Quis – Capitolo 5

Chi viene accontentato non è mai contento

Illustrazioni di Francesca Duo

E fu proprio in quell’istante che sentimmo il craaaa, craaaa del corvo sopra di noi, e vedemmo quelle ali nerissime battere, e quando abbassammo lo sguardo, Quis aveva fatto la sua magia ancora una volta, e ci trovammo di nuovo in riva al fiume con i due pescatori, e sempre per fortuna o magia, a distanza dai nostri padri. Ci nascondemmo, e aspettammo di vedere cosa sarebbe successo. Picaldo stava mettendosi le mani alla bocca a mo’ di tromba, e fece più forte che poté il richiamo che gli aveva insegnato lo storione fatato:

Cuuuuuuuuuuuuuuuuuuì!

Presto, vedemmo emergere dall’acqua la testa appuntita e dorata con i baffi arcobaleno e gli occhi color ambra…

“Salve, fratelli pescatori. Non mi sorprende affatto vedervi qui ancora. In cosa vi posso servire?”

Picaldo spiegò: “Con la moneta d’oro che abbiamo trovato l’ultima volta, abbiamo cominciato a costruire una nuova casa, in pietra, e mia moglie si è comprata vestiti più belli. Ma ancora la nuova casa non è finita, e già ha detto che non basta. Ora vuole vivere in un grande palazzo di città, come una nobildonna!”

“Spero che non le sarà concesso,” disse Pacoldo. “Se non l’hai già capito, fratello, lei non sarà mai soddisfatta, e ti manderà sempre al fiume a pescare, comunque; anche se vivrà davvero come una nobildonna… Ti immagini, vivere in un palazzo, in città; lei vestita di seta e tutta profumata, e tu che parti la mattina con la rete per andare al fiume, e torni che puzzi di pesce? Sei mio fratello, e ti aiuterò sempre, ma lascia che te lo dica: prima o poi le dovrai portare a casa un bel ‘no’ al posto del pesce”.

“Un bel ‘no’ eh?” disse Picaldo, scocciato. “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”

“Non ho mai visto il mare. Ma so che c’è gente che l’attraversa”.

“Taci, fratello, e lascia parlare lo storione fatato”.

Ma con suo sgomento, il grande pesce ripeté quanto aveva detto la prima volta:

“Se è questo che vuoi, io ti manderò storioni di fiume da pescare, e nelle loro pance troverete un nuovo tesoro. Ma dal tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie.”

Picaldo guardò male entrambi, pesce e fratello.

“Sì, grazie, è questo che voglio.”

Di lì a poco, i fratelli si caricarono in spalla il lungo bastone con gli storioni bianchi appesi, e quando tornarono a casa si vedeva accanto alla vecchia capanna una nuova casa costruita a metà, molto più grande, e con i muri di pietra. Un lavoratore stava spargendo malta, mentre un altro si serviva del peso a piombo per fissare un legno ben dritto. Sarebbe diventata una bella casa, molto più spazioso della stanza dove vivevo io con mamma, papà e la mia sorellina Gisella. Vedemmo i nostri papà, che la guardavano attentamente, scambiarsi sottovoce qualche commento, e mio papà con le mani descrivere un angolo e un muro; da buoni capomastri, avevano le idee chiare su come costruire le case.

E sulla porta, la signora aspettava…

Che bel vestito costoso,
E che cantiere favoloso!
Ma il tuo sguardo è nervoso,
Avido, senza riposo…

Infatti… La donna aveva un vestito nuovo, i capelli lavati e conciati, e scarpe nuove, e non sembrava per niente contenta. Non guardò nemmeno il marito che arrivava, stanco e con i panni zuppi di sudore, guardava solo ai pesci, e aveva già il coltello in mano.

“Presto, posateli sul tavolo da lavoro”.

I due fratelli si fecero da parte mentre lei incominciò a pulire i pesci. Ne sventrò una, ma la pancia era vuota. Ora, ben determinata, ne prese a caso un altro… Pancia vuota anche qui. Rabbiosa, ancora a caso. Pancia vuota… Infine, nella pancia del quarto pesce, trovò i due tesori degli storioni, le uova e…

“Oh cielo! Tesoro! Vero tesoro questa volta! Cinque monete d’oro, e quanti rubini e zaffiri, e perfino un diamante! Non ho mai visto così tanta ricchezza!”

Vi dirò, non era cosa bella vederla esultare così. Pensai a mia mamma, e non potevano essere più diversi il carbone e il miele. Per fortuna non dovemmo assistere a lungo alla sua avara gioia: tra un craaaa craaaaa e un cuuuuuuuuuuuuuuuuì, eravamo ancora una volta in riva al Ticino, dove i fratelli pescatori parlavano con lo storione fatato… per l’ultima volta.

“In cosa vi posso aiutare, fratelli pescatori?” diceva il pesce.

“Mia moglie ora vive in un grande palazzo” rispose Picaldo, e non ne sembrava affatto contento… “Proprio nel centro di Pavia. Ha tanti servi, tanti vestiti bellissimi, e mangia sempre il meglio della stagione. Eppure…”.

“Non le basta mai” finì per lui Pacoldo.

“Non mi sorprende, caro pescatore” fece lo storione.

Ma, era soltanto una mia impressione, o i pesci sono in grado di sorridere sotto i baffi… intendo, sotto i barbigli?

“Non volete sapere che cosa mi ha chiesto adesso?” disse Picaldo.

“Francamente,” disse il fratello “non m’interessa più. Non voglio sapere”.

Questa volta lo storione rise davvero, una risata calda e sonora.

“Vieni vicino, uomo dalla moglie incontentabile, vieni vicino e sussurrami quest’ultimo desiderio, e non faremo arrabbiare tuo fratello”.

Il pescatore, imbarazzato e un po’ goffo, fece come chiesto e scese dentro l’acqua fino alle ginocchia, e si piegò per sussurrare qualcosa al pesce.

“Aaaah!” esclamò lo storione. “Quale desiderio illuminante. Allora ho una buona notizia per voi. Oggi non vi dovrete affaticare per niente. Per realizzare questo suo desiderio non serve affatto alcun tesoro; e non servono pesci! Questo desiderio è del tutto fuori dalla mia portata. Servirà ben altra magia, temo”.

“Ma quale magia? Come posso fare?” Picaldo era disperato.

“Mmmmmm” il pesce meditava “io una volta ho avvertito una magia forte, ma non saprei da dove venisse.”

“Quando? Quale magia?”

“La prima volta che ci incontrammo, quando presi in bocca la vostra esca. Sapevo benissimo di sbagliare, ma per qualche motivo, non seppi resistere”.

Picaldo stette un attimo a bocca aperta, come un pesce.

“Fratello!” Pacoldo chiamò dalla riva. “Poteva essere soltanto la magia della fattucchiera Edburga, ti ricordi che tua moglie era stata da lei?”

“Andiamo!” Picaldo uscì dall’acqua di corsa, e stava scomparendo nel bosco quando il fratello lo richiamò.

“Eh, testa di rapa, non saluti prima di andare via?”

Picaldo si fermò, imbarazzato, e fece un inchino rispettoso al pesce.

“Grazie, storione fatato. Chiedo scusa se ti abbiamo disturbato tanto”.

“Il piacere è tutto mio” Rispose il pesce con eleganza. Ora anche Pacoldo lo salutò.

“Che tu possa vivere altri quattrocento anni. Almeno!”

“Grazie! Che la tua rete si riempia sempre di alborelle gustose”.

E con questo, lo storione fatato scomparve nel fiume, per sempre.

La fattucchiera Edburga stava preparando qualcosa dentro un calderone – sicuramente un filtro magico, ché si sentiva un odore tanto pungente quanto strano.

“Edburga” chiamò Picaldo “scusa se ti disturbiamo, ma siamo veramente disperati…”

“Lui è disperato”. Corresse il fratello. “Io sono esasperato”.

La vecchia maga, benda sugli occhi, si fece vedere sull’uscio e…

“Ah, siete voi. Ben tornati, era da tempo che non vi vedevo. In che cosa vi posso assistere, buoni uomini?”

“Mia moglie qualche tempo fa era venuta da te, e ti ha chiesto di aiutarci a trovare il tesoro del fiume. Io le avevo detto che il tesoro sono i pesci che peschiamo, ma lei voleva quello del re Ariperto. Poi abbiamo pescato lo storione fatato, e ti dico, è stata una fatica incredibile, ma lui in cambio della vita ci ha fatto pescare dei normali storioni che avevano ingoiato il tesoro del re, monete d’oro, pietre preziose… Ora mia moglie vive in un grande palazzo, con tanti servi e tanti bei vestiti e tutto quello che vuole…”

“E non è mai soddisfatta”. Finì per lui la fattucchiera con un sospiro. “Beh, non so se ti posso aiutare. Non riesco ad immaginare un solo suo desiderio che la renderebbe felice”.

“Ecco…” Picaldo era nervoso. “Di fatto ha espresso ancora un desiderio. Io le ho detto che è ridicolo, ma questa sua bella vita le è andata alla testa, e non ascolta più ragione…”

“Non l’ascoltava manco prima, a dire il vero” mormorò Pacoldo.

“Dimmi, dimmi,” disse la fattucchiera “sono curiosa”.

“Io no” fece Pacoldo “non voglio proprio sapere. Sono nauseato dall’intera faccenda”.

“Posso sussurrartelo nell’orecchio, Edburga?” chiese Picaldo.

“Vieni, vieni”.

Tutto impacciato per l’imbarazzo, Picaldo le si avvicinò e le sussurrò qualcosa. La faccia della fattucchiera dapprima si fece scura e arrabbiata, poi si illuminò, e ridacchiò divertita.

“Che donna sorprendente! È riuscita a trovare l’unico desiderio che forse, forse, una volta realizzato la renderebbe felice. Certo, ci vorrà tempo. Ma tu, marito sciocco,” divenne d’un tratto seria e severa “dovrai smetterla di cercare di accontentarla di ora in poi. Chi viene accontentato non è mai contento, ricordatelo. Abbiamo un accordo”.

Picaldo annuì, solenne come un bambino sgridato (almeno, come un bambino sgridato dovrebbe essere, perché io non lo sono mai…)

“Bene” disse la fattucchiera, “allora, tornate al vostro bel palazzo signorile in città, ché il desiderio sarà esaudito”.

Quando i due fratelli se ne andarono, Quis aspettò un poco prima di seguirli, per tenerli a discreta distanza. Intanto la vecchietta si girò, e occhi bendati o no, sembrava che guardasse proprio lì dove stava Quis dietro un tronco d’albero.

“Vecchio amico, ben trovato” disse la fattucchiera.

Quis sorrise come se la conoscesse, e seguì i pescatori.

Presto i due fratelli arrivarono alla capanna. Accanto, la nuova casa di pietra era stata lasciata con i muri a metà.

 Andarono avanti, per tutta la lunga strada che passava in riva al Ticino, sotto San Salvatore e fino alle mura della città. Alla piccola Pusterla di Sant’Agnese entrarono e, passando per le viuzze più strette e deserte (secondo me non volevano farsi vedere con i vestiti vecchi e bagnati da pescatori) arrivarono infine a un palazzo meraviglioso, con i muri tutti rivestiti di stucco affrescato, i portoni decorati e dei servi armati che stavano di guardia.

Picaldo e Pacoldo si avvicinarono a una piccola porta di servizio, quasi nascosta sul retro dell’edificio. La, mi aspettavo di vedere la moglie ad aspettarli con ansia… macché! Aveva mandato un servo, vestito meglio lui che non i pescatori, ordinatissimo e precisissimo.

“La signora ordina che il pesce sia portato direttamente in cucina” disse loro, e con una mano si tappò il naso.

“Oggi non abbiamo un solo pesce” gli disse Pacoldo.

Il servo sembrava inorridito, ma proprio in quel momento scoppiò una confusione dietro l’angolo del palazzo, dove c’era la porta principale. Vedemmo soldati con spade e lance riempire la via. Quis e i due papà andarono a vedere, ma Pietro ed io avevamo paura, e rimanemmo nascosti dietro una fontanella. Ma sentivamo tutto.

“Questo palazzo è sotto sequestro, nel nome del re” disse un soldato.

“Ma come, sotto sequestro? Cosa sta a dire?” Era la moglie di Picaldo.

“È stato comprato con monete e gioielli appartenenti di diritto al tesoro reale. Sono stati esaminati, e non vi è ombra di dubbio. Tu, o donna presuntuosa, avresti dovuto dichiararli subito al Palazzo Regio. Invece li hai trafugati e utilizzati loscamente, per profitto personale. Se tu avessi dichiarato il tesoro ritrovato alle autorità, è probabile che ti avrebbero lasciato una moneta d’oro come ringraziamento. Ora come ora, sei tu che devi ringraziare il re e il Signore che ti sequestriamo solamente questo palazzo. Avresti potuto finire in cella, o peggio”.

“Ma… ma… non potete… com’è possibile?”

Presto la vedemmo apparire da dietro l’angolo, in mezzo a una scorta di soldati che la tenevano rudemente per le braccia rudemente, e sorridevano come se avessero preso un bambino con le mani dentro il sacco. E Quis non mancò di fare la sua morale..

Ma quale disastro le ambizioni!
Esce di scena, scortesemente scortata,

Sua superbia sgradevole sgretolata,
Per tornare alla più umile delle situazioni.

E sopra di noi sentimmo craaaaa, craaaaa. Il corvo ci aveva raggiunto…

Eravamo di nuovo al vecchio noce, accanto alla capanna dei pescatori, i nostri genitori e Quis dietro il muro, vicino alla finestra. I fratelli pescatori arrivarono, e la donna venne loro incontro alla porta. Ora non c’erano storioni, e al posto del bastone in spalla portavano una grossa cesta, piena di piccoli pesci, argentati dalla luce matutina.

“Alborelle” disse la moglie con disgusto, sbattendo le mani contro la sua veste di povera lana. “Beh, meglio di niente! Pulitene un po’ per il pranzo prima di andare al mercato”.

“No, cara” disse il marito, fermo. “Noi siamo stanchi, vogliamo un attimo di riposo. Li pulirai tu. E poi ne sceglierai i migliori, e li porterai dalla fattucchiera Edburga come regalo. Senza chiederle niente. Capito?”

Per un momento la moglie sembrò incredula, stava lì a bocca aperta, gli occhi spalancati, come se nessuno le avesse mai parlato così. Poi, vedendo l’espressione convinta del marito, scrollò le spalle e annuì, e si mise al lavoro.

Picaldo e Pacoldo andarono a riposarsi all’ombra della quercia dietro la capanna.

Un silenzio, poi Picaldo, scuotendo la testa con meraviglia: “Pensa un po’, fratello mio, tutto questo perché un giorno ti cascò dal cielo un lombrico tra le mani”.

“Già! Ma non credo capitò a caso. Ci sarà stato lo zampino della fattucchiera Edburga anche in quello”.

“Dici? Forse hai ragione”.

Ricadde il silenzio.

“Picaldo,” disse il fratello dopo un po’, “non ti ho più chiesto. Qual era il terzo desiderio di tua moglie?”

Il fratello rise.

“Sicuro che vuoi sapere questa volta?”

“Sicuro!”

“Ghertruda ha detto così: voglio vivere come fossi la regina Teodolinda! Anzi, no, voglio… voglio vivere come fossi l’imperatrice Teodora… No! Voglio vivere come fossi Dio stesso!” E Picaldo rise di nuovo. “Assurdo, ovvio. Chi è come dio?”

Pacoldo non rispose. Guardava la loro capanna.

E sentimmo per l’ultima volta il verso del corvo, e questa volta dietro le nostre spalle. Girandoci, lo vedemmo descrivere grandi cerchi nell’aria, e spargere una nebbia fitta, come nella viuzza di Pavia quell’altro corvo. Capii subito che dentro quella nebbia avremmo trovato la via per casa. Ma come entrare senza farci vedere dai papà? Dovevamo aspettare che entrassero prima loro, e poi entrare noi, e poi… come funzionava? Uno cercava la via nella nebbia? E poi? Ci rendemmo conto che non sapevamo davvero come fare. Solo non dovevamo perdere di vista i nostri papà!

Poi il mio cuore si gelò in un istante. Il corvo aveva lasciato di fare la nebbia, ed era venuto a posarsi sopra un ramo del noce, proprio sopra le nostre teste! E faceva craaa craaaa… ci guardava… Ci avrebbe fatto scoprire!

“Cosa vede là il tuo corvo, Quis?” Sentii chiedere mio papà. Ahi! Dovetti pensare veloce. Dalla tasca tirai fuori una noce, e la gettai per terra. Il corvo, magico o no, non seppe resistere alla tentazione, e ci si lanciò sopra…

“Aaah, ha trovato da mangiare”. Disse il papà di Pietro.

Il corvo posò la noce tra due radici dell’albero, e con un preciso colpo di becco ne spaccò il guscio. Assaggiò il gheriglio, ma lo sputò con un’espressione amara. Quis guardò il nostro nascondiglio, proprio come se ci vedesse attraverso l’albero, e commentò.

Si vede quella noce ha un pessimo gusto,
C’è stato un passaggio storto, se non ho torto,
E chi l’ha portata qui non ha fatto il giusto.

Pietro mi guardò impaurito. Sapevo benissimo cosa stava pensando. Avevo rubato quella noce dal povero, generoso fruttivendolo Anselmo… Come avrei potuto sapere che le creature magiche sono disgustate dal cibo rubato? Per fortuna, i nostri genitori stavano già entrando nella nebbia.

“Grazie, come sempre Quis” diceva papà “ancora due volte, e poi avremo finito la tua basilica. Speriamo di farcela in tempo”.

Non ne dubito, finirete quasi subito.

“Non oso pensare cosa succederebbe se non riuscissimo”. disse Matteo, con aria grave.

Abbiate fede, il lavoro ben procede.

Mio padre annuì. Poi, con un piccolo inchino, entrò a passo sicuro nella nebbia, con Matteo al suo fianco.

Saremmo corsi dentro anche noi, ma Quis, con il suo viso angelico e sorridente, teneva lo sguardo di nuovo fisso sul nostro nascondiglio.

Cari ragazzi, perché restate là?
Non aspetto qui per sgridarvi,
Quello tocca ai vostri papà,
Voglio solo vedervi e salutarvi.

Mentre parlava, il corvo spargi-nebbia si posò sulla sua spalla. A questo punto, non c’era altro da fare. Uscimmo da dietro il noce. Pietro era ben mortificato, io invece facevo finta di essere dispiaciuto. Inutile mentire: mi ero divertito un sacco!

Ma su, ma basta facce contrite,
Volevate stare coi papà, lo so bene,
Ma ora, attenti, la via non smarrite,
Andate, e niente paura per le pene!

E con la testa indicò la nebbia.

Pietro ed io ci scambiammo uno sguardo, e ci mettemmo a correre. Ma quando sentii il gelo e l’umido della nebbia in faccia, mi girai, e guardai Quis.

“Ma… chi sei tu?”

Ah! La domanda posta

È la sua stessa risposta.

Ovviamente, rimasi lì un attimo, confuso. Poi Pietro mi prese per il braccio.

“Forza, andiamo!”

Ed entrammo nella nebbia.

“Che cosa troveremo?” mi sussurrò Pietro.

“Non lo so…” dissi io “è la prima volta anche per me, sai. Proviamo ad andare avanti”.

A passo lento avanzammo nel bianco denso… per quanto tempo? Non vi saprei dire. Esattamente come quando ci eravamo trovati nella nebbia all’inizio dell’avventura, dentro quello strano luogo che mio padre aveva chiamato ‘il Ghastengarda’, e persi l’orientamento, nello spazio e nel tempo. Infine, Pietro disse esultante:

“Ciottoli! I ciottoli della strada!”

Sotto i piedi c’erano i sassi tondi delle strade di Pavia. Ma eravamo ancora immersi nella nebbia più densa di sempre, e non si vedeva nulla.

“Ora che facciamo?” chiese Pietro.

“Non lo so… Camminiamo,” dissi, “sperando che sia la direzione giusta”.

Uscimmo dalla nebbia dentro la stessa viuzza della mattina. In fondo all’angolo vedevamo la gente passare sulla via principale, ed erano persone che conoscevamo, vestite in modo normale. Che meraviglia! Che sollievo trovarci di nuovo a casa!

Ma c’era qualcosa che non tornava. La luce… era molto diversa… era già sera, quasi l’ora del coprifuoco. Ma quanto tempo eravamo rimasti dentro il mondo del racconto? Non ci fu tempo neanche per pensarci, perché quelle persone in fondo alla via stavano correndo, e stavano urlando:

“Soldati! Soldati alle porte! Soldati!”

Quis – Capitolo 4

Ma tu crederesti alle parole di un pesce?

Illustrazioni di Francesca Duo

Io vi chiedo: com’è possibile passare da un luogo e un tempo a un altro, per magia, per miracolo, non lo so, senza lampi, nessun tuono, nessuna luce strana o fumo colorato? Un momento sei qua, poi sei là, e non ti accorgi nemmeno! L’unica cosa sicura è che c’entrava il corvo di Quis, che tutte le volte si faceva vedere con tanto di craaaaa craaaa.

Ci aveva trasportato dalla casa della fattucchiera a una solitaria curva del fiume, dove i due fratelli pescatori cercavano gli storioni fatati. Per via della magia, o per pura fortuna, eravamo un po’ distanti dai nostri padri, e dietro le loro schiene, e così ci nascondemmo velocemente nella sabbia, dietro un ciuffo di giunchi. Che cosa stava accadendo sul fiume?

Il fratello minore, Pacoldo, stava in una piccola barchetta con una canna da pesca in una mano, e con l’altra usava una larga pagaia per tenere la barchetta dritta nella corrente. Posò la pagaia per un attimo, intanto che infilava un verme sull’amo, ma l’esca gli scivolò dalle dita e cadde in acqua.

“Mannaggia, che giornataccia! Altro che storioni fatati, tutto mi va storto!”

Proprio in quel momento il piccolo tordo che avevamo visto dalla fattucchiera volò basso sopra la testa di Pacoldo, e lasciò cadere qualcosa. Per sua grande sorpresa, si trovò tra le mani…

“Che meraviglia! Tu caschi proprio a fagiolo, vermone. Vediamo come te la cavi come esca”.  Infilò il lombrico sull’amo, e lanciò in un punto profondo del fiume. Quis intanto commentava.

Chi storioni stregati a pescare va,
O follia o fortuna farebbe,
Saltare in salvo sapere dovrà
E nuotare bene non nuocerebbe!

A riva, su una spiaggetta di sabbia bianca, il fratello più grande, Picaldo, era seduto accanto a un’altra barchetta simile a quella di Pacoldo.

“Gli storioni fatati…” diceva. “Soltanto una fiaba, secondo me. Tu hai mai sentito nostro padre dire di averne pescato uno? Il nonno? Il bisnonno?”

“Mai” rispose Pacoldo “ma è vero che i cantastorie ne raccontano…”.

“Cantastorie! Bah! Quante cose raccontano… contadine che sposano principi… folletti che trasformano il fieno in oro… Non siamo più bambini…”

Pacoldo lo tagliò corto con un urlo.

“Un pesce!” La sua canna era piegata, il filo teso che più teso non si poteva. “Ma è grosso!” La barchetta incominciò a muoversi contro corrente; tenendo la canna stretta tra le ginocchia, cercava di tenersi con la pagaia. “È grosso, e forte!”

La barchetta però veniva trascinata, e sempre più veloce, da qualcosa sotto l’acqua, qualcosa di una forza impressionante.

“Maaaaaai seeeentiiiiiiitoooooo…” Pacoldo scivolava, correva davanti a tutta velocità, “uuuuuun peeeeeesceeeee coooooosììììììììììììììììììììììììììì!!!!!

Quis si divertiva:

Il pesce l’ha preso e lo porta a spasso!

Picaldo si lanciò nella sua barchetta.  “Passami la canna quando puoi! In due lo facciamo stancare!”

“Nooooooon èèèèèèèèèèèè faaaaaaaaaaciiiiileeeeeeeeeee….” diceva il fratello.

Picaldo diede tre, quattro colpi fortissimi di pagaia, e la sua barchetta sopravanzò quella del fratello. Se il pesce non cambiava rotta, certo si sarebbero scontrati! All’ultimo, con un altro colpo di pagaia si spinse leggermente da un lato, e mentre passava Pacoldo gli prese la canna. Incredibile!

La barchetta del fratello andava così forte che salì sulla spiaggia e finì in mezzo ai cespugli, non lontano da dove Pietro ed io stavamo a guardare. Ci abbassammo per quanto potemmo nella sabbia, trattenendo il fiato. Ma non c’era bisogno, stava già tornando al fiume, barchetta e pagaia in braccio. Quis approvava:

Fremente, il fratello torna sfrecciante al fracasso!

Nel frattempo, anche Picaldo correva su e giù per il fiume tra urla e spruzzi d’acqua. Ora, non pensate che io stia scherzando, se volete potete chiedere anche a Pietro, che non mentirebbe mai. A un certo punto dall’acqua saltò su un pesce enorme, dal naso appuntito, più lungo dell’uomo più alto, e con una grande gobba sulla schiena. Completamente dorato, scintillava nel sole, e aveva lunghi baffi – barbigli, li chiamano i pescatori – color d’oro alla base e viola luccicante alle punte e, in mezzo, tutti i colori dell’arcobaleno. Saltò talmente in alto che Picaldo, che teneva la canna strettissima, fu tratto su dalla barca con una lunga e alta curva in aria… E quando il pesce ricadde in acqua, trascinò giù anche il pescatore, che finì nel fiume con la canna ancora in mano.

Per fortuna, Pacoldo era lì vicino, e riuscì a mettersi con la barchetta sulla stessa rotta di Picaldo.

“Forza! Passamela! Questo pesce ce lo portiamo a casa!”

E, miracolò! Riuscì a prendere la canna dal fratello, e così toccò di nuovo a lui correre su e giù, sul pelo dell’acqua, veloce come il vento…

Che intrepido trucco, che trovata, che trapasso!

Ma forse vi state chiedendo: questo pesce non si stancava mai? Dico la verità, non credo che un uomo solo, per quanto forte e determinato, avrebbe mai potuto catturare quel pesce, ma questi due fratelli riuscirono tre, quattro volte a passarsi la canna, e senza mai lasciarsela sfuggire di mano. Infine il pesce smise di tirare, e venne a galla vicino alla riva con la testa fuori dall’acqua. Vedevamo l’amo infilzato nella bocca, e i grandi occhi color ambra. E il pesce incominciò a parlare.

Ripeto: voi avrete capito ormai che a volte io dico cose… beh, diciamo così, non completamente vere. Ma Pietro è un pezzo di pane, non ce la fa proprio a dire le bugie, e lui vi dirà subito che tutto questo è successo davvero. Anzi, prima che questo racconto sia finito accadranno cose ben più strane, vedrete! Quindi, come dicevo, il pesce incominciò a parlare:

“A voi la vittoria, fratelli pescatori! Nuoto nel fiume da oltre quattro secoli, e mai avevo rischiato di essere pescato. Ma siete stati anche tenaci, coraggiosi, e abili, oltre che astuti. E così, la mia storia finisce qui, e ora. Spero che vi ripaghi il giusto chi mi acquisterà, e che il banchetto sia degno dell’ultimo degli storioni fatati.”

I due fratelli si guardarono a bocca aperta. Erano bagnati, stremati, distrutti dalla lunga lotta con il pesce. Pacoldo si riprese per primo dalla sorpresa.

“Mi piange il cuore se penso che questo storione sarà servito sul tavolo di qualche ricco stasera. Non è giusto. È un animale nobile, valoroso. Secondo me dobbiamo far finta di niente, e lasciarlo andare”.

Picaldo sospirò.

“Sono d’accordo con te. È il pesce più bello che abbia mai visto, lo risparmierei volentieri. Ma ora che ho sentito un pesce parlare, comincio a chiedermi se i racconti dei cantastorie non siano veramente veri. E se dentro la pancia ci siano le monete d’oro e le gemme del re che annegò nel fiume tanti anni fa? Potrei accontentare mia moglie per sempre con una sola moneta d’oro”.

“Ha!” il fratello ridacchiò. “Sei grande e forte, ma hai la testa di coccio. Accontentata per sempre con una sola moneta? Impossibile. Meglio le alborelle, caro mio, meglio le alborelle…”

Ma riprese a parlare lo storione fatato.

“Ascolta tuo fratello, pescatore. È saggio. E in ogni caso, io non ho nella pancia né l’oro né le gemme del re Ariperto. Conosco bene questo tesoro, e in verità giace nel letto del fiume. Ricordo bene quel giorno, cent’anni fa, quando il re annegò. In verità, una volta ho anche provato ad assaggiare una moneta, ma sembrava piombo, non oro. Una cosa rubata ha sempre un pessimo gusto, e il re Ariperto aveva accumulato la sua ricchezza a discapito della gente, con tasse ingiuste, sequestri, e tante altre prepotenze”.

“Ahimé!” lamentò Picaldo. “Vedo la felicità svanire. Mi serviva, quel tesoro. Ora che cosa dirò a mia moglie?”

Il pesce lo guardò con comprensione.

“Se per te è veramente importante portare a casa una parte di questo tesoro, e se mi libererai, io ti manderò dei pesci minori della mia stirpe, storioni bianchi di fiume, come quelli che pescate per le feste. Nelle loro pance troverete una moneta d’oro. Ma ti avverto: da un tesoro rubato non venne mai bene, e se fossi in te, ascolterei tuo fratello, e non tua moglie”.

“Veramente faresti questa cosa per me? Come posso sapere che manterrai la parola?”

“Picaldo!” disse il fratello. “Non dire così. Io di questo pesce magico mi fido. Dopotutto, gli risparmiamo la vita”.

Picaldo era turbato, ma dopo un lungo momento disse:

“Allora ti libero”. Tolse l’amo dalla bocca del pesce. Ma lo storione non se ne andò subito.

“Sono sicuro che tornerete a cercarmi in futuro” disse loro. “Per risparmiare a voi, e a me, la fatica di altre giostre sul fiume come oggi, vi insegno un modo per chiamarmi. Basterà chiamare a grande voce cuuuuuuuuuuì! Vedrete che io verrò. Così gli uomini dei secoli dimenticati usavano richiamare la mia gente. Io sono l’ultimo rimasto, ma non ho dimenticato quel richiamo. Per ora, vi saluto”.

E con questo, lo storione fatato scomparve. Quis, al suo solito, commentò:

Parlare con pesci può parere pazzia,
Oppure parodia,
Ma piace a me come pura poesia!

Qualche tempo dopo, i due fratelli appesero quattro storioni – bianchi e lunghi meno della metà di quello fatato – a un bastone, si misero il legno sulle spalle, e a passo pesante tornarono alla capanna. C’era un largo tavolo da lavoro davanti alla porta, e vi posarono i pesci, e Picaldo prese un coltello per pulirli, ma in un batter d’occhio apparve la moglie, dicendo:

“A me il coltello, Picaldo, questi storioni li pulisco io!”

“Ma lo sai fare, moglie? Non hai mai voluto provare. Guarda che questi puzzano come tutti i pesci”.

“Zitto!” e gli prese il coltello “te l’ho visto fare mille volte, purtroppo. Ora fatti da parte, sarò veloce”.

A grande fatica, con vivo disgusto, incominciò a pulire i pesci…

Ma quale forza che trovi nell’ambizione!
Non avevi mai alzato un dito

Per aiutare il tuo marito
Ma l’incanto dell’oro è più forte d’una pozione.

Nel ventre del primo pesce non c’era niente, e lei stava buttando le budella per terra quando il marito disse:

“Ma no, cara, non si butta via. E come faranno la colla se tu butti via la vescica? Vale quanto tutta la carne”.

“E portala via, allora, non sopporto la puzza”.

E così passò al secondo pesce. Ma anche il ventre di questo storione non aveva altro tesoro che la vescica. E così andò anche con il terzo. La faccia della donna diventava sempre più cupa, e a questo punto sbatté il coltello sul tavolo.

“Inutile! Qui non c’è nessun tesoro. Finisci tu!”

E se ne tornò dentro casa.

E così era troppo faticoso
Finire un lavoro laborioso.
Infatti, mi sembrava miracoloso
Per il tuo carattere borioso!

Ora, con grande pazienza, Picaldo e Pacoldo sfilettarono i primi tre pesci, ricoprendoli di muschio e mettendoli con cura in cestini di erba bagnata per tenerveli al fresco. Solo ora, con la carne dei primi pesci al sicuro, passarono all’ultimo storione. E qui, aprendolo, trovarono due nuovi tesori.

“Uova!” disse Pacoldo, felicissimo. “Uova per il mercato, per il tavolo di un nobile…”

“Una moneta d’oro!” urlò invece Picaldo. “Qui, proprio qui nella pancia!”.

Avete capito? Non solo quei pesci avevano carne e uova abbastanza per una festa a palazzo con tanti nobili, musica, balli… ma nella pancia avevano trovato una moneta d’oro! La moglie poteva dunque sentirsi soddisfatta?

Quis – Capitolo 3

Il tesoro del fiume

Illustrazioni di Francesca Duo

La terra era bella morbida. Per fortuna, perché siamo caduti proprio sul sedere, ma senza farci male. Che cosa? Sulla terra? Non dovevamo cadere dentro l’acqua? Ebbene, amici miei, eravamo dentro un mondo fatto di racconto: il Ghastengarda, l’aveva chiamato papà. Al suo interno, ogni magia era possibile. E ora ci trovavamo sull’erba bagnata e fredda, anzi, quasi ghiacciata, e attorno a noi la nebbia andava scomparendo. Nel giro di pochi respiri, infatti, si era alleggerita così tanto che riuscivamo a vedere tutto attorno a noi. Eravamo sopra una piccola altura, in mezzo a dei cespugli invernali senza foglie, e per fortuna i papà erano una ventina di piedi distanti, più in basso. Ci nascondemmo dietro quei cespugli a guardare. I nostri papà stavano parlando con…

…un ragazzino bello come un angelo, allegro come il sole. Era come se il figlio più bello e bravo del nobile più ricco della città avesse fatto cento bagni profumati, e si fosse messo vestiti lavati mille volte, e… e che ne so, non riesco a descrivere quanto era… pulito. E voglio dire, simpatico. Non potevi che volergli bene sin dal primo sguardo. Avremmo poi scoperto che il suo nome – piuttosto strano – era Quis.

Ora parlava con loro. Matteo aveva una faccia meravigliata quanto le nostre, ma il mio papà sembrava completamente a suo agio – anzi, si stava un pochino divertendo per la sorpresa del cugino, secondo me. Il ragazzino angelico gli stava indicando qualcosa più lontano, in fondo in fondo, verso il fiume. Perché vedete, eravamo in alto sulle rive del Ticino, credo vicino a San Salvatore fuori le mura. A sinistra, in lontananza, riconobbi il ponte romano, e più vicino le baracche dei mattonieri e le barche dei pescatori.

…non ho mai visto un re sì avaro

Diceva il ragazzino.

Più del sangue, l’oro gli è caro.
Ha raccolto i beni della gente
Lasciandole poco o niente,
E ora che è fuggito dalla battaglia
Tutti vedono quanto è canaglia.
Ma a lui non importa, basta riempire
Le tasche di tesoro, e partire.

Ecco altre due cose incredibili di Quis: una è come parla. Sembra una filastrocca. Non so come fa, io ci ho provato e non riesco. Magari una prima rima mi viene in tempo, ma se poi vado avanti m’impappino e finisce lì. La seconda cosa è: quando sei dentro il Ghastengarda senti Quis dovunque sia, fa niente se sta a due piedi da te, o a mille. E mica grida, no no! Parla piano, e tu lo senti sempre.

Intanto, io e Pietro ci stavamo guardando e, vi ammetto, avevamo tanta paura. Ora eravamo stati trasportati da una strana magia fuori dalla città, e vi dirò di più, fuori dal tempo! Perché i mattonieri e i barcaioli laggiù sulle sponde del Ticino, erano tutti vestiti come la gente delle fiabe, come la gente nei dipinti più antichi nelle vecchie chiese della città, quelle crollate a metà nel grande terremoto d’anni fa. E la città, che un po’ vedevamo da lì, era diversa, più piccola, più legno e meno mattone, e non c’erano le torri. Lo dico ancora, avevamo paura.

Cosa fare? Uscire dai cespugli, farci vedere, e accettare una certa punizione, o restare lì nascosti aspettando di tornare nel nostro mondo e sperare ancora, in qualche modo, di farla franca? Voi che cosa avreste fatto?

Ecco che implora, blandisce, minaccia,
Ma il cuore dentro gli si ghiaccia.

Di nuovo Quis. Di chi stava parlando?

Ora vedemmo che i barcaioli parlavano con un signore alto e un po’ grasso, e mezzo calvo. Era vestito da povero, ma alle dita, che sembravano piccole salsicce, portava grossi anelli d’oro, con delle enormi gemme colorate, che certamente non riusciva più a togliersi. Sembrava muoversi con fatica, e sudava… eppure faceva veramente freddo.

“…ma dovete ubbidire, io sono il vostro re! Portatemi all’altra sponda, subito…”

“Ma vostra maestà…” diceva uno dei barcaioli, un giovane dall’aria timida. Un altro, più grande e più scaltro, lo interruppe rozzamente.

“Ma quale maestà, sciocco ragazzo? Io vedo solo un grasso arrogante in vecchi abiti strappati. Un re va in giro così?”

Quis era divertito:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Un re travestito mi sa di asinaggine.
Sempre andavi, sospettoso, girando
Vestito da povero, la gente spiando,
Ma tutti lo sapevano, ci voleva poco fiuto.
Ora che stai cercando soltanto un aiuto
Ci provi ancora con lo stesso inganno?
Ma certo che non ti salveranno!

Ora sentimmo altre voci ancora, che urlavano: “È lui! È lui! Ariperto l’avaro! Ariperto il codardo! Nel nome del Signore, catturatelo!”

E dalla radura sotto le mura della città, arrivavano soldati dall’armatura stranissima, con scudi tondi, proprio come nei più antichi affreschi. Brandivano lunghe lance, ed erano infuriati. L’uomo dagli anelli d’oro si fece bianco come la calce viva, e cominciò a correre verso il grande fiume. Beh, correre… Dondolava, faticando come un’anatra sulla terra… Avete presente? Con tanto di lamenti e piagnucolii entrò nell’acqua gelida, mettendosi a guaire come un cagnolino.

I soldati, arrabbiati, arrivarono sulla riva quando lui era già nell’acqua profonda, e stava cercando di nuotare. Si fermarono: ovviamente, non valeva la pena di seguirlo, il suo destino era segnato. Quis scosse tristemente il capo.

Ma quale forza che trovi nella disperazione!
Non avevi mai fatto una corsa sì spedita,
Ma è l’oro che hai rubato dalla tua nazione
Che vuoi salvare ora, oppure la tua vita?
Ah! Le tasche son pesanti, e l’acqua è profonda,
Sbracci e sgambetti, m’arriverai all’altra sponda?

E infatti, proprio in mezzo al fiume, vedemmo che la corrente stava trascinando via l’uomo, che non ce la faceva più a stare a galla. Incredibilmente, ormai non tentava nemmeno più di nuotare, e teneva le braccia alzate fuori dall’acqua, stringendo nelle mani monete d’oro, rubini e zaffiri. Ben presto affondò.

I soldati stettero a guardare ancora qualche tempo, ma l’uomo non emerse più dalle acque.

“Si è punito da solo” disse uno.

Proprio in quel momento, sentimmo il verso di un corvo, craaaa craaaa! Guardammo in su. Col pensiero tornai al corvo spargi-nebbia che avevamo visto nella viuzza di Pavia, ma poi vidi che questo corvo era più vecchio, con la testa quasi calva, e piume grigie sulle ali. Girava lento, proprio sopra le nostre teste, e gracchiò ancora…craaaa, craaaa! Quando abbassammo lo sguardo… non eravamo più presso il fiume.

“Il tesoro del fiume, il tesoro del fiume… Bah!”

Cosa? Di chi era questa voce? Dov’ero?  Cos’era successo? Ma quanto mi sentivo disorientato! Non eravamo più sull’altura sopra il fiume. Io e Pietro ora ci trovammo sotto un vecchio noce, ed era primavera, perché le foglie erano piccole piccole, e d’un verde chiaro, le primissime dell’anno. Ma come? Cos’era successo? Non eravamo entrati in nessuna nebbia magica questa volta… semplicemente eravamo lì.

“Tuo padre vi ha preso in giro, te e tuo fratello credulone quanto te!”

Era la voce di una donna e veniva da una povera, piccola capanna di legno, tutta squadrata e pendente da un lato; il tetto sembrava che potesse cadere da un momento all’altro, e una stretta finestrella si apriva nella parete più vicino a noi. Fuori la finestra stavano i nostri genitori e Quis, intenti ad ascoltare la donna.

“Ma quale tesoro del fiume? Come ha potuto mio padre lasciare che io ti sposassi? Come ha potuto? Mi ha abbandonata qui, a questa vita misera, in mezzo a pesci puzzolenti… Per sempre!”

“Mia cara, non dire queste cose” giunse la voce di un uomo. “Mio padre di fatto non ha mentito. Ogni giorno portiamo al mercato un pezzo del tesoro di cui parlava…”

“Tesoro? Tu chiami tesoro un cesto di… di… minuscole alborelle?”

“Prima di lasciare questo mondo, mio padre ha fatto promettere a me, e a mio fratello di lavorare sodo ogni giorno con le reti a cercare il tesoro del fiume. E così ogni giorno portiamo al mercato sempre più pescato. Presto avremo abbastanza denaro per cambiare il tetto, e forse costruire un’altra stanza…”.

“Sei tu che non hai compreso un fico secco, marito! Ti do ancora una possibilità. Ma questa volta non lascio la mia sorte nelle tue mani. Vado dalla fattucchiera Edburga, ci deve un favore. Tornerò tra poco”.

E sentimmo sbattere una porta – in verità era più il suono di una porta che si rompeva – e una donna alta, altezzosa, dai capelli biondi e gli occhi scuri, si allontanava dalla capanna a grandi passi rabbiosi. I nostri padri e Quis la seguirono a una distanza discreta, per non farsi notare. Quis commentava, ridendo:

Ahi ahi! Che brutta la testardaggine,
Questa moglie ambiziosa mi sa di asinaggine.
Se dalla fattucchiera Edburga sta andando
Per chiedere un favore
In questo nero umore
La porterà soltanto allo sbando.

Ancora una volta Pietro ed io ci guardammo. Cosa fare? Seguirli?

“Andiamo” disse lui, “e facciamoci vedere da loro. Dai, Faro, ora basta. Arrendiamoci, i nostri papà ci daranno due sberle, e finirà lì. Non voglio smarrire la strada e rimanere per sempre in questo strano posto… tempo… mondo… non so bene che cosa”.

“No, dai, stiamo andando alla grande. Dobbiamo solo tenerli d’occhio. Prima o poi torneranno a casa, e quando succederà torneremo anche noi, senza farci vedere, come niente fosse”.

Pietro non era convinto, ma non gli diedi tempo per pensare.

“Forza Pietro, andiamo, se no li perdiamo di vista”.

Era vero, i due e Quis stavano per scomparire nel boschetto. Pietro mi lanciò uno sguardo incerto, ma si mise a camminare.

Quis aveva parlato di una fattucchiera Edburga. Chi era? Di lì a poco avremmo capito che si trattava di una donna estremamente anziana, che parlava strano e viveva in una casetta sotto un gigante, maestoso pioppo nero. Beh, casetta… dire così fa pensare a una casa fatta di legno, almeno. Ma al posto delle pareti e del tetto c’erano solo vecchissimi mantelli di lana appesi ai rami, uno accanto all’altro e cuciti insieme, e poi ricoperti di piume di uccelli d’ogni colore e forma. Una sorta di tenda piumata. Era la casa più strana che avessi mai visto. Ma senza dubbio era la casa giusta per una fattucchiera.

Edburga stava seduta per terra, e vestiva un vecchissimo mantello di lana ricoperto di piume. I suoi occhi erano bendati, e capii che era cieca. Aveva acceso un fuoco, e stava arrostendo qualcosa. Dal profumo sembrava pesce.

La moglie del pescatore le si avvicinò.

Giunti sul posto, Quis e i nostri genitori si mantennero nascosti, per non farsi accorgere e noi, doppiamente, ci nascondemmo alla moglie del pescatore e a loro.

“Edburga,” la moglie del pescatore non la salutò nemmeno, “quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

La fattucchiera sorrise sotto la benda.

“Buongiorno”.

“Dico io, quel pesce te l’hanno portato mio marito e suo fratello?”

“Tutti i pescatori mi portano qualcosa di tanto in tanto. Tuo marito si chiama Picaldo, e suo fratello Pacoldo, vero? Ragazzi per bene”.

“Anche il padre di Picaldo lo faceva, vero?”

“Certamente, e anche suo nonno. Uomini saggi e generosi”.

“Allora tu ci devi… non so quante centinaia di pesci, da generazioni… Adesso basta. Dicono che sei una fattucchiera potente. Vediamo! Quando mi sono sposata, mio suocero ha promesso che Picaldo e Pacoldo avrebbero trovato un tesoro nel fiume. Invece ogni giorno portano a casa i pesci più piccoli che esso contiene, le alborelle, e niente tesoro. Io sono stufa. Fa che peschino d’ora in poi i grandi storioni fatati che hanno ingoiato il tesoro del Re Ariperto, come dicono i cantastorie!”

Dopo un lungo silenzio, la fattucchiera rispose:

“Sicura, mia cara? Le alborelle sono più gustose degli storioni, hai mai provato a farle in carpione?”

“Non mi prendere in giro! Voglio vivere come una donna normale, con una casa decente, e vestiti decenti. Fa come ti dico, e ti sarai sdebitata con noi di tutto il pesce che hai mangiato “.

“Allora, farò come chiedi. Ma dovrai darmi uno dei tuoi capelli”.

“Uno dei miei…? Ah, sì. Per la magia. Certo!” E con una smorfia di dolore, si strappò un lungo capello chiaro dalla testa. Lo porse alla fattucchiera, e vedemmo che le tremava un po’ la mano. Non era sicura di sé come sembrava.

La vecchietta ora fece qualcosa di veramente strano: tenne il capello tra due dita, ci soffiò sopra leggermente, per tutta la lunghezza e poi…  lo lasciò cadere. E qui successe una cosa che mi fece venire i brividi… il capello cominciò a muoversi come… come un verme, e infilarsi sotto la terra. Giù, giù, e giù, fino a scomparire del tutto. Poi, con espressione determinata, la fattucchiera scavò con le mani, e presto tirò fuori dal suolo un grasso lombrico, lungo esattamente quanto il capello.

La moglie guardò il tutto con una faccia tanto affascinata quanto disgustata. La fattucchiera, calma e decisa, sussurrò qualcosa al verme, che smise di agitarsi, e si calmò. Dopo qualche attimo un pennuto, credo che fosse un tordo, venne fuori da un cespuglio vicino, si posò sulla mano della fattucchiera, prese in becco il lombrico, e volò via.

“È questa la tua magia, fattucchiera?” chiese la moglie del pescatore. Era chiaramente impressionata, ma delusa.

“Questa è la mia magia” annuì Edburga.

“Bene, arrivederci”.

E con questo la donna si allontanò più in fretta possibile.

Craaaa, craaaaaa!

Sentimmo di nuovo il verso del corvo dall’alto. Guardammo su a quelle ali nere e grigie… Battemmo le palpebre, e tutto d’un tratto non eravamo più alla casa della fattucchiera Edburga.