Chi viene accontentato non è mai contento
Illustrazioni di Francesca Duo
E fu proprio in quell’istante che sentimmo il craaaa, craaaa del corvo sopra di noi, e vedemmo quelle ali nerissime battere, e quando abbassammo lo sguardo, Quis aveva fatto la sua magia ancora una volta, e ci trovammo di nuovo in riva al fiume con i due pescatori, e sempre per fortuna o magia, a distanza dai nostri padri. Ci nascondemmo, e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. Picaldo stava mettendosi le mani alla bocca a mo’ di tromba, e fece più forte che poté il richiamo che gli aveva insegnato lo storione fatato:
“Cuuuuuuuuuuuuuuuuuuì!”
Presto, vedemmo emergere dall’acqua la testa appuntita e dorata con i baffi arcobaleno e gli occhi color ambra…
“Salve, fratelli pescatori. Non mi sorprende affatto vedervi qui ancora. In cosa vi posso servire?”
Picaldo spiegò: “Con la moneta d’oro che abbiamo trovato l’ultima volta, abbiamo cominciato a costruire una nuova casa, in pietra, e mia moglie si è comprata vestiti più belli. Ma ancora la nuova casa non è finita, e già ha detto che non basta. Ora vuole vivere in un grande palazzo di città, come una nobildonna!”
“Spero che non le sarà concesso,” disse Pacoldo. “Se non l’hai già capito, fratello, lei non sarà mai soddisfatta, e ti manderà sempre al fiume a pescare, comunque; anche se vivrà davvero come una nobildonna… Ti immagini, vivere in un palazzo, in città; lei vestita di seta e tutta profumata, e tu che parti la mattina con la rete per andare al fiume, e torni che puzzi di pesce? Sei mio fratello, e ti aiuterò sempre, ma lascia che te lo dica: prima o poi le dovrai portare a casa un bel ‘no’ al posto del pesce”.
“Un bel ‘no’ eh?” disse Picaldo, scocciato. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”
“Non ho mai visto il mare. Ma so che c’è gente che l’attraversa”.
“Taci, fratello, e lascia parlare lo storione fatato”.
Ma con suo sgomento, il grande pesce ripeté quanto aveva detto la prima volta:
“Se è questo che vuoi, io ti manderò storioni di fiume da pescare, e nelle loro pance troverete un nuovo tesoro. Ma dal tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie.”
Picaldo guardò male entrambi, pesce e fratello.
“Sì, grazie, è questo che voglio.”
Di lì a poco, i fratelli si caricarono in spalla il lungo bastone con gli storioni bianchi appesi, e quando tornarono a casa si vedeva accanto alla vecchia capanna una nuova casa costruita a metà, molto più grande, e con i muri di pietra. Un lavoratore stava spargendo malta, mentre un altro si serviva del peso a piombo per fissare un legno ben dritto. Sarebbe diventata una bella casa, molto più spazioso della stanza dove vivevo io con mamma, papà e la mia sorellina Gisella. Vedemmo i nostri papà, che la guardavano attentamente, scambiarsi sottovoce qualche commento, e mio papà con le mani descrivere un angolo e un muro; da buoni capomastri, avevano le idee chiare su come costruire le case.
E sulla porta, la signora aspettava…
Che bel vestito costoso,
E che cantiere favoloso!
Ma il tuo sguardo è nervoso,
Avido, senza riposo…
Infatti… La donna aveva un vestito nuovo, i capelli lavati e conciati, e scarpe nuove, e non sembrava per niente contenta. Non guardò nemmeno il marito che arrivava, stanco e con i panni zuppi di sudore, guardava solo ai pesci, e aveva già il coltello in mano.
“Presto, posateli sul tavolo da lavoro”.
I due fratelli si fecero da parte mentre lei incominciò a pulire i pesci. Ne sventrò una, ma la pancia era vuota. Ora, ben determinata, ne prese a caso un altro… Pancia vuota anche qui. Rabbiosa, ancora a caso. Pancia vuota… Infine, nella pancia del quarto pesce, trovò i due tesori degli storioni, le uova e…
“Oh cielo! Tesoro! Vero tesoro questa volta! Cinque monete d’oro, e quanti rubini e zaffiri, e perfino un diamante! Non ho mai visto così tanta ricchezza!”
Vi dirò, non era cosa bella vederla esultare così. Pensai a mia mamma, e non potevano essere più diversi il carbone e il miele. Per fortuna non dovemmo assistere a lungo alla sua avara gioia: tra un craaaa craaaaa e un cuuuuuuuuuuuuuuuuì, eravamo ancora una volta in riva al Ticino, dove i fratelli pescatori parlavano con lo storione fatato… per l’ultima volta.
“In cosa vi posso aiutare, fratelli pescatori?” diceva il pesce.
“Mia moglie ora vive in un grande palazzo” rispose Picaldo, e non ne sembrava affatto contento… “Proprio nel centro di Pavia. Ha tanti servi, tanti vestiti bellissimi, e mangia sempre il meglio della stagione. Eppure…”.
“Non le basta mai” finì per lui Pacoldo.
“Non mi sorprende, caro pescatore” fece lo storione.
Ma, era soltanto una mia impressione, o i pesci sono in grado di sorridere sotto i baffi… intendo, sotto i barbigli?
“Non volete sapere che cosa mi ha chiesto adesso?” disse Picaldo.
“Francamente,” disse il fratello “non m’interessa più. Non voglio sapere”.
Questa volta lo storione rise davvero, una risata calda e sonora.
“Vieni vicino, uomo dalla moglie incontentabile, vieni vicino e sussurrami quest’ultimo desiderio, e non faremo arrabbiare tuo fratello”.
Il pescatore, imbarazzato e un po’ goffo, fece come chiesto e scese dentro l’acqua fino alle ginocchia, e si piegò per sussurrare qualcosa al pesce.
“Aaaah!” esclamò lo storione. “Quale desiderio illuminante. Allora ho una buona notizia per voi. Oggi non vi dovrete affaticare per niente. Per realizzare questo suo desiderio non serve affatto alcun tesoro; e non servono pesci! Questo desiderio è del tutto fuori dalla mia portata. Servirà ben altra magia, temo”.
“Ma quale magia? Come posso fare?” Picaldo era disperato.
“Mmmmmm” il pesce meditava “io una volta ho avvertito una magia forte, ma non saprei da dove venisse.”
“Quando? Quale magia?”
“La prima volta che ci incontrammo, quando presi in bocca la vostra esca. Sapevo benissimo di sbagliare, ma per qualche motivo, non seppi resistere”.
Picaldo stette un attimo a bocca aperta, come un pesce.
“Fratello!” Pacoldo chiamò dalla riva. “Poteva essere soltanto la magia della fattucchiera Edburga, ti ricordi che tua moglie era stata da lei?”
“Andiamo!” Picaldo uscì dall’acqua di corsa, e stava scomparendo nel bosco quando il fratello lo richiamò.
“Eh, testa di rapa, non saluti prima di andare via?”
Picaldo si fermò, imbarazzato, e fece un inchino rispettoso al pesce.
“Grazie, storione fatato. Chiedo scusa se ti abbiamo disturbato tanto”.
“Il piacere è tutto mio” Rispose il pesce con eleganza. Ora anche Pacoldo lo salutò.
“Che tu possa vivere altri quattrocento anni. Almeno!”
“Grazie! Che la tua rete si riempia sempre di alborelle gustose”.
E con questo, lo storione fatato scomparve nel fiume, per sempre.
La fattucchiera Edburga stava preparando qualcosa dentro un calderone – sicuramente un filtro magico, ché si sentiva un odore tanto pungente quanto strano.
“Edburga” chiamò Picaldo “scusa se ti disturbiamo, ma siamo veramente disperati…”
“Lui è disperato”. Corresse il fratello. “Io sono esasperato”.
La vecchia maga, benda sugli occhi, si fece vedere sull’uscio e…
“Ah, siete voi. Ben tornati, era da tempo che non vi vedevo. In che cosa vi posso assistere, buoni uomini?”
“Mia moglie qualche tempo fa era venuta da te, e ti ha chiesto di aiutarci a trovare il tesoro del fiume. Io le avevo detto che il tesoro sono i pesci che peschiamo, ma lei voleva quello del re Ariperto. Poi abbiamo pescato lo storione fatato, e ti dico, è stata una fatica incredibile, ma lui in cambio della vita ci ha fatto pescare dei normali storioni che avevano ingoiato il tesoro del re, monete d’oro, pietre preziose… Ora mia moglie vive in un grande palazzo, con tanti servi e tanti bei vestiti e tutto quello che vuole…”
“E non è mai soddisfatta”. Finì per lui la fattucchiera con un sospiro. “Beh, non so se ti posso aiutare. Non riesco ad immaginare un solo suo desiderio che la renderebbe felice”.
“Ecco…” Picaldo era nervoso. “Di fatto ha espresso ancora un desiderio. Io le ho detto che è ridicolo, ma questa sua bella vita le è andata alla testa, e non ascolta più ragione…”
“Non l’ascoltava manco prima, a dire il vero” mormorò Pacoldo.
“Dimmi, dimmi,” disse la fattucchiera “sono curiosa”.
“Io no” fece Pacoldo “non voglio proprio sapere. Sono nauseato dall’intera faccenda”.
“Posso sussurrartelo nell’orecchio, Edburga?” chiese Picaldo.
“Vieni, vieni”.
Tutto impacciato per l’imbarazzo, Picaldo le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. La faccia della fattucchiera dapprima si fece scura e arrabbiata, poi si illuminò, e ridacchiò divertita.
“Che donna sorprendente! È riuscita a trovare l’unico desiderio che forse, forse, una volta realizzato la renderebbe felice. Certo, ci vorrà tempo. Ma tu, marito sciocco,” divenne d’un tratto seria e severa “dovrai smetterla di cercare di accontentarla di ora in poi. Chi viene accontentato non è mai contento, ricordatelo. Abbiamo un accordo”.
Picaldo annuì, solenne come un bambino sgridato (almeno, come un bambino sgridato dovrebbe essere, perché io non lo sono mai…)
“Bene” disse la fattucchiera, “allora, tornate al vostro bel palazzo signorile in città, ché il desiderio sarà esaudito”.
Quando i due fratelli se ne andarono, Quis aspettò un poco prima di seguirli, per tenerli a discreta distanza. Intanto la vecchietta si girò, e occhi bendati o no, sembrava che guardasse proprio lì dove stava Quis dietro un tronco d’albero.
“Vecchio amico, ben trovato” disse la fattucchiera.
Quis sorrise come se la conoscesse, e seguì i pescatori.
Presto i due fratelli arrivarono alla capanna. Accanto, la nuova casa di pietra era stata lasciata con i muri a metà.
Andarono avanti, per tutta la lunga strada che passava in riva al Ticino, sotto San Salvatore e fino alle mura della città. Alla piccola Pusterla di Sant’Agnese entrarono e, passando per le viuzze più strette e deserte (secondo me non volevano farsi vedere con i vestiti vecchi e bagnati da pescatori) arrivarono infine a un palazzo meraviglioso, con i muri tutti rivestiti di stucco affrescato, i portoni decorati e dei servi armati che stavano di guardia.
Picaldo e Pacoldo si avvicinarono a una piccola porta di servizio, quasi nascosta sul retro dell’edificio. La, mi aspettavo di vedere la moglie ad aspettarli con ansia… macché! Aveva mandato un servo, vestito meglio lui che non i pescatori, ordinatissimo e precisissimo.
“La signora ordina che il pesce sia portato direttamente in cucina” disse loro, e con una mano si tappò il naso.
“Oggi non abbiamo un solo pesce” gli disse Pacoldo.
Il servo sembrava inorridito, ma proprio in quel momento scoppiò una confusione dietro l’angolo del palazzo, dove c’era la porta principale. Vedemmo soldati con spade e lance riempire la via. Quis e i due papà andarono a vedere, ma Pietro ed io avevamo paura, e rimanemmo nascosti dietro una fontanella. Ma sentivamo tutto.
“Questo palazzo è sotto sequestro, nel nome del re” disse un soldato.
“Ma come, sotto sequestro? Cosa sta a dire?” Era la moglie di Picaldo.
“È stato comprato con monete e gioielli appartenenti di diritto al tesoro reale. Sono stati esaminati, e non vi è ombra di dubbio. Tu, o donna presuntuosa, avresti dovuto dichiararli subito al Palazzo Regio. Invece li hai trafugati e utilizzati loscamente, per profitto personale. Se tu avessi dichiarato il tesoro ritrovato alle autorità, è probabile che ti avrebbero lasciato una moneta d’oro come ringraziamento. Ora come ora, sei tu che devi ringraziare il re e il Signore che ti sequestriamo solamente questo palazzo. Avresti potuto finire in cella, o peggio”.
“Ma… ma… non potete… com’è possibile?”
Presto la vedemmo apparire da dietro l’angolo, in mezzo a una scorta di soldati che la tenevano rudemente per le braccia rudemente, e sorridevano come se avessero preso un bambino con le mani dentro il sacco. E Quis non mancò di fare la sua morale..
Ma quale disastro le ambizioni!
Esce di scena, scortesemente scortata,
Sua superbia sgradevole sgretolata,
Per tornare alla più umile delle situazioni.
E sopra di noi sentimmo craaaaa, craaaaa. Il corvo ci aveva raggiunto…
Eravamo di nuovo al vecchio noce, accanto alla capanna dei pescatori, i nostri genitori e Quis dietro il muro, vicino alla finestra. I fratelli pescatori arrivarono, e la donna venne loro incontro alla porta. Ora non c’erano storioni, e al posto del bastone in spalla portavano una grossa cesta, piena di piccoli pesci, argentati dalla luce matutina.
“Alborelle” disse la moglie con disgusto, sbattendo le mani contro la sua veste di povera lana. “Beh, meglio di niente! Pulitene un po’ per il pranzo prima di andare al mercato”.
“No, cara” disse il marito, fermo. “Noi siamo stanchi, vogliamo un attimo di riposo. Li pulirai tu. E poi ne sceglierai i migliori, e li porterai dalla fattucchiera Edburga come regalo. Senza chiederle niente. Capito?”
Per un momento la moglie sembrò incredula, stava lì a bocca aperta, gli occhi spalancati, come se nessuno le avesse mai parlato così. Poi, vedendo l’espressione convinta del marito, scrollò le spalle e annuì, e si mise al lavoro.
Picaldo e Pacoldo andarono a riposarsi all’ombra della quercia dietro la capanna.
Un silenzio, poi Picaldo, scuotendo la testa con meraviglia: “Pensa un po’, fratello mio, tutto questo perché un giorno ti cascò dal cielo un lombrico tra le mani”.
“Già! Ma non credo capitò a caso. Ci sarà stato lo zampino della fattucchiera Edburga anche in quello”.
“Dici? Forse hai ragione”.
Ricadde il silenzio.
“Picaldo,” disse il fratello dopo un po’, “non ti ho più chiesto. Qual era il terzo desiderio di tua moglie?”
Il fratello rise.
“Sicuro che vuoi sapere questa volta?”
“Sicuro!”
“Ghertruda ha detto così: voglio vivere come fossi la regina Teodolinda! Anzi, no, voglio… voglio vivere come fossi l’imperatrice Teodora… No! Voglio vivere come fossi Dio stesso!” E Picaldo rise di nuovo. “Assurdo, ovvio. Chi è come dio?”
Pacoldo non rispose. Guardava la loro capanna.
E sentimmo per l’ultima volta il verso del corvo, e questa volta dietro le nostre spalle. Girandoci, lo vedemmo descrivere grandi cerchi nell’aria, e spargere una nebbia fitta, come nella viuzza di Pavia quell’altro corvo. Capii subito che dentro quella nebbia avremmo trovato la via per casa. Ma come entrare senza farci vedere dai papà? Dovevamo aspettare che entrassero prima loro, e poi entrare noi, e poi… come funzionava? Uno cercava la via nella nebbia? E poi? Ci rendemmo conto che non sapevamo davvero come fare. Solo non dovevamo perdere di vista i nostri papà!
Poi il mio cuore si gelò in un istante. Il corvo aveva lasciato di fare la nebbia, ed era venuto a posarsi sopra un ramo del noce, proprio sopra le nostre teste! E faceva craaa craaaa… ci guardava… Ci avrebbe fatto scoprire!
“Cosa vede là il tuo corvo, Quis?” Sentii chiedere mio papà. Ahi! Dovetti pensare veloce. Dalla tasca tirai fuori una noce, e la gettai per terra. Il corvo, magico o no, non seppe resistere alla tentazione, e ci si lanciò sopra…
“Aaah, ha trovato da mangiare”. Disse il papà di Pietro.
Il corvo posò la noce tra due radici dell’albero, e con un preciso colpo di becco ne spaccò il guscio. Assaggiò il gheriglio, ma lo sputò con un’espressione amara. Quis guardò il nostro nascondiglio, proprio come se ci vedesse attraverso l’albero, e commentò.
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Si vede quella noce ha un pessimo gusto,
C’è stato un passaggio storto, se non ho torto,
E chi l’ha portata qui non ha fatto il giusto.
Pietro mi guardò impaurito. Sapevo benissimo cosa stava pensando. Avevo rubato quella noce dal povero, generoso fruttivendolo Anselmo… Come avrei potuto sapere che le creature magiche sono disgustate dal cibo rubato? Per fortuna, i nostri genitori stavano già entrando nella nebbia.
“Grazie, come sempre Quis” diceva papà “ancora due volte, e poi avremo finito la tua basilica. Speriamo di farcela in tempo”.
Non ne dubito, finirete quasi subito.
“Non oso pensare cosa succederebbe se non riuscissimo”. disse Matteo, con aria grave.
Abbiate fede, il lavoro ben procede.
Mio padre annuì. Poi, con un piccolo inchino, entrò a passo sicuro nella nebbia, con Matteo al suo fianco.
Saremmo corsi dentro anche noi, ma Quis, con il suo viso angelico e sorridente, teneva lo sguardo di nuovo fisso sul nostro nascondiglio.
Cari ragazzi, perché restate là?
Non aspetto qui per sgridarvi,
Quello tocca ai vostri papà,
Voglio solo vedervi e salutarvi.
Mentre parlava, il corvo spargi-nebbia si posò sulla sua spalla. A questo punto, non c’era altro da fare. Uscimmo da dietro il noce. Pietro era ben mortificato, io invece facevo finta di essere dispiaciuto. Inutile mentire: mi ero divertito un sacco!
Ma su, ma basta facce contrite,
Volevate stare coi papà, lo so bene,
Ma ora, attenti, la via non smarrite,
Andate, e niente paura per le pene!
E con la testa indicò la nebbia.
Pietro ed io ci scambiammo uno sguardo, e ci mettemmo a correre. Ma quando sentii il gelo e l’umido della nebbia in faccia, mi girai, e guardai Quis.
“Ma… chi sei tu?”
Ah! La domanda posta
È la sua stessa risposta.
Ovviamente, rimasi lì un attimo, confuso. Poi Pietro mi prese per il braccio.
“Forza, andiamo!”
Ed entrammo nella nebbia.
“Che cosa troveremo?” mi sussurrò Pietro.
“Non lo so…” dissi io “è la prima volta anche per me, sai. Proviamo ad andare avanti”.
A passo lento avanzammo nel bianco denso… per quanto tempo? Non vi saprei dire. Esattamente come quando ci eravamo trovati nella nebbia all’inizio dell’avventura, dentro quello strano luogo che mio padre aveva chiamato ‘il Ghastengarda’, e persi l’orientamento, nello spazio e nel tempo. Infine, Pietro disse esultante:
“Ciottoli! I ciottoli della strada!”
Sotto i piedi c’erano i sassi tondi delle strade di Pavia. Ma eravamo ancora immersi nella nebbia più densa di sempre, e non si vedeva nulla.
“Ora che facciamo?” chiese Pietro.
“Non lo so… Camminiamo,” dissi, “sperando che sia la direzione giusta”.
Uscimmo dalla nebbia dentro la stessa viuzza della mattina. In fondo all’angolo vedevamo la gente passare sulla via principale, ed erano persone che conoscevamo, vestite in modo normale. Che meraviglia! Che sollievo trovarci di nuovo a casa!
Ma c’era qualcosa che non tornava. La luce… era molto diversa… era già sera, quasi l’ora del coprifuoco. Ma quanto tempo eravamo rimasti dentro il mondo del racconto? Non ci fu tempo neanche per pensarci, perché quelle persone in fondo alla via stavano correndo, e stavano urlando:
“Soldati! Soldati alle porte! Soldati!”