Quis – Capitolo 2

Il Ghastengarda

Illustrazioni di Francesca Duo

Quella mattina mi svegliai prestissimo. Non riuscivo a dormire per l’emozione: avrei avuto finalmente un compagno della mia età al cantiere. Pietro si era riposato bene e si svegliò pieno di energia anche lui.

“Oggi andiamo in cantiere, vero?” chiese.

“Certo, a scuola prima di tutto” disse Matteo.

“Voi ragazzi sì,” fece mio papà, “noi grandi abbiamo un viaggetto da fare. Tu sai, Faro. Uno di quei viaggi speciali”.

A sentire questo, la mamma alzò lo sguardo dal paiolo dove scaldava la ricotta.

“State attenti, Faramundo,” disse seria, “e spiega bene a tuo cugino ogni cosa, mi raccomando”.

Io bruciavo di curiosità, ma non dissi niente. Avevo già tentato più volte di convincere papà a lasciarmi accompagnarlo durante quei viaggi speciali, come li chiamava lui, ma non c’era niente da fare. Io ero ancora troppo piccolo e papà non sentiva ragione…

Dopo colazione, mentre andavamo alla basilica, Pietro mi sussurrò:

“Che cos’è questo viaggio, Faro? Mio papà va via?”

“Solo fino al pomeriggio, stai tranquillo”. Povero, era agitato, aveva la faccia preoccupatissima.

“Ma Faro, voglio stare con lui”. Se ci pensate, aveva appena visto casa sua distrutta, era fuggito per cambiare città, non vedeva più la mamma e le sorelle da giorni.

“Ah… certo…” Mi sentivo in imbarazzo. Lui mi guardava con quegli occhioni grandi e sentivo che si sarebbe messo a piangere di lì a poco. “Ma non possiamo andare, mio papà non mi fa mai andare con lui, dice che sono troppo piccolo. Allora, lo sei anche tu”.

“Ma tua mamma gli diceva di stare attento. Vuol dire che è pericoloso!”

“Non lo so, non sono mai andato. Sai, questi viaggi sono un gran mistero. Il papà parte sempre la mattina e torna prima di sera, ma stanco morto e affamato, quasi come se fosse in viaggio da giorni. Dopo cena ci racconta sempre una nuova fiaba fantastica. Quella è la parte migliore. Poi in cantiere si mette a lavorare su un nuovo blocco di pietra, scolpendo la storia di quella fiaba”.

“Voglio andare con lui”. Pietro era deciso. Cosa potevo dirgli? Ora, voi direte che per me era la scusa buona per combinare la solita mia birbonata, e un po’ vi do ragione, ma vi giuro che era proprio commovente vedere quanto Pietro fosse preoccupato. Cosa dovevo fare?

“Senti Pietro, ho un’idea. Quando lasceranno il cantiere per il viaggio, perché non li seguiamo in segreto? Tanto, non è che vanno lontano, è roba di una mattina e un pomeriggio. Restano nei paraggi della città. Ce la fai a camminare ancora un giorno?”

“Sì, sì!” era contentissimo. “Facciamolo! Io non conosco queste zone, i nascondigli. Mi fai tu da guida, va bene?”

“Così è!”

Ma subito dopo Pietro si pentì.

“Non è che ci cacciamo nei guai, vero?”

“Ma no, dai, cosa vuoi che sia…” dissi con grande disinvoltura. “Se il maestro ci becca, son solo legnate. Ma quello è legno dolce, quel bastone, fidati, l’ho sentito sulla pelle tante di quelle volte… Se invece i nostri papà ci scoprono, qualche pedatina così, con affetto. La catastrofe è se la mamma lo viene a sapere…” Sgranai gli occhi tutto esagerato, come un attore di strada a carnevale. “Niente ricotta domattina!”

Pietro fece una risatina un po’ forzata. Capii che non era il tipo di ragazzo che fa certe birbonate, ma l’ansia di non separarsi dal padre era troppa.

“Va bene” disse. “Ci sto”.

Qualche tempo dopo, a scuola ci eravamo sistemati per terra in fondo, dietro al gruppo degli altri ragazzi, e io tenevo un occhio sul maestro Paolo e l’altro su mio padre, che parlava con i suoi lavoranti, spiegando che lui sarebbe andato via per tutto il dì, e che cosa dovessero fare durante la sua assenza. Il cugino Matteo ascoltava, e guardava i lavori non ancora finiti.

Ben presto i due si allontanarono. Mi sarei alzato subito, se non fosse che Matteo guardò più volte indietro, verso Pietro, e vidi che era dispiaciuto quanto suo figlio di separarsi da lui per un giorno. Solo quando avevano svoltato l’angolo, sussurrai a Pietro:

“Non appena si gira il maestro… Pronto… Ora!”

Tenendoci bassi, senza fare rumore, in un battibaleno ce l’eravamo svignata.

“Forza, più veloce” ripetevo a Pietro. E i nostri piedi facevano tap tappa tap, tap tappa tap sui ciottoli. “Corri, co…” mi interruppi a metà parola. Passavamo davanti alla bancarella di Anselmo. La mamma comprava sempre da lui frutta fresca d’estate e frutta secca d’inverno.

“Ciao, Faro” disse lui, sempre gentile e allegro. “Perché tanta fretta?”

“Oh, ah…” mi fermai un attimo. Anselmo era solito regalarmi qualche frutto quando passavo con la mamma. E se passavo con un amico? “Ho lasciato una cosa a casa che mi serve per la scuola” dissi, senza mai togliere gli occhi dai nostri padri che si allontanavano tra la gente in fondo alla via. “Ecco, questo è mio cugino Pietro, è arrivato in città da poco. E… anche lui si è dimenticato a casa una cosa.”

“Oh, piacere, piacere, Pietro. Ah, bene, anche tu figlio di capomastro, allora? E come va la scuola, ragazzi? Sapete quanto siete fortunati, vero? Io non ho mai imparato le lettere”.

“Sì” disse Pietro tutto serio “è proprio una grande fortuna”.

“Signor Anselmo” dissi io, “siamo di molta fretta, mi spiace…”

“Oh, certo, certo, ragazzi, andate. Ma prima, non volete prendervi una castagna a testa?”

Urrà! Bravo Anselmo! Pensai.

“Oh, se proprio insisti…” Non volevo perdere di vista i nostri padri, ma le castagne erano troppo belle e invitanti. Cominciai a cercarne qualcuna grande. Anselmo era un bonaccione, ma mi conosceva.

“Prendi una qualsiasi, Faro, e solo una! Il Signore guarda”.

Pietro aveva già preso una castagna senza troppo pensarci su…

Scelsi comunque una castagna tra le più grandi e dopo un: “grazie ancora Anselmo, a presto!” riprendemmo la corsa. E appena in tempo, perché proprio in quel momento i nostri genitori stavano girando l’angolo in fondo alla strada.

Correvamo, correvamo. Appena ripreso il passo dei due, offrii una noce a Pietro. Lui mi guardò sbalordito. “Hai preso anche delle noci? Ha detto che Dio guardava!”

“Tranquillo, guardava le castagne!”

Eravamo giunti al punto dove avevano svoltato i nostri padri. Sapevo che lì si apriva una viuzza stretta e tortuosa, a tratti coperta da case costruite sopra la strada come se fossero ponti.

Ci fermammo, nascosti dietro il muro che faceva angolo, e pian piano demmo una sbirciatina nel vicolo. I nostri padri stavano di spalla, e guardavano in alto. Guardammo su anche noi. I palazzi erano stretti, e si vedeva poco cielo, ma era azzurro, senza una nuvola, solo i fili di fumo dei camini. Craaa, craaaaa sentimmo, e poi un graffiare di artigli e di becco sulle tegole di un tetto, e ali che battevano. Nero, ma più nero della pece, apparve un corvo enorme dal becco grigio e lungo, ali come ombre, e occhi profondi come pozzi.

Volò giù dal tetto e si posò sul davanzale di una finestra dall’altro lato della viuzza. Volando aveva lasciato dietro di sé una scia di nebbiolina sospesa in aria, come quella delle prime mattine di settembre, così leggera che quasi non si vedeva.

Il corvo guardò mio padre per un lungo momento. Mio papà guardò il corvo. Era come se si conoscessero. L’uccello riprese a volare nello stretto vicolo, su e giù, posandosi di tanto in tanto sui davanzali, lasciando sempre un serpentello di nebbia sospesa in aria, e che lì rimaneva senza svanire. Anzi, era come se si allargasse. E i vari serpentelli, che diventavano sempre più grandi, s’intrecciavano, riempiendo la viuzza, e la nebbia diventava sempre più fitta; fin quando tutto divenne bianco. Allora il corvo svanì nella nebbia, e i nostri genitori pure!

Io e Pietro ci guardammo. Leggevo sulla sua faccia tutta la meraviglia e la confusione che sentivo in me. Per un istante con gli occhi ci parlammo. I suoi dicevano:

Che facciamo? Andiamo avanti, o torniamo al cantiere? Io quasi quasi tornerei, tutto questo è troppo strano…

I miei dicevano:

Macché! Tornare a prenderci le bastonate per una birbonata compiuta a metà? Andiamo avanti!

Vinse il mio sguardo, e li seguimmo con passo silenzioso. Dentro la nebbia era più facile non farci notare, ma c’era anche più rischio di perderli di vista. Per fortuna conoscevo bene la viuzza, e sapevo che girava prima a destra, e poi a sinistra, proprio così…

Un attimo! Girava di nuovo a destra. Ma non era fatta così quella strada, a quel punto doveva girare a sinistra! Ma che stava succedendo? Mi spostai più vicino al muro per seguirlo, e vidi che, al posto dei mattoni rossicci dei palazzi di Pavia, c’erano muri lisci, bianchi, intonacati. C’erano anche stranissimi disegni, fatti con una pittura che sembrava non avere spessore, e senza tratti di pennello, come se quei colori così vivaci si fossero posati sul muro da soli. Ma quanti dipinti! Uno era più strano dell’altro, alcuni grandi, alcuni piccoli. Il primo che mi colpì fu una stella che era allo stesso tempo un arcobaleno, con tanti raggi luminosi davanti a… sembravano (quasi) petali di colore, non saprei spiegarmi meglio. Un altro dipinto sembrava dapprima una torre, poi una croce fatta di tanti quadratini colorati, ma poi capii che era una sorta di portale. Poco più in là vedemmo una spada di fuoco.

Di nuovo io e Pietro ci parlammo solo con gli occhi. I suoi dissero:

Tu non sai dove siamo, vero? lo capisco dalla tua faccia. Che cosa succede?!

I miei risposero:

Non ne ho idea, non perdiamoli di vista: adesso ho un po’ di paura…

Intanto anche loro si erano fermati un po’ più avanti per guardare alcuni dipinti, e mio padre diceva:

“Ecco, Matteo, questa è la magia più profonda del Ghastengarda. Trovare il disegno giusto per aprire il passaggio verso il racconto”.

“Cerco di capire” disse Matteo, incerto. “Quale racconto?”

“Rimangono tre spazi vuoti nella facciata, uno vicino a ciascuno dei portali. È mia intenzione scolpire le tre virtù teologali”.

“La Fede, la Speranza e la Carità”. Matteo annuiva. “Tre dame, la prima porta la croce, la seconda…”

“No, no. O meglio, forse sì, forse no. Non lo sappiamo ancora. Lo scopriremo soltanto quando si aprirà il passaggio.

Sarà lui stesso a mostrarcelo. Entreremo dentro il racconto che poi andremo a scolpire. Da quale cominciamo, dalla Fede?”

“Va bene” Matteo si stava chiedendo se mio padre fosse matto? “Sì… la Fede… è la prima nell’ordine”.

“Bene, e quale di questi disegni può essere la Fede?”

Matteo studiò il muro. Noi non vedevamo da lontano quali disegni guardavano. Dopo un lungo momento, Matteo indicò un pezzo di muro, dicendo:

“È questo, ne sono sicuro”.

Mio papà annuì.

“Anch’io ne sono convinto. Forza Matteo, posaci la mano sopra, e vedremo”.

Un po’ incerto, allungò la mano verso il muro. Non vidi bene quello che successe per la nebbia, ma sentii uno strano rumore, un movimento dell’aria, come un lento respiro, quasi un sospiro. Poi di nuovo la voce di papà.

“Vedi? Sei pronto?”

E accanto a me Pietro diede un piccolo sussulto quando mio padre fece due passi in avanti e… scomparve dentro il muro, seguito da Matteo.

“Andiamo! Veloce!” gli sussurrai. Non c’era bisogno di convincere Pietro, si era già mosso.

Arrivando al muro dov’erano scomparsi, trovammo un’apertura scura a forma di arco, dalla quale veniva un leggero bagliore pallido. Dandoci la mano, entrammo.

Era una galleria lunga e stretta, con il soffitto a volta. Anche qui, le pareti erano coperte dagli stessi strani disegni di prima, ma ora capii che i colori rilucevano, generando il bagliore che avevamo visto da fuori. In quella luce si vedeva poco, ma era molto meglio che non vedere affatto. Davanti a noi sentimmo i passi dei nostri genitori echeggiare e ci affrettammo a seguirli, il più silenziosamente possibile.

“È sempre così, dentro il Ghastengarda?”

 Era la voce di Matteo. Io e Pietro ci scambiammo uno sguardo. Il Ghastengarda?

“Ogni volta è diverso” disse papà. “È questa la sua magia. Il luogo è il racconto… Per questo dico, se vogliamo andare avanti dobbiamo avere fede. Perché questo è il racconto della Fede. Hai capito cosa intendo?”

Dopo una pausa: “Credo di sì… andare avanti nel buio”.

“A volte si deve, no?”

Matteo rise nervoso.

“Ultimamente, quasi sempre”.

Eravamo rassicurati dalle loro voci davanti a noi, ma… la galleria era tortuosa quanto e più della viuzza e presto avevo perso ogni senso di orientamento e del passare del tempo, e sempre più avevo la sensazione che l’unica via fosse in avanti, e non in dietro.

Dopo non so quanto sentii mio padre: “È un lago. O è un fiume?”

Acqua? In una galleria? Mi vennero i brividi.

“Ecco, barchette con le pagaie; le vedi?”.

“Secondo me, dobbiamo attraversare”.

“Verso…?”

“Appunto. Non sappiamo. Tranquillo, il nonno diceva sempre: nel Ghastengarda devi solo andare avanti”.

Ora sentimmo il suono leggerissimo dell’acqua che lambiva il legno di una barchetta, e di una pagaia che veniva tuffata nell’acqua. Presto arrivammo anche noi alla riva. Non eravamo più in una galleria, anzi, nemmeno in una caverna, perché non c’era nessuna eco, solo una distesa d’acqua nel quasi-buio, e delle barchette tonde, ciascuna con la sua pagaia larga e piatta.

“Hai mai usato una barca?” mormorai a Pietro.

“Mai”.

“Io ci sono stato qualche volta… sul Ticino… non usavo io i remi, ma non sembrava difficile. Scegli tu la barca”.

Pietro non era un ragazzo complicato. Indicò quella più vicina. Salimmo a bordo un po’ goffamente, come fa sempre chi non è abituato alle barche, e impugnai la pagaia per spingerci via dalla riva.

“Faro, aspetta…” disse Pietro quando ormai avevo dato la prima spinta. “Quale direzione?”

Niente, era troppo tardi, eravamo alla deriva nell’acqua. La mia faccia doveva essere una maschera di paura. Lo era quella di Pietro…

Un attimo. Come facevo a vedere la faccia di Pietro? Da dove veniva la luce?

Guardandoci attorno, lontano vedemmo una forma bianca riflessa sull’acqua, sembrava proprio la luna piena che a volte si specchia nel fiume, increspata da onde leggere. Ma come faceva ad esserci se in cielo la luna non si vedeva? Non potendo fare altro, spinsi la barca con la pagaia verso quella luce.

Fui sollevato nel vedere la sagoma dei nostri padri nella loro barchetta, che si avvicinavano anche loro a quella stessa macchia di luce sull’acqua.

Man mano che ci avvicinavamo, la luce si spandeva e si alzava indistinta e senza forma dall’acqua, diventando una nebbia luminosa. Dapprima inghiottì la loro barchetta e poi, dopo qualche tempo, pure la nostra. Attorno a noi non era più nero, ma bianco.

Amici lettori, non so se voi nel vostro mondo, o vostro tempo, quel che sia, avete la nebbia come l’abbiamo noi nella nostra Pavia! Tutti pensano di sapere cos’è la nebbia, poi vengono a Pavia e devono ricredersi. La nostra è qualcosa di speciale. Può essere bianca e luminosa quanto vuoi, ma è alla pari di una notte senza luna, perché comunque non vedi un bel niente. Vi giuro, nemmeno l’acqua sotto la barca. Così, quasi per accertarmi della sua presenza, allungai una mano in cerca del contatto freddo. Santo cielo! Non si vedeva… perché non c’era più… la nostra barca galleggiava… sulla nebbia!

E proprio in quel momento, una voce giunse da… da dove?

La nebbia giace sotto il sole,
Sopra i mari, i fiumi e i monti,
Densa e bianca, nuvola di parole,
Sorretta da un dolce vento di racconti.
Mastri scultori,
Padri costruttori,
Saltate nel profondo
Del mio misterioso mondo!

“È Quis” disse mio papà. Seguendo la sua voce, riuscii appena appena a vedere le ombre vaghe di due uomini in una barchetta.

“Ma… Ci sta dicendo di saltare giù?” Matteo era sorpreso quanto noi.

“Sì, è proprio quello che dice” disse allegro papà. Certo si stava divertendo!

“Ma… ma è follia!”

“No, no, ha senso. Un salto di fede”.

“Lo stai dicendo sul serio?”

“Meno male che non si vede niente. Altrimenti non so se riuscirei…”

“A fare…?”

“Questo!” e una delle ombre… si alzò e… saltò giù dalla barca e… scomparve…

Ero talmente sorpreso, e anche spaventato nel vederlo scomparire nella nebbia, che feci un sussulto, balzai in piedi, e mi coprii la bocca con le mani. Eh, sì, con entrambe le mani.

Lo so, lo so… che sciocco! Ma sapete, io sono un ragazzo di città, cresciuto tra mura e muri e vie e piazze. Il figlio di un pescatore non lo avrebbe mai fatto, mai! I figli dei pescatori sanno benissimo che balzare in piedi fa dondolare la barca come un’altalena impazzita, e il modo migliore per tenere l’equilibrio è stare con le braccia aperte, non con le mani sulla bocca. E così, persi l’equilibrio e caddi… Il povero Pietro, che era stato più bravo di me e non si era alzato, tentò di afferrarmi. E infatti mi afferrò… Ma vedete, lui è piccolo e mingherlino, mentre io sono alto e robusto per la nostra età, e col mio peso lo trascinai giù con me, e insieme cademmo dentro quella magica nebbia…

Capitolo 3 – Il tesoro del fiume

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