh, piacere, piacere, Pietro. Ah, bene, anche tu figlio di capomastro, allora? E come va la scuola, ragazzi? Sapete quanto siete fortunati, vero? Io non ho mai imparato le lettere”.

“Sì” disse Pietro tutto serio “è proprio una grande fortuna”.

“Signor Anselmo” dissi io, “siamo di molta fretta, mi spiace…”

“Oh, certo, certo, ragazzi, andate. Ma prima, non volete prendervi una castagna a testa?”

Urrà! Bravo Anselmo! Pensai.

“Oh, se proprio insisti…” Non volevo perdere di vista i nostri padri, ma le castagne erano troppo belle e invitanti. Cominciai a cercarne qualcuna grande. Anselmo era un bonaccione, ma mi conosceva.

“Prendi una qualsiasi, Faro, e solo una! Il Signore guarda”.

Pietro aveva già preso una castagna senza troppo pensarci su…

Scelsi comunque una castagna tra le più grandi e dopo un: “grazie ancora Anselmo, a presto!” riprendemmo la corsa. E appena in tempo, perché proprio in quel momento i nostri genitori stavano girando l’angolo in fondo alla strada.

Correvamo, correvamo. Appena ripreso il passo dei due, offrii una noce a Pietro. Lui mi guardò sbalordito. “Hai preso anche delle noci? Ha detto che Dio guardava!”

“Tranquillo, guardava le castagne!”

Eravamo giunti al punto dove avevano svoltato i nostri padri. Sapevo che lì si apriva una viuzza stretta e tortuosa, a tratti coperta da case costruite sopra la strada come se fossero ponti.

Ci fermammo, nascosti dietro il muro che faceva angolo, e pian piano demmo una sbirciatina nel vicolo. I nostri padri stavano di spalla, e guardavano in alto. Guardammo su anche noi. I palazzi erano stretti, e si vedeva poco cielo, ma era azzurro, senza una nuvola, solo i fili di fumo dei camini. Craaa, craaaaa sentimmo, e poi un graffiare di artigli e di becco sulle tegole di un tetto, e ali che battevano. Nero, ma più nero della pece, apparve un corvo enorme dal becco grigio e lungo, ali come ombre, e occhi profondi come pozzi.

Volò giù dal tetto e si posò sul davanzale di una finestra dall’altro lato della viuzza. Volando aveva lasciato dietro di sé una scia di nebbiolina sospesa in aria, come quella delle prime mattine di settembre, così leggera che quasi non si vedeva.

Il corvo guardò mio padre per un lungo momento. Mio papà guardò il corvo. Era come se si conoscessero. L’uccello riprese a volare nello stretto vicolo, su e giù, posandosi di tanto in tanto sui davanzali, lasciando sempre un serpentello di nebbia sospesa in aria, e che lì rimaneva senza svanire. Anzi, era come se si allargasse. E i vari serpentelli, che diventavano sempre più grandi, s’intrecciavano, riempiendo la viuzza, e la nebbia diventava sempre più fitta; fin quando tutto divenne bianco. Allora il corvo svanì nella nebbia, e i nostri genitori pure!

Io e Pietro ci guardammo. Leggevo sulla sua faccia tutta la meraviglia e la confusione che sentivo in me. Per un istante con gli occhi ci parlammo. I suoi dicevano:

Che facciamo? Andiamo avanti, o torniamo al cantiere? Io quasi quasi tornerei, tutto questo è troppo strano…

I miei dicevano:

Macché! Tornare a prenderci le bastonate per una birbonata compiuta a metà? Andiamo avanti!

Vinse il mio sguardo, e li seguimmo con passo silenzioso. Dentro la nebbia era più facile non farci notare, ma c’era anche più rischio di perderli di vista. Per fortuna conoscevo bene la viuzza, e sapevo che girava prima a destra, e poi a sinistra, proprio così…

Un attimo! Girava di nuovo a destra. Ma non era fatta così quella strada, a quel punto doveva girare a sinistra! Ma che stava succedendo? Mi spostai più vicino al muro per seguirlo, e vidi che, al posto dei mattoni rossicci dei palazzi di Pavia, c’erano muri lisci, bianchi, intonacati. C’erano anche stranissimi disegni, fatti con una pittura che sembrava non avere spessore, e senza tratti di pennello, come se quei colori così vivaci si fossero posati sul muro da soli. Ma quanti dipinti! Uno era più strano dell’altro, alcuni grandi, alcuni piccoli. Il primo che mi colpì fu una stella che era allo stesso tempo un arcobaleno, con tanti raggi luminosi davanti a… sembravano (quasi) petali di colore, non saprei spiegarmi meglio. Un altro dipinto sembrava dapprima una torre, poi una croce fatta di tanti quadratini colorati, ma poi capii che era una sorta di portale. Poco più in là vedemmo una spada di fuoco.

Di nuovo io e Pietro ci parlammo solo con gli occhi. I suoi dissero:

Tu non sai dove siamo, vero? lo capisco dalla tua faccia. Che cosa succede?!

I miei risposero:

Non ne ho idea, non perdiamoli di vista: adesso ho un po’ di paura…

Intanto anche loro si erano fermati un po’ più avanti per guardare alcuni dipinti, e mio padre diceva:

“Ecco, Matteo, questa è la magia più profonda del Ghastengarda. Trovare il disegno giusto per aprire il passaggio verso il racconto”.

“Cerco di capire” disse Matteo, incerto. “Quale racconto?”

“Rimangono tre spazi vuoti nella facciata, uno vicino a ciascuno dei portali. È mia intenzione scolpire le tre virtù teologali”.

“La Fede, la Speranza e la Carità”. Matteo annuiva. “Tre dame, la prima porta la croce, la seconda…”

“No, no. O meglio, forse sì, forse no. Non lo sappiamo ancora. Lo scopriremo soltanto quando si aprirà il passaggio.

Sarà lui stesso a mostrarcelo. Entreremo dentro il racconto che poi andremo a scolpire. Da quale cominciamo, dalla Fede?”

“Va bene” Matteo si stava chiedendo se mio padre fosse matto? “Sì… la Fede… è la prima nell’ordine”.

“Bene, e quale di questi disegni può essere la Fede?”

Matteo studiò il muro. Noi non vedevamo da lontano quali disegni guardavano. Dopo un lungo momento, Matteo indicò un pezzo di muro, dicendo:

“È questo, ne sono sicuro”.

Mio papà annuì.

“Anch’io ne sono convinto. Forza Matteo, posaci la mano sopra, e vedremo”.

Un po’ incerto, allungò la mano verso il muro. Non vidi bene quello che successe per la nebbia, ma sentii uno strano rumore, un movimento dell’aria, come un lento respiro, quasi un sospiro. Poi di nuovo la voce di papà.

“Vedi? Sei pronto?”

E accanto a me Pietro diede un piccolo sussulto quando mio padre fece due passi in avanti e… scomparve dentro il muro, seguito da Matteo.

“Andiamo! Veloce!” gli sussurrai. Non c’era bisogno di convincere Pietro, si era già mosso.

Arrivando al muro dov’erano scomparsi, trovammo un’apertura scura a forma di arco, dalla quale veniva un leggero bagliore pallido. Dandoci la mano, entrammo.

Era una galleria lunga e stretta, con il soffitto a volta. Anche qui, le pareti erano coperte dagli stessi strani disegni di prima, ma ora capii che i colori rilucevano, generando il bagliore che avevamo visto da fuori. In quella luce si vedeva poco, ma era molto meglio che non vedere affatto. Davanti a noi sentimmo i passi dei nostri genitori echeggiare e ci affrettammo a seguirli, il più silenziosamente possibile.

“È sempre così, dentro il Ghastengarda?”

 Era la voce di Matteo. Io e Pietro ci scambiammo uno sguardo. Il Ghastengarda?

“Ogni volta è diverso” disse papà. “È questa la sua magia. Il luogo è il racconto… Per questo dico, se vogliamo andare avanti dobbiamo avere fede. Perché questo è il racconto della Fede. Hai capito cosa intendo?”

Dopo una pausa: “Credo di sì… andare avanti nel buio”.

“A volte si deve, no?”

Matteo rise nervoso.

“Ultimamente, quasi sempre”.

Eravamo rassicurati dalle loro voci davanti a noi, ma… la galleria era tortuosa quanto e più della viuzza e presto avevo perso ogni senso di orientamento e del passare del tempo, e sempre più avevo la sensazione che l’unica via fosse in avanti, e non in dietro.

Dopo non so quanto sentii mio padre: “È un lago. O è un fiume?”

Acqua? In una galleria? Mi vennero i brividi.

“Ecco, barchette con le pagaie; le vedi?”.

“Secondo me, dobbiamo attraversare”.

“Verso…?”

“Appunto. Non sappiamo. Tranquillo, il nonno diceva sempre: nel Ghastengarda devi solo andare avanti”.

Ora sentimmo il suono leggerissimo dell’acqua che lambiva il legno di una barchetta, e di una pagaia che veniva tuffata nell’acqua. Presto arrivammo anche noi alla riva. Non eravamo più in una galleria, anzi, nemmeno in una caverna, perché non c’era nessuna eco, solo una distesa d’acqua nel quasi-buio, e delle barchette tonde, ciascuna con la sua pagaia larga e piatta.

“Hai mai usato una barca?” mormorai a Pietro.

“Mai”.

“Io ci sono stato qualche volta… sul Ticino… non usavo io i remi, ma non sembrava difficile. Scegli tu la barca”.

Pietro non era un ragazzo complicato. Indicò quella più vicina. Salimmo a bordo un po’ goffamente, come fa sempre chi non è abituato alle barche, e impugnai la pagaia per spingerci via dalla riva.

“Faro, aspetta…” disse Pietro quando ormai avevo dato la prima spinta. “Quale direzione?”

Niente, era troppo tardi, eravamo alla deriva nell’acqua. La mia faccia doveva essere una maschera di paura. Lo era quella di Pietro…

Un attimo. Come facevo a vedere la faccia di Pietro? Da dove veniva la luce?

Guardandoci attorno, lontano vedemmo una forma bianca riflessa sull’acqua, sembrava proprio la luna piena che a volte si specchia nel fiume, increspata da onde leggere. Ma come faceva ad esserci se in cielo la luna non si vedeva? Non potendo fare altro, spinsi la barca con la pagaia verso quella luce.

Fui sollevato nel vedere la sagoma dei nostri padri nella loro barchetta, che si avvicinavano anche loro a quella stessa macchia di luce sull’acqua.

Man mano che ci avvicinavamo, la luce si spandeva e si alzava indistinta e senza forma dall’acqua, diventando una nebbia luminosa. Dapprima inghiottì la loro barchetta e poi, dopo qualche tempo, pure la nostra. Attorno a noi non era più nero, ma bianco.

Amici lettori, non so se voi nel vostro mondo, o vostro tempo, quel che sia, avete la nebbia come l’abbiamo noi nella nostra Pavia! Tutti pensano di sapere cos’è la nebbia, poi vengono a Pavia e devono ricredersi. La nostra è qualcosa di speciale. Può essere bianca e luminosa quanto vuoi, ma è alla pari di una notte senza luna, perché comunque non vedi un bel niente. Vi giuro, nemmeno l’acqua sotto la barca. Così, quasi per accertarmi della sua presenza, allungai una mano in cerca del contatto freddo. Santo cielo! Non si vedeva… perché non c’era più… la nostra barca galleggiava… sulla nebbia!

E proprio in quel momento, una voce giunse da… da dove?

La nebbia giace sotto il sole,
Sopra i mari, i fiumi e i monti,
Densa e bianca, nuvola di parole,
Sorretta da un dolce vento di racconti.
Mastri scultori,
Padri costruttori,
Saltate nel profondo
Del mio misterioso mondo!

“È Quis” disse mio papà. Seguendo la sua voce, riuscii appena appena a vedere le ombre vaghe di due uomini in una barchetta.

“Ma… Ci sta dicendo di saltare giù?” Matteo era sorpreso quanto noi.

“Sì, è proprio quello che dice” disse allegro papà. Certo si stava divertendo!

“Ma… ma è follia!”

“No, no, ha senso. Un salto di fede”.

“Lo stai dicendo sul serio?”

“Meno male che non si vede niente. Altrimenti non so se riuscirei…”

“A fare…?”

“Questo!” e una delle ombre… si alzò e… saltò giù dalla barca e… scomparve…

Ero talmente sorpreso, e anche spaventato nel vederlo scomparire nella nebbia, che feci un sussulto, balzai in piedi, e mi coprii la bocca con le mani. Eh, sì, con entrambe le mani.

Lo so, lo so… che sciocco! Ma sapete, io sono un ragazzo di città, cresciuto tra mura e muri e vie e piazze. Il figlio di un pescatore non lo avrebbe mai fatto, mai! I figli dei pescatori sanno benissimo che balzare in piedi fa dondolare la barca come un’altalena impazzita, e il modo migliore per tenere l’equilibrio è stare con le braccia aperte, non con le mani sulla bocca. E così, persi l’equilibrio e caddi… Il povero Pietro, che era stato più bravo di me e non si era alzato, tentò di afferrarmi. E infatti mi afferrò… Ma vedete, lui è piccolo e mingherlino, mentre io sono alto e robusto per la nostra età, e col mio peso lo trascinai giù con me, e insieme cademmo dentro quella magica nebbia…

Capitolo 3 – Il tesoro del fiume