Quis – Capitolo 1

I fuggitivi

Illustrazioni di Francesca Duo

Conoscere per la prima volta un cugino è come trovare un nuovo amico e un nuovo fratello tutto insieme. Per me fu l’evento che sconvolse la mia vita tranquilla, noiosa e ripetitiva, trasformandola ogni giorno in un racconto.

Arrivarono prima dell’alba, quando io e la mia sorellina Gisi ancora dormivamo tranquilli. I guardiani delle mura aprono sempre prestissimo le grandi porte della città, per i mercanti e i pellegrini che hanno tanta strada da fare. Bene, i miei cugini, Pietro e suo papà Matteo, stavano già lì, davanti alla Porta quando si aprì, e chissà come tremavano, nel buio e nel freddo prima dell’inizio del giorno. Era marzo, ma un marzo rigido, mi ricordo bene. Ecco come andarono le cose, secondo il racconto di Pietro:

“Chi siete, come mai siete arrivati così presto?” Chiese il capo dei guardiani della porta. “Camminate di notte?”

“Sì, buon uomo,” fece il papà di Pietro, “abbiamo camminato tutta la notte, e tutto il giorno e la notte prima.”

“E non dormite mai? O non avete i soldi per una locanda? I contadini fanno dormire i viaggiatori nelle stalle con gli animali. Almeno potreste stare al caldo.”

“Avevamo… tanta fretta.”

“Hmmm” disse la guardia, con aria sospetta. “Avete il parlata dei Tortonesi. Non è che siete fuggitivi?”

Una lunga pausa.

“Sì, lo siamo”.

“Siete con l’imperatore o con Milano?”

“Siamo capomastri” disse il papà di Pietro. Aprì il mantello per fare vedere i martelli e gli scalpelli appesi alla cintura.

“Forza, non mi prendere in giro, siete Ghibellini o siete Guelfi”.

“Siamo capomastri, e di Ghibellini e Guelfi non c’importa. Non c’importa delle vostre guerre”.

“Allora a noi non importa di voi. Non potete entrare. Andate a Milano. Loro vi accoglieranno a braccia aperte se gli dite che a Pavia vi hanno chiuso le porte. Ringraziate il cielo che non vi sbattiamo in cella.”

“Aspettate!” disse il papà di Pietro. “Mio padre era di qui. Ho un cugino ancora in città, Faramundo, capomastro come me. Posso lavorare con lui. So che stanno ricostruendo la basilica dei re, gli serve ogni mano d’aiuto che riescono a trovare.”

La faccia del guardiano cambiò.

“Faramundo, eh? Hmmm. E come faccio a sapere che tu sei veramente suo parente?”

“Mio cugino è alto, biondo, e ha occhi castani. Soffre di vertigini e, se può, evita di salire sui ponteggi”.

Si sentirono risate tra le guardie. Mio padre era famoso a Pavia per questo: Faramundo, il capomastro che soffriva di vertigini. È una cosa un po’ imbarazzante per un capomastro, che spesso deve salire in alto sui ponteggi per la posa dei conci di pietra. Se proprio non ha scelta, papà si arrampica ad occhi chiusi, aggrappandosi ai legni e con tanto sudore (freddo) in fronte. Allora lo aiutano gli operai: “A sinistra due passi… ora dritto… ora a destra tre passi… occhio che lì c’è un buco…” e così via. E piano piano ce la fa. Ogni tanto lo prendono in giro i passanti che non lo conoscono. Comunque, lui mica si vergogna, anzi, è il primo a scherzarci su.

“Non è che ho paura di stare in alto,” dice lui, “e nemmeno di cadere. Di sfracellarmi per terra a fine caduta, però, quello sì che mi impressiona!”

Bisogna però dire che chi lo conosce non si burla mai di lui, che è molto rispettato, ed è dei migliori nel suo mestiere.

Ma… torniamo alla Porta del ponte, ché Pietro e suo padre stavano ancora cercando di entrare.

Il capo guardiano si mise in disparte con i suoi per parlare.

“Che dite? Ci sta mentendo? Mando per Faramundo?”

“Non lo so” disse uno, “e se fosse una spia?”

“In giro di notte con il figlio giovane?”

“Beh, lo renderebbe più credibile, no?”

“Hmmm…”

Il padre di Pietro non ne poteva più.

“Ascoltatemi bene” – disse – “avete sentito quello che sta accadendo a Tortona? Il vostro imperatore sta distruggendo tutto. Le mura, le case, i palazzi, tutto tranne le chiese. La città brucia. Tra qualche settimana lui sarà qui a Pavia, per farsi cingere la testa con la Sacra Corona Ferrea, nella basilica dei re. E se non è finita? Se mancano ancora parti della facciata? Vi immaginate se il Barbarossa si infuria con i pavesi che non sono stati puntuali nel finirla? Pavia è più grande di Tortona, c’è più oro da saccheggiare, più case da bruciare. Secondo voi, non è meglio avere una mano di aiuto in più alla basilica, per finire in tempo?”

Amici, voi dovete sapere che io sono un dormiglione nato, non c’è niente da fare. Vi giuro, quella mattina i guardiani arrivarono a casa mia, bussarono alla porta, spiegarono tutto a mio padre e a mia madre – che ovviamente erano già svegli – e mio padre se ne andò con loro e io non mi accorsi di niente, ché me ne stavo tranquillo al calduccio tra le coperte con la Gisi. Alla porta del ponte papà persuase i guardiani che i fuggitivi erano veramente suoi cugini, e che c’era veramente bisogno di una mano d’aiuto al cantiere della basilica.

Io e Gisi ci svegliammo con calma, la mamma ci versò un po’ di ricotta scaldata nel siero, ci bagnò un po’ di pane biscottato. Era tutto perfetto, e io mi misi a mangiare, senza manco guardarmi intorno per vedere se mio padre c’era.

Voglio dire, dopo una bella dormita uno ha fame, no? E svegliarsi è duro. Niente, a un certo punto mia madre, che aspettava un nuovo fratellino o forse una sorellina e aveva un pancione enorme, era andata a fare i suoi bisogni, e ci stava mettendo un po’ troppo! Intanto avevo finito la mia ricotta.

“Papà, c’è ancora della ricotta?”

“Papà è uscito” disse la mamma dall’angolino dei bisogni.

“Ma non è ora di uscire,” Gisi protestò.

“Doveva andare alla Porta del ponte. Aspettate. Un attimo ché vi devo parlare”.

Mia madre tornò piano piano da noi, che stavamo per terra davanti al fuoco e si sedette sulla cassa di legno.

“Allora, ragazzi,” ci disse con la faccia seria “se Dio vuole, la nostra famigliola presto crescerà di uno, lo sapete”. Mise una mano sul pancione. “Ma oggi cresce di altri due, tutto d’un tratto”. Guardammo sbalorditi il pancione, come se dovesse succedere un miracolo, e due fratellini dovessero saltare fuori da un momento all’altro. Lei rise.

“No, non c’entro io. È arrivato a Pavia il cugino di papà, Matteo, da Tortona. Starà con noi per un po’ di tempo per dare una mano a papà, perché sapete che occorre finire la basilica in fretta. E c’è una buona notizia: ha un figlio che si chiama Pietro, che ha la tua età, Faro.”

“Ma è fantastico!” dissi. “Finalmente qualcuno con cui giocare. Dai, sarà un grande amico, sfideremo Astolfo e Gherardo ad affonda-la-barca, ci infileremo nei giardini per rubare frutta, ci…”

“Voglio una cugina anche io!” urlò Gisi. Mi interrompeva sempre.

“Pietro ha due sorelle,” disse la mamma “una poco più grande di te, Gisi, e l’altra più piccola. Ma sono rimaste con la madre in un convento vicino a Tortona. Sapete, le strade sono pericolose. A Pavia sono venuti solo i maschi”.

“Eh, Gisi!” feci, ingeneroso. “Io ho un nuovo amico e tu no!”

E ovviamente cominciammo a litigare, e poi a menarci, o meglio, io menavo Gisi e lei mi mordeva e mi tirava i capelli. La mamma stava giusto per cominciare una bella ramanzina quando sentimmo aprire la porta. Papà era tornato – e con il nuovo cugino!

Accanto a papà, un po’ più basso e più scuro di capelli, ma con gli occhi azzurro chiaro, c’era Matteo, che aveva la barba riccioluta e un naso a punta che lo faceva sembrare un topo. Ma il viso era gentile e mite. Pietro era identico a suo padre, come i modellini di cera che papà prepara prima di scolpire qualcosa, ecco. Il papà era la scultura finita, il figlio il modellino – uguale, ma più piccino.

Corsi in avanti e abbracciai Pietro, dicendo: “Cugino, cugino, è fantastico, sei qui, possiamo giocare insieme, ma tu conosci affonda-la-barca, vero? E poi ti devo mostrare…”

Povero Pietro! Un tipo così riservato, rimase lì fermo, proprio come una statuetta di cera.

“Faro, Faro, un attimo” diceva papà, sorridendo. “Il povero Pietro ha camminato tutta la notte, è stanchissimo. Lascialo stare un attimo, altrimenti lo mandi in confusione.”

Allora smisi di chiacchierare, e feci due passi indietro. Rimasi malissimo, però, perché Pietro incominciò a piangere! Suo padre lo abbracciò, e mia mamma venne avanti.

“Piccolo Pietro, vieni a fare colazione, abbiamo ricotta calda e pane duro, avrai tanta fame, e tanto sonno. Adesso faccio un nuovo letto per voi, e oggi vi potete riposare quanto volete”. Pietro, alla parola colazione, si animò un pochino, e andò con mia madre al focolare.

“È vero, Matteo” disse papà, “oggi dovete solo riposare, finché non sarete sazi di sonno.”

“Pietro sì” rispose Matteo, guardando suo figlio mangiare con una fame da lupo “ma io ho una grandissima voglia di vedere la basilica dei re. In tutta la Lombardia si parla di quello che state facendo sai? A Natale ci fu un mercante di Padova a Tortona, che diceva che se ne parla perfino a Cividale. Ma è vero che non c’è un angolo senza scultura?”

Papà sorrise, contento.

“Sì, sì, ed è un gran duro lavoro. Se non fossimo stati così ambiziosi, ora non avremmo paura di non finirla in tempo. Bene, fai colazione con tuo figlio, allora, e poi andremo”.

Quella mattina alla basilica il cugino Matteo trovò tutto meraviglioso. Mentre io stavo con gli altri ragazzi e con il Maestro Paolo, sentivo la sua voce arrivare da dentro la chiesa, da fuori, da sopra nei matronei, da sotto nella cripta. “Magnifico!” diceva, e: “Glorioso! Strepitoso!” Andava esplorando le sculture, indovinando quale storia raccontasse ognuna.

“Faramundo, questo è l’Angelo della Peste, non è vero?” E poi ancora: “Ma il guerriero che lotta con il leone è Sansone o è Peredeo?” Un’altra volta: “Ah, ma lei è Teodolinda, la riconosco subito”. E così via, per tutto il giro della basilica.

All’epoca, io ancora non mi rendevo conto di certe cose, e non mi accorsi di come alcune persone guardavano storto Matteo, con sospetto, e come papà li rassicurasse con lo sguardo e con miti parole. C’era una grande tensione nell’aria, a causa non solo della corsa per finire la basilica in tempo, ma anche della guerra.

Prima ancora di un capomastro, Matteo era un padre; e quando venne dove noi ragazzi eravamo seduti, sulla sabbia, esclamò fortemente:

“La scuola per i ragazzi! I vostri figli hanno qui il maestro? Questa sì che è una meraviglia.”

Tutti i ragazzi erano curiosissimi del nuovo arrivato da Tortona, ma nessuno di loro alzò la testa, perché il maestro della scuola, oltre a una lunga barba e due occhi (che un’aquila poteva invidiare), aveva anche un grosso bastone. E sapete cosa non aveva? Timore nell’usare quel bastone. Su di noi. Così, rimanemmo tutti a testa bassa, legnetto in mano, a scrivere le nostre lettere nella sabbia. Chi sbagliava anche un solo tratto di una sola lettera… pam!

Papà stava dicendo a Matteo:

“La basilica ci ha prestato un diacono, il buon maestro Paolo, che tiene i ragazzi metà mattinata qui a imparare le lettere e i numeri. Dopodiché vengono a darci una mano, e ad imparare il mestiere. Faro di questi tempi mi sta dando una grossa mano a levigare le sculture e rifinirle, prima della pittura”.

“E bravo Faroaldo. Anche Pietro fa la stessa cosa per me. Allora, li facciamo lavorare insieme”.

Sentire questo mi fece un grandissimo piacere. Nessuno degli altri figli dei capomastri aveva la mia età e non volevano mai giocare con me. Ora, finalmente, avevo un cugino, un amico, un compagno di giochi tutto mio.

Ebbene, il cugino Matteo tornò presto a casa nostra a dormire, essendo veramente stanco, e il resto della giornata passò lenta e noiosa. Ora, non avrebbe senso raccontarvi una giornata noiosa: è meglio che vi racconti di me e della mia famiglia, che ne dite? Devo spiegarvi bene certe cose che voi non conoscete, me lo ha ripetuto più volte Quis.

Chi è Quis? Tranquilli, lo conoscerete presto!

Non voglio rivelare troppo in anticipo (per non rovinare la storia), ma Quis mi ha portato nel vostro mondo. Tutto è pulito, e ordinato; le pareti delle case sono bianche intonacate, con intere stanze separate per lavarsi e fare i bisogni; avete luci magiche invece del fuoco e delle candele, e c’è pure un calduccio squisito. Avete carri senza cavalli, quadri magici che parlano e che fanno vedere luoghi lontani, incredibili specchi magici che tenete per mano e mostrano immagini colorate che si muovono. Ho visto la mia faccia passare attraverso uno di questi e finire dentro gli specchi di altri, anche di persone molto lontane! Sapete tutti leggere, e fare di conto, ma usate strani numeri e strane lettere. E parlate strano, pure. Ad esempio, invece di dire ‘va bene’ dite sempre ‘ochèi’, e avete tantissimi vestiti, che cambiate tutti i giorni, anzi, avete tantissimi oggetti di ogni tipo, una quantità incredibile, e avete fontane dentro casa per lavarvi. Ma di tutte le meraviglie che a voi sembrano normali, una mi è rimasta impressa nella mente: il frutto che chiamate bananana. Sì, proprio così. A voi sembrerà banale, ma per me la bananana è qualcosa di… indescrivibile!

Quis mi ha spiegato che siete di un altro tempo, non d’un altro mondo, e che magari qualcuno di voi è perfino stato a Pavia e ha camminato sugli stessi ciottoli dove ho camminato io. Ma vi dirò la verità, a me sembra proprio un altro mondo. Comunque, farò come dice Quis, perché lui è saggio: cercherò di spiegare per voi le cose che non potete sapere.

Io sono cresciuto nel cuore di Pavia, la città delle cento torri, alte e strette, dal color marrone rossiccio dei mattoni. Se la guardi da lontano, Pavia sembra proprio un bosco d’inverno, pieno di alberi enormi, dritti come pioppi, ma senza foglie, tutti racchiusi dal muro di un grande giardino, e dall’acqua. Il muro del giardino sono le mura della città, che ci proteggono, e l’acqua è il nostro fiume Ticino. Ecco, tra queste mura, viuzze ciottolate, piazze, palazzi, botteghe e torri, sono cresciuto io…

Buffa, questa cosa, perché mi chiamo proprio come una torre – sapete, quelle alte torri sopra il mare che hanno una luce forte per avvisare le navi di notte che la costa è vicina? Esatto, il mio nome è Faro. Piacere di conoscervi!

Beh, in realtà, il Faro di questa storia sono io, ma qualche tempo fa: il Faro che doveva ancora vivere tante avventure. Pensate un po’, era un Faro che non aveva mai visto il mare! Non ha senso, vero? Ma Pavia è lontana dal mare, purtroppo.

Casa nostra è proprio nel mezzo della città, in un grande palazzo, il palazzo della famiglia Biscossi. È diversissima dalle vostre case: ha una sola stanza e una sola finestra, le pareti sono mattoni e ciottoli di fiume incastrati nella malta, e in terra ci sono giunchi secchi. I giunchi sono un tipo d’erba, alta, che cresce in riva al fiume. Dopo qualche giorno, la mamma li prende e li butta via, con tutto lo sporco e la puzza, e mette dei giunchi freschi e profumati. In un angolo della stanza c’è il focolare, e vicino una grande cassa di legno con dentro tutte le nostre cose, e mamma e papà ci siedono anche sopra. Io e Gisi ci sediamo per terra sui giunchi, ed è meglio perché sono morbidi. In un altro angolo c’è il grande letto di coperte, dove tutti dormiamo. Quando arrivarono Matteo e Pietro, la mamma fece un altro letto ancora, nell’ultimo angolo rimasto.

La mamma faceva grande fatica a quell’epoca, perché aveva il pancione enorme, come vi ho già detto. Ma non si dava mai riposo: oltre a cucinare e tenere la casa, lei è una bravissima sarta. Aveva fatto tutti i nostri vestiti, e anche i mantelli caldi fatte con tante pezze ritagliate. Lei cuce e ripara gli abiti per tante persone, e con i ritagli fa cose belle anche per noi. Avevamo anche le scarpe calde di cuoio che lei ci aveva fatto. Il povero Pietro aveva soltanto il vestito che indossava quand’era arrivato, e così, la mamma si mise subito a fargli qualche abito in più.

Papà invece, come sapete, è un capomastro, ma forse non sapete bene cosa questo voglia dire. Prende i blocchi di pietra, ruvidi e dalla forma qualsiasi, e li trasforma in bei conci ben squadrati. A volte deve solo rendere il blocco liscio e quadrato, come se fosse un enorme mattone. Quelli spesso servono per le basi degli edifici, ad esempio le torri. Infatti, mio papà ha fatto le basi di qualcuna delle torri di Pavia, scavando sotto la terra e mettendo grandi blocchi proprio nel modo giusto perché i muratori potessero metterci sopra i mattoni, e innalzare la torre. Ma spesso, e questa è la meraviglia, i blocchi diventano anche sculture. Ora, vi dico una cosa, e non è perché lui è mio papà, ma perché tutti sanno che è così: è il più bravo di tutta Pavia a fare dei blocchi, sculture. I miei primi ricordi sono di lui, che fa tap tap tap con il martello, e scaglie di pietra volano via, volano via, volano via e sotto, piano piano, emerge un grifone, un drago, una balena, un cavaliere, una sirena… ma è fantastico!

Anch’io sto imparando il mestiere, esattamente come Pietro con suo papà. Al tempo di questa storia, stavo levigando le sculture di papà: dovevo bagnare la pietra, metterci un po’ di sabbia e strofinarla attentamente con fili di erba secca per renderla liscia…

Papà dice sempre che i segreti del bravo capomastro sono la pazienza, l’attenzione e l’umiltà.

Dunque, io, suo figlio, sarò mai bravo come lui?

Vediamo – di pazienza ne ho pochissima, direi. Già non so se arriverò a scrivere la fine di questo racconto, perché magari mi stancherò prima. Se succede, vi chiedo scusa fin da ora, ma non dovete dire che non vi avevo avvisati; va bene?

L’attenzione – beh, ogni tanto ne ho eccome, se mi ci metto. Soprattutto quando voglio combinare qualche birbonata. Mi viene in mente la volta che ho fatto i nodi nella barba di maestro Paolo mentre dormiva. Ci è voluta tantissima attenzione, ma ce l’ho fatta! Devo dire che lui questa pazienza, per qualche strano motivo, non l’ha apprezzata affatto.

Umiltà –  accidenti, quella proprio non ne ho, e non sono nemmeno sicuro di sapere cosa sia. Peccato.

Bene, ora che vi ho fatto conoscere un po’ il mio mondo, possiamo passare al giorno dopo, quando la prima avventura ebbe inizio.

Un attimo. Secondo Quis vi devo dire anche l’anno, perché altrimenti non capite. Ecco, non sono bravo con i numeri, e l’anno è un numero molto grande, di quelli che mi fanno girare la testa. Proviamo: era l’anno mille, e cento, e cinquanta, e poi cinque. Così: MCV. Giusto? No, aspettate, così: MCLV. Giusto. Bene, adesso siamo pronti.

Capitolo 2 – Il Ghastengarda

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